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L’esercito al centro dello scontro di potere nel Pc cinese

In questi tempi agitati dall’imminente cambio della guardia al vertice, gli echi della lotta interna al Partito comunista cinese (Pcc) continuano ad arrivare sotto forma di trame degne di spy stories, aspetto che ne rende ancora più difficile la verifica. L’ultima arriva dal britannico Sunday Times che domenica scorsa, citando come fonte Qianshao, rivista di Hong Kong considerata affidabile per i suoi agganci politici dentro il Pcc , riportava nei dettagli la vicenda di uno scontro avvenuto nella notte del 19 marzo scorso a Pechino, tra soldati dell’Esercito popolare di liberazione (Pla) e agenti della Polizia del popolo. A ridosso della caduta in disgrazia del capo del Pc di Chongqing, Bo Xilai, annunciata il 15 marzo, si erano diffuse voci di un golpe tentato da uno dei suoi più potenti alleati, Zhou Yongkang, capo della sicurezza interna nazionale, con 800mila paramilitari della Polizia del popolo ai suoi comandi. Boato emerso dal gran polverone sollevato dallo scandalo politico più destabilizzante degli ultimi 30 anni, e subito smentito.

Ma qualcosa di grave accadde davvero quella notte, secondo Qianshao. Non un tentativo di golpe ma probabilmente uno scontro preventivo a scopo intimidatorio, nato dai timori del presidente Hu Jintao che la fazione alleata di Bo potesse reagire all’epurazione politica. Timori rafforzati, secondo la rivista, dal viaggio di Xi Jinping a febbraio negli Usa, dove al futuro capo dei capi cinese era stato riferito che il gruppo di Bo era potente e temibile. Un dettaglio che, sia detto a latere, rivela rapporti con la diplomazia americana difficilmente credibili.
Come sia, non appena Bo viene defenestrato, Hu, che è anche presidente della Commissione militare centrale, e dunque a capo di un esercito che conta 2,3 milioni di membri, cambia i vertici del 38esimo Gruppo, la guarnigione militare incaricata della difesa di Pechino (decisione documentata dai bollettini militari). Quattro notti dopo, il nuovo comandante, il generale Xu Linping, su ordine presidenziale spedisce un drappello di blindati carichi di soldati al quartier generale di Zhou Yongkang, poco distante da Zhongnanhai, la cittadella del potere che si estende a fianco della Città Proibita. Zhou Yongkang non c’è ma l’edificio è presidiato da paramilitari in assetto di battaglia che fronteggiano i soldati. Un ufficiale dell’esercito grida gli ordini ricevuti: occupare la sede e arrestare le menti del golpe. Un agente risponde che se attaccheranno un importante edificio di stato saranno considerati ribelli; intima dunque di ritirarsi altrimenti darà ordine di sparare. Ma i militari continuano ad avvicinarsi e a quel punto un poliziotto sparerà in aria una raffica di mitra. La stessa che, ascoltata a distanza nel silenzio della notte, il giorno dopo darà la stura alle voci di golpe. Alla fine l’esercito avrà la meglio, senza colpo ferire.
Qualche ora più tardi, Hu Jintao riceverà un’inquietante telefonata dall’ex presidente Jiang Zemin, 85 anni ma ancora molto potente capo della fazione vicina a Bo Xilai, che lo chiamerà per tessere gli elogi di Zhou Yongkang, “un bravo compagno con grande spirito di sacrificio per il partito” che non ha alcuna intenzione di organizzare colpi di stato. L’anziano leader avverte dunque Hu “di non credere alle voci diffuse da forze ostili internazionali e interne” e chiude la telefonata esortandolo a fermare la purga degli alleati di Bo Xilai. “Tenere acceso questo fuoco non farà bene né allo stato, né al popolo né a nessuno di noi”, e avverte: “a giudicare dagli eventi di questa notte, il compagno Zhou ha mostrato di avere grande controllo e di comprendere bene il quadro più vasto”. Nei giorni successivi l’intera leadership del Pcc serrerà le fila e proclamerà unità di intenti.
Fin qui, il racconto di Qianshao riportato dal Sunday Times. Al di là della credibilità data alle fonti, forse mai si saprà se i fatti riportati siano accaduti davvero e la ricostruzione appare molto teatrale. Finora non si hanno conferme né smentite ed è evidente che, nella attuale situazione, c’è chi ha interesse a diffondere simili naarrazioni. Solo la fine della transizione, che si consumerà tra il prossimo autunno e il marzo del 2013, farà capire. Tuttavia la storia è interessante perché condensa in modo plausibile le dinamiche in atto
I punti di scontro più forti sono infatti ormai acclarati, e oggetto di discussioni in corso da tempo. Tra i più importanti c’è il braccio di ferro in corso sull’esercito e il suo controllo. Da qualche mese, dicono le cronache, Hu Jintao medita di mantenere il predominio sulla Commissione militare centrale per almeno due anni oltre la scadenza del proprio mandato. Anche Jiang Zemin a suo tempo prolungò di quasi due anni la propria presidenza dell’organismo. Oggi i tempi politici sono anche più incerti di 10 anni fa, squassati come sono dalla vicenda di Bo Xilai che ha messo in luce le divisioni interne e fatto emergere i nodi politici ormai da tagliare, pena lo strangolamento del sistema. E se il discusso ex capo del Pcc di Chongqing è fuori gioco, non lo sono gli (ex) alleati che non intendono fare la sua fine.
Il contenzioso apertosi su uno dei pilastri fondamentali del potere nella Repubblica popolare cinese va tuttavia ben oltre gli interessi delle singole personalità e riguarda una questione più grande aperta da tempo da chi ritiene che controllo del Pla debba essere sottratto dalle mani del Pcc e assegnato allo stato. Definito “nazionalizzazione dell’esercito”, l’argomento ha suscitato una veemente alzata di scudi, dato l’enorme valore simbolico, e sostanziale, di un passaggio che comporterebbe un cambiamento epocale del quadro istituzionale cinese. Una raffica di articoli è partita dai media ufficiali, ultimo in ordine di tempo un editoriale del Quotidiano del popolo del 25 giugno scorso in cui si definisce “un errore” la nazionalizzazione del Pla e si chiede invece di rafforzare l’addestramento ideologico dei militari affinché “comandanti e truppe siano ancora più saldi nella loro fiducia sulla via del socialismo con caratteristiche cinesi”.
Al dunque, tutte le questioni affluiscono verso un unico, enorme, interrogativo di fondo: la coesione, presente e futura, del Partito. In caso di rottura, quale lealtà prevarrà nelle forze armate?

 
da “il manifesto”

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