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Riad ed Ankara provocano Iran e Russia. Per incastrare Washington

“Sembra che l’Arabia saudita leghi la sua sopravvivenza alla continuazione di tensioni e conflitti, e provi a risolvere i suoi problemi interni creandone nella regione (…) per esempio con l’imposizione della sanguinosa guerra nello Yemen e la creazione di instabilità in molti paesi”. Il commento del ministro degli esteri iraniano Jaberi Ansari, nonostante la sua brevità, descrive meglio di qualunque altro quanto sta accadendo in Medio Oriente, dopo la decisione da parte del regime wahabita di chiudere i rapporti diplomatici con Teheran dopo l’assalto alla sua ambasciata in Iran scatenato all’esecuzione dell’imam sciita Nimr al Nimr. Decisione seguita quasi immediatamente da analoghe mosse adottate nelle ultime ore dai regimi del Sudan e del Bahrein.

La secolare frattura tra il campo sunnita e quello sciita si è improvvisamente allargata in un contesto globale che vede i paesi capofila schierati su opposti fronti in merito ad altre questioni assai più terrene – il futuro della Siria e dell’Iraq, il mercato energetico, il ridisegno dei confini dell’intero Medio Oriente – ed in un clima di accresciuta competizione interimperialistica tra blocchi che si contendono il controllo del pianeta. Blocchi che, in un modo o nell’altro, devono fare i conti con due novità che l’accelerazione storica che stiamo vivendo ci segnala.
Intanto il recente recupero di agibilità da parte del blocco sciita sull’onda del contrasto allo Stato Islamico e ad altre organizzazioni del fondamentalismo sunnita protagoniste della destabilizzazione di vari paesi del Medio Oriente, spesso su mandato delle petromonarchie e della Turchia e con una tolleranza da parte dei paesi occidentali che in parte continua a persistere nonostante la ‘guerra totale’ teoricamente proclamata contro Daesh.
Secondo, il conseguente isolamento delle potenze di quella che su questo giornale abbiamo denominato “Polo Islamico” e che altri hanno ribattezzato efficacemente ‘Nato sunnita’.
Paradossalmente proprio mentre l’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo si rafforzano dal punto di vista geopolitico e militare, cominciando a dettare legge su un quadrante del pianeta sempre più ampio, l’intervento militare russo in Siria e in Iraq ha ridotto ampiamente le capacità di manovra di Riad. Ciò mentre il regime wahabita deve fare i conti con un crollo della propria economia provocato dall’affossamento del prezzo del petrolio al quale Riad ha lavorato alacremente allo scopo di indebolire i propri concorrenti energetici e spesso competitori geopolitici – l’Iran, in primo luogo, ma anche la Nigeria, la Russia e il Venezuela, senza dimenticare gli Stati Uniti – e che ora si ritorce contro un paese che non vuole rinunciare a diventare in breve tempo una potenza militare globale vedendosi obbligato a tagliare altrove, imponendo misure di relativa austerity.
Di fronte ad una debolezza che fa da contraltare alle aspirazioni egemoniche crescenti da parte della classe dirigente del blocco delle petromonarchie, l’Arabia Saudita ha reagito così come aveva già fatto qualche settimana fa il regime turco. Creando tensioni e conflitti, drammatizzando una situazione già tesissima, pur di conservare la scena e cercare di uscire dall’angolo.
Se la Turchia (alleato ma anche competitore di Riad all’interno del blocco sunnita) ha scelto la strada della provocazione militare, abbattendo un caccia russo nei cieli della Siria, il regime wahabita ha scelto un ‘missile’ di altra natura: la condanna alla pena capitale di un popolare imam sciita, messo a morte insieme a varie decine di militanti jihadisti solo in quanto avversario politico, anche se accusato di improbabili contiguità con un non meglio definito ‘network terrorista’. Sul patibolo assieme ad al Nimr, messaggio più che esplicito ai nemici di Riad dentro e fuori i propri confini, c’erano anche altri cinque esponenti della comunità sciita dell’Arabia Saudita, alcuni dei quali accusati di aver guidato le proteste popolari esplose nel 2011 nelle provincie orientali del regno contro la discriminazione e l’emarginazione al quale il regime costringe una minoranza che rappresenta il 15% della popolazione totale.
Il “missile” lanciato contro Teheran e le popolazioni sciite che già ribollono in tutto il Medio Oriente e nel resto del pianeta, però, va letto anche come un chiaro messaggio a Washington. Il regime wahabita infatti non ha mai perdonato all’amministrazione statunitense l’avvio e poi la chiusura della trattativa con Teheran sul programma nucleare iraniano, e men che meno l’apertura al dialogo con la Russia in merito ad una soluzione negoziata della guerra in Siria imposta da un intervento militare di Mosca a fine settembre che ha sparigliato le carte impedendo per ora la realizzazione della strategia del fronte sunnita, ovvero la rimozione del governo Assad per via esclusivamente militare. Se nel contesto regionale l’alleanza seppur competitiva tra Riad e Ankara risulta oggettivamente schiacciante nei confronti del destabilizzato fronte sciita, l’intervento in Medio Oriente di potenze di caratura mondiale come la Russia hanno frustrato i piani delle oligarchie sunnite. Che di fronte al rinculo subito stanno quindi tentando di allargare il gioco, coinvolgendo nuovi attori al proprio fianco, in primis gli Stati Uniti.
Il problema è che però da tempo le agende di Washington e quelle dei suoi ex fidi alleati in Medio Oriente (non solo Ankara e Riad, ma anche Tel Aviv) coincidono sempre meno ed anzi su molte questioni gli interessi degli Stati Uniti e quelli delle potenze regionali emergenti sono di natura opposta. E ciò spinge non solo Turchia e Arabia Saudita a “disobbedire” sempre più spesso ad una volontà statunitense eseguita finora pedissequamente per decenni, ma addirittura a provocare Washington tentando così di forzarne le scelte. Mentre Obama trattava con Putin sul “contrasto allo Stato Islamico” (cioè sul ridisegno globale dello spazio geopolitico mediorientale) ecco che Ankara accende la miccia dello scontro con Mosca. E mentre gli Stati Uniti si vedono costretti a trattare con l’Iran contribuendo oggettivamente a isolare le petromonarchie ecco che l’Arabia Saudita drammatizza in maniera deliberata lo scontro con Teheran e il resto del fronte sciita. In entrambi i casi si tenta di mettere Washington di fronte al fatto compiuto, e di convincere la recalcitrante e sempre più debole superpotenza statunitense a intervenire al proprio fianco contando sul fatto che in uno scontro tra ex alleati e nemici storici, Obama o chi per lui scelgano, seppur obtorto collo, di spalleggiare le sempre più aggressive nuove potenze regionali ormai proiettate sullo scenario internazionale.
D’altronde Riad sente cedere il terreno sotto i piedi. Durante la campagna militare che ha portato alla riconquista di Ramadi una parte consistente della comunità sunnita irachena si è finalmente mobilitata contro lo Stato Islamico al fianco dei curdi e degli sciiti iracheni e iraniani. Questo mentre mesi di bombardamenti e un’invasione in grande stile dello Yemen da parte degli eserciti della ‘Nato sunnita’ non hanno finora portato alla sconfitta dell’insorgenza degli Houthi che guardano all’Iran. Infine un azzeccato raid (russo, siriano, di Hezbollah? Poco cambia…) ha fatto fuori pochi giorni fa Zahran Alloush e metà dello stato maggiore del “Esercito dell’Islam”, la milizia jihadista finanziata e sostenuta dai Saud in Siria, presentata finora come alternativa allo Stato Islamico e ad al Qaeda con i quali la pedina dell’Arabia Saudita ha in realtà moltissimo in comune.
Vedremo se la crisi precipiterà del tutto o se gli apprendisti stregoni saranno in grado di bloccare l’escalation prima che la polveriera esploda generando conseguenze difficili da immaginare. Certo il contesto non è dei migliori, e quella che nelle intenzioni degli irresponsabili strateghi della destabilizzazione forse viene concepita come una “scaramuccia” tesa a forzare la mano di altri soggetti in grado di modificare a proprio favore equilibri sfavorevoli, potrebbe improvvisamente sfociare in una guerra aperta. I mari, i cieli e i territori del Medio Oriente sono sempre più affollati di caccia, di navi da guerra, di droni e di truppe di praticamente tutte le maggiori potenze militari mondiali (Cina esclusa, per ora) e la scintilla che incendia la prateria potrebbe scoccare, come è avvenuto spesso in passato, a causa di un ‘banale incidente’.
A saltare per primo nei prossimi giorni, ad esempio, potrebbe essere il precarissimo equilibrio raggiunto in Bahrein solo grazie ad una dimostrazione di forza dei Saud, che alcuni anni fa, insieme ad altre petromonarchie, inviarono nel piccolo paese una ingente forza militare per schiacciare la rivolta della popolazione sciita che chiedeva al regime sunnita più democrazia e la fine della discriminazione. La rottura delle relazioni diplomatiche con Teheran ordinato dal regime fantoccio del piccolo paese non potrà che scatenare la reazione della maggioranza sciita della popolazione.
Oppure a provocare l’incidente potrebbe essere la ‘solita Israele’, oggettivamente alleata del fronte sunnita (o ‘Polo Islamista’ che dir si voglia) contro l’asse sciita. Approfittando del contesto e anche in questo caso tentando di mettere Washington davanti al fatto compiuto, Tel Aviv sta nelle ultime settimane aumentando il numero e l’intensità degli attacchi contro Hezbollah, di fatto dando una mano a quel terrorismo jihadista del quale Israele si fregia, ingiustamente, di essere strenuo nemico.

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