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Il disimpegno russo in Siria nel Risiko della competizione globale

La Russia è di nuovo riuscita a spiazzare tutti. I suoi competitori, in primo luogo, ma anche i suoi alleati e protetti in Medio Oriente. L’annuncio di qualche giorno fa del presidente Putin sul ritiro del grosso delle forze russe dal territorio siriano (in tutto cinquemila uomini, caccia, elicotteri, navi da guerra) ha di nuovo colto di sorpresa tutte le potenze mondiali e regionali impegnate nel conflitto che da cinque anni devasta la Siria e i paesi contigui. Esattamente come era avvenuto alla fine di settembre dello scorso anno, quando in poche ore ingenti forze russe vennero trasferite a Damasco nel primo intervento militare di Mosca degli ultimi decenni al di fuori dell’area dell’ex Unione Sovietica.

In cinque mesi i massicci bombardamenti dell’aviazione russa contro le postazioni dell’Isis, ma soprattutto contro le milizie jihadiste al servizio diretto delle potenze sunnite – Al Nusra, Ahrar al Sham, Jaysh al-Islām e altre – hanno completamente ribaltato la situazione sul campo. La copertura aerea offerta dai Sukhoi e dagli elicotteri da combattimento russi, sommata alla concessione di moderni ed efficienti mezzi alle forze armate di Damasco, hanno permesso in pochi mesi ai lealisti di bloccare l’avanzata delle organizzazioni jihadiste e di passare alla controffensiva, ottenendo la liberazione di numerose località strategiche. Di fatto l’intervento russo ha permesso all’esercito di Damasco, alle milizie iraniane e irachene e a Hezbollah di riconquistare fette significative di territorio, mettendo in relativa sicurezza la capitale e altre importanti città del paese, e mirando in particolare a sigillare la frontiera con la Turchia, paese dal quale negli ultimi anni la cosiddetta ‘autostrada della jihad’ ha permesso, grazie all’attiva complicità di Ankara, di rifornire le milizie fondamentaliste di volontari provenienti da tutto il mondo, di armi e di soldi. Questo mentre le milizie curde rafforzavano il controllo nel nord del paese e passavano all’offensiva verso sud, affiancandosi di fatto alle forze lealiste in una manovra a tenaglia contro la galassia jihadista.

In poche settimane l’intervento russo ha prodotto molti più risultati di quanti la “timida” e ambigua coalizione contro l’Isis guidata da Washington sia riuscita a determinare in un anno e mezzo di operazioni militari. E nel frattempo gli Stati Uniti hanno dovuto per l’ennesima volta aggiustare il tiro nella regione, abbandonando alcune delle forze ‘ribelli’ che avevano fino a quel momento appoggiato con l’obiettivo di rovesciare il governo siriano e puntando invece al sostegno alle Forze Democratiche Siriane imperniate sulle Ypg curde, venendo a patti con l’Iran e con la stessa Russia, con la quale la coalizione obamiana ha dovuto stabilire una certa dose di coordinamento in nome del ‘comune nemico’.

L’intervento di Mosca in Medio Oriente ha parzialmente sottratto la Russia all’isolamento stretto attorno a Mosca dai suoi nemici e competitori a partire dalla crisi ucraina, rendendo Putin e i suoi ancora più popolari sia in patria che nel resto del pianeta.
Mentre folle festanti accolgono in questi giorni i caccia e gli elicotteri di Mosca di ritorno dalla Siria, Vladimir Putin si appunta la medaglia di risolutivo ma responsabile leader internazionale, pronto a fare un passo indietro pur di favorire il negoziato e il compromesso.

Perché allora Putin ha ordinato la “ritirata”, seppur parziale, delle forze militari russe dalla Siria?
Per vari motivi.

Intanto perché non vuole affatto mantenere a lungo il suo esercito in un pantano a migliaia di chilometri da casa che rischia di degenerare ulteriormente, offrendo oltretutto nuovi argomenti e nuovo appeal alle cosiddette forze ‘ribelli’. Inoltre l’operazione militare ha avuto costi ingenti che Mosca non può permettersi di sostenere all’infinito, provata com’è dalle sanzioni internazionali e dall’embargo, oltre che dal crollo dei prezzi degli idrocarburi.

Secondo: Mosca ha dimostrato, dando vita ad un massiccio intervento militare fuori dal suo ‘cortile di casa’, che nessuna potenza nemica può intervenire per minare i suoi interessi e quelli dei suoi alleati aspettandosi che la Russia rimanga a guardare e subisca passivamente. Ma l’establishment putiniano sa bene che, in particolare nel Medio Oriente tribalizzato e destabilizzato da 25 anni di interventi delle potenze imperialiste e regionali, nessuna delle parti in causa può vincere veramente una contesa che vede il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di soggetti e che rischia di trasformarsi da conflitto locale in guerra mondiale, seppur a pezzi. Uno scontro totale che la Russia non ha mai cercato e che non è affatto pronta e disposta a combattere. Per questo il sostanziale – anche se non totale – ritiro russo dalla Siria costituisce un passo verso un netto abbassamento della tensione nell’area, rappresenta un elemento di de escalation che invita tutte le altre potenze in campo ad “abbassare i toni” e ad accontentarsi di una situazione che, di fatto, non vede né vinti né vincitori.

E’ vero che oltre a colpire Daesh le forze russe hanno concentrato i loro sforzi contro le organizzazioni jihadiste e islamiste che rappresentano la longa manus del fronte sunnita, e accrescendo così la frizione tra Washington e le petromonarchie. Ma è anche vero che ora il ritiro russo toglie ad Ankara e a Riad il pretesto principale per il più volte annunciato ma ogni volta rimandato intervento diretto delle potenze sunnite nella contesa siriana. Inoltre il disimpegno di Mosca dalla Siria concede respiro a Washington nell’area, permettendo ad Obama di salvare almeno in parte la faccia e di continuare a poter vantare un certo ruolo in Medio Oriente che, in realtà, appare estremamente ridimensionato rispetto al passato. La Russia vuole assolutamente recuperare un rapporto virtuoso con la Turchia e l’Arabia Saudita che Mosca ha alacremente perseguito negli anni scorsi prima che il fronte sunnita iniziasse a perseguire con determinazione il ridisegno a proprio vantaggio degli equilibri imposti dalle potenze coloniali al Medio Oriente con il trattato di Sykes Picot. Mosca, di fatto, tenta di svolgere una funzione ‘conservativa’ degli attuali equilibri mediorientali, chiarendo che ogni modifica dovrà tenere necessariamente conto degli interessi suoi e dei suoi alleati.

L’intervento russo ha impedito ai jihadisti – e ai paesi che li patrocinano –  di sopraffare il governo siriano, i curdi e le forze dell’asse sciita (che allo stato hanno il controllo di quasi due terzi della Siria) ma non ha affatto puntato a sbaragliare del tutto il fronte fondamentalista e i ribelli, parte dei quali Mosca ha addirittura tentato di portare dalla sua parte o comunque di rendere più inclini ad un negoziato che solo il blitz russo ha reso possibile. Ciò a costo di scontentare e di ridimensionare il ruolo e le pretese dei suoi alleati e protetti, in primis Assad ma anche l’Iran, le cui forze combattenti sono state nei mesi scorsi caldamente ‘invitate’ da Mosca ad abbandonare il suolo siriano.

Vedremo se la mossa russa sortirà gli effetti sperati. Certo le incognite non mancano. Intanto occorrerà capire quanto la proclamazione dell’autonomia da parte del Rojava curdo inciderà sull’alleanza “de facto” tra Ypg e forze lealiste siriane. La tensione tra le autorità e le forze militari di Damasco e le forze combattenti curde in alcune località del nord della Siria non lascia presagire nulla di buono. Ed inoltre la ‘formalizzazione’ dell’autonomia curda in Siria da parte dei curdi potrebbe fornire un ulteriore elemento al quale la Turchia potrebbe attaccarsi per giustificare un intervento diretto e una invasione del paese da parte delle forze armate di Ankara che sembra rappresentare una priorità nell’agenda del regime neo-ottomano.

Sul fronte opposto, invece, le incognite maggiori vengono dal governo siriano e dall’asse sciita. L’esecutivo di Damasco potrebbe tentare di forzare gli equilibri cristallizzati dall’intervento russo, sia sul campo sia nel negoziato di Ginevra, approfittando del fatto che ora che le forze jihadiste sono sulla difensiva e in difficoltà, anche contravvenendo alle disposizioni di Mosca. Com’è noto, nonostante il cessate il fuoco abbia nettamente ridotto i combattimenti in tutto il paese, gli scontri continuano cruenti in importanti località tra lealisti e curdi (ancora sostenuti dai russi) da una parte e le organizzazioni che non hanno accettato la tregua dall’altra, cioè Daesh, Al Nusra e altri gruppi affini.

In questo quadro le forze iraniane, irachene e libanesi che sono state determinanti prima nella difesa di Damasco contro le formazioni fondamentaliste sunnite e poi nella controffensiva da ottobre in poi, potrebbero puntare ad un parziale disimpegno. Ma le continue provocazioni dell’Arabia Saudita e del resto della ‘Nato sunnita’ – continue stragi in Yemen, messa a morte di decine di leader delle minoranze sciite interne da parte della petromonarchie, dichiarazione di Hezbollah come “organizzazione terroristica”, tentativo di destabilizzare il Libano con la cancellazione da parte di Riad di una ingente donazione di armi all’esercito di Beirut – dimostrano che il regime wahabita e i suoi alleati non restano certo a guardare di fronte al ridimensionamento delle proprie mire in Siria e in Iraq. Il che potrebbe obbligare Teheran e gli Hezbollah a “rispondere per le rime” laddove sono impegnate direttamente nello scontro con i rivali sunniti, come ad esempio in Siria. Senza contare che in Iraq nelle ultime settimane una parte del campo sciita, guidato da Moqtada al Sadr, è protagonista di una vera e propria offensiva nei confronti del governo – che pure è a guidato da un personaggio vicino a Teheran – le cui conseguenze potrebbero essere rilevanti.

Un’ultima, ma non meno importante incognita, è rappresentata dal imminente cambio della guardia alla Casa Bianca. Una eventuale vittoria alle presidenziali USA dell’estremista Donald Trump concederebbe nuova linfa ai settori statunitensi più reazionari. E comunque anche l’affermazione di Hillary Clinton potrebbe aumentare la voglia di protagonismo in Medio Oriente da parte dell’amministrazione statunitense, causando un effetto a catena per ora difficilmente prevedibile. Per ora la diffidente collaborazione tra le due coalizioni internazionali attive in Medio Oriente – quella guidata da Washington e quella diretta da Mosca, con alcuni soggetti che di fatto aderiscono ad entrambe – continua nello sforzo di cacciare Daesh da Raqqa e Mosul, mentre le forze lealiste avanzano per liberare Palmira.
Nel frattempo in Iraq e in Siria il bilancio dei morti e delle devastazioni aumenta così tanto che è diventato difficile, quasi impossibile, tenerne il conto esatto.

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