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17 marzo 1991: il 77% dei sovietici disse Sì all’Urss

Come sappiamo bene alle nostre latitudini, i referendum vengono indetti perché il alto si sia sicuri di fare esattamente il contrario di quanto espresso dalla “volontà popolare”. Il 17 marzo 1991 in Urss si tenne un referendum per la conservazione o meno dell’Unione Sovietica, pur con un rinnovato accordo tra le Repubbliche. Oltre il 76% (il 71% in Russia) dei votanti si espresse per la conservazione dell’Unione; a fine anno, nella ormai tragicamente famosa “notte di sbornie” del 8 dicembre nella Belovežskaja puša, i presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina, Boris Eltsin, Stanislav Šuškevič e Leonid Kravčuk decisero il contrario e non persero tempo a informarne la Casa Bianca.

Oggi, secondo un sondaggio condotto a inizio marzo dall’ufficiale VTsIOM, la maggioranza (64%) dei russi intervistati voterebbe nuovamente per la conservazione dell’Urss. Secondo le età, le percentuali variano dal 47% tra i 18-24enni al 76% tra gli ultrasessantenni. Contrari si dichiarano il 20% degli interpellati. Tra i principali colpevoli del mancato rispetto della “volontà popolare”, gli odierni russi indicano la compagine di Boris Eltsin (13%), deputati e governo (17%) e Mikhail Gorbačev (27%); il 36% considera anzi la fine dell’Urss come il principale errore commesso dall’ex presidente sovietico. Appena il 2% incolpa gli Stati Uniti.

Il referendum del 17 marzo 1991 era stato preceduto, per gran parte del 1990, dalla cosiddetta “parata delle sovranità”, per cui le varie Repubbliche, a partire da quelle baltiche, fino alla Russia, avevano adottato “Dichiarazioni di sovranità nazionale”, mettendo in discussione la priorità della legislazione federale su quella repubblicana e, con ciò stesso, mandando in crisi la già traballante economia sovranazionale. Come ricordava ieri l’agenzia nnm.me, nell’aprile 1990, l’Urss adottava la legge relativa alle modalità di uscita delle Repubbliche dall’Unione. Nel dicembre successivo, proprio per cercare di mettere un freno alla “parata delle sovranità”, il Congresso dei Deputati del popolo dell’Urss (massimo organo di potere dal 1989 al 1991) approvava la risoluzione “Sul concetto generale del nuovo accordo dell’Unione e le modalità della sua conclusione”: in pratica, il piano di uno stato federativo basato sull’unione volontaria di Repubbliche sovrane. In ogni caso, il vertice statale (Gorbačev in testa) decideva per il referendum. Dopo che 1.665 delegati su 1.816 al quarto Congresso dei Deputati del popolo aveva optato per la conservazione dell’Urss, il 16 gennaio 1991 il Soviet Supremo adottava la risoluzione sull’organizzazione del referendum: il primo e l’ultimo in settant’anni di storia dell’Unione Sovietica.

La consultazione si tenne in 8 delle Repubbliche sovietiche – Russia, Ucraina, Bielorussia, Uzbekistan, Azerbajdžan, Kirghizia, Tadžikistan, Turkmenistan – e in alcune delle Regioni autonome (Abkhazia, Ossetia meridionale, Gagauzia, Transdnestria) facenti parte di Repubbliche sovietiche – Lituania, Lettonia, Estonia, Georgia, Armenia e Moldavia – in cui il referendum non si teneva, perché vi era stata già proclamata (o ci si apprestava a farlo) l’indipendenza.

Su poco meno di 186 milioni di sovietici aventi diritto al voto, parteciparono quindi al referendum 148 milioni e 574mila cittadini: 113 milioni e 512mila (76,4%) si espressero per il sì alla conservazione dell’Unione; 32 milioni e 304mila (21,7%) per il no. Nella Repubblica federativa russa, il sì raggiunse il 71,34%; in Ucraina il 70%; in Bielorussia l’82,7%; nelle repubbliche centroasiatiche si andò dal 93,3% dell’Uzbekistan al 97,9% del Turkmenistan.

Ma poi venne il “golpe immaginario” – come lo definì l’ultimo Presidente del Soviet Supremo dell’Urss, Anatolij Lukjanov – dell’agosto che, volente o nolente, contribuì all’ascesa di Boris Eltsin. L’8 dicembre 1991, gli artefici delle “sovranità” si infischiarono bellamente di tali percentuali e proclamarono la cosiddetta Comunità degli Stati Indipendenti e il 12 dicembre il Soviet Supremo della Repubblica federativa russa adottò la risoluzione “Sulla denuncia dell’Accordo sulla formazione dell’Urss”. In pratica, come stabilì la Duma russa alcuni anni dopo, nella puša di Beloveža, al confine tra Bielorussia e Polonia, fu denunciato un accordo internazionale della Federazione russa – cioè l’accordo di Unione sottoscritto da tutte le Repubbliche in base alla Costituzione sovietica – che, secondo la Convenzione di Vienna del 1969, non poteva essere denunciato. Comunque la si volesse girare, la “notte brava” di Eltsin, Šuškevič e Kravčuk non si basava su alcun fondamento del diritto, ma solo su quelli della forza. Una forza che veniva da 70 anni di tentativi internazionali di abbattere quello che un tempo era stato, per alcuni decenni, il primo (per essere precisi, il secondo, avrebbe detto Lenin: dopo la Comune di Parigi) esperimento al mondo di uno stato degli operai e contadini. Con cinquant’anni di ritardo, si compiva il complotto per cui, alla fine degli anni ’30, i diversi gruppi di opposizione in Urss erano stati accusati di collusione con i servizi segreti nazisti, giapponesi, polacchi: smembramento dell’Urss, restaurazione del capitalismo e scorporamento dei territori delle diverse Repubbliche sovietiche.

Ecco che oggi, quello scorporamento, assume la veste di un progetto di Confederazione tra Ucraina e Polonia: “il sogno di sempre dell’aristocrazia polacca: feudatari polacchi e servi della gleba ucraini”, commenta l’ultimo direttore della ex-corazzata propagandistica gorbacioviana, Moskovskie Novosti, l’osservatore politico Vitalij Tretjakov, non certo acclamatore entusiasta del periodo sovietico. Tra un paio d’anni l’Ucraina sarà pronta per il “progetto che Kiev e Varsavia, sponsorizzati da Washington (ma no?!) stanno discutendo da almeno un anno e mezzo”, scrive oggi Pravda.ru: uno stato federato con capitale, presumibilmente, nell’ex polacca L’vov. L’annuncio è stato dato proprio ieri, nel corso della conferenza dal titolo eloquente “Militarizzazione della Crimea occupata come minaccia alla sicurezza internazionale”. Secondo fonti ucraine, il sogno del presidente polacco Andrzej Duda sarebbe quello di inglobare nella futura entità – federata o confederata: qui le visioni polacca e ucraina si dividono – anche le repubbliche baltiche, rinverdendo così i fasti dell’antico regno di Polonia, dal Baltico al mar Nero. A mantenere ancora le distanze dal progetto, scrive Pravda.ru, rimane pur sempre il macello della Volinija, quando le SS ucraine di Stepan Bandera e Roman Šukhevič, tra il1942 e il 1944 massacrarono tra 600 e 900mila polacchi, oltre che centinaia di migliaia di ebrei, ucraini e soldati sovietici.

E ieri, in occasione del 25° anniversario di quel referendum del 17 marzo 1991, i neonazisti ucraini hanno voluto rimarcare lo spirito “democratico e europeista” che li anima. I bravi del battaglione Azov, reduci dalla brutta figura del giorno precedente a Riga, quando erano stati sloggiati persino dal corteo dei nazisti autentici delle ex Waffen SS lettoni, hanno voluto prendersi la rivincita, alla maniera fascista, aggredendo gruppi di anziani che, a Kiev, stavano per l’appunto celebrando la ricorrenza del referendum. Nonostante il meeting fosse autorizzato, non era protetto dalla polizia (ma guarda!), così che gli squadristi, secondo il metodo classico, si sono trovati di fronte solo anziani indifesi e hanno “eroicamente” e in tutta tranquillità disperso la manifestazione, spaccando la testa a uno dei partecipanti.

Pare comunque che la storia, per ora solo iconograficamente, si voglia prendere la rivincita sugli affossatori dell’Urss e sui loro epigoni, SS baltici e banderisti ucraini: a Zaporože, una delle maggiori città dell’Ucraina meridionale, dallo scorso 12 marzo un paio di centinaia di “figli del postsovietismo” stanno tentando senza successo di smontare il monumento a Lenin più grande (quasi 20 metri di altezza) di tutta l’Ucraina. Come avrebbe detto Theodore Fontane “Un’immagine sepolta nella nostra anima non impallidisce mai completamente”.

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