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Raqqa: gli interrogativi curdi, il doppio gioco Usa, le pretese turche

Prosegue da alcuni giorni ormai l’offensiva lanciata da varie forze contro Raqqa, di fatto la ‘capitale’ dello Stato Islamico in Siria. Ad annunciarne l’inizio di un’operazione militare ribattezzata “Collera dell’Eufrate” era stata, lo scorso fine settimana, la portavoce delle Forze Democratiche Siriane Jihan Cheikh Ahmad, a capo di una coalizione che riunisce le milizie curde e varie formazioni militari turcomanne e arabe rappresentative di alcune delle comunità che abitano il nord del martoriato paese.

«Raqqa sarà liberata grazie ai suoi figli e alle forze arabe, curde e turcomanne, eroi che combattono sotto la bandiera delle Forze Democratiche Siriane», con «la partecipazione attiva delle Unità di Protezione del Popolo (YPG), in coordinamento con la coalizione internazionale» a guida statunitense, aveva spiegato la comandante Ahmad nel corso di una conferenza stampa.

Nell’offensiva, che è riuscita finora a liberare una decina di villaggi nei dintorni della città ma che si è arenata alle porte di Raqqa, stanno partecipando circa 30 mila combattenti, per lo più inquadrati nelle Forze Democratiche Siriane, con un forte sostegno e contributo statunitense. Sul terreno stanno combattendo alcune decine di membri elle forze speciali inviate da Obama e la città è oggetto da giorni dei raid compiuti dai caccia della ‘coalizione’ a guida statunitense.

Campagna militare a parte – compresa la strage di civili compiuta ieri da un bombardamento dei caccia statunitensi – le implicazioni e le incognite riguardanti l’offensiva che potrebbe portare alla sconfitta (definitiva? difficile dirlo…) dello Stato Islamico in Siria sono numerose.

Teoricamente, come per la contemporanea offensiva contro Mosul in Iraq, tutte le forze in campo mirano a sconfiggere e a cacciare i jihadisti dall’ultima grande città che occupano nel paese. Ma la questione che divide il fronte ‘anti Isis’ è: chi deve liberare Raqqa? Chi gestirà la città dopo l’eventuale liberazione? In gioco ci sono il futuro assetto della Siria, il ruolo che alcuni paesi potranno rivendicare ad un tavolo di spartizione del Medio Oriente che prima o poi ridisegnerà i confini nati dalla divisione coloniale dei territori dell’Impero Ottomano da parte di Francia e Gran Bretagna, la formalizzazione politica e diplomatica di aree di influenza che ogni attore tenta ora di imporre direttamente o per interposta persona.

Questioni non da poco, che in questi ultimi giorni hanno creato ulteriori fibrillazioni tra le varie forze e potenze coinvolte nel conflitto, all’insegna del ‘tutti contro tutti’ che caratterizza lo scenario mediorientale. I soggetti in campo, coinvolti in vario modo, sono del resto numerosi e i rapporti reciproci sono contraddittori, le alleanze mutevoli e parziali. Il tutto in attesa di capire se Donald Trump e la sua amministrazione cambieranno in maniera significativa la politica estera di Washington nell’area oppure no. Per ora sono in troppi ad esultare – da Israele ad Assad, da Erdogan a Daesh, e sicuramente più di uno rimarrà deluso.

L’offensiva contro Daesh a Raqqa ha rinsaldato, almeno formalmente, le relazioni tra la guerriglia curda nel nord della Siria e gli Stati Uniti. Mollati quasi del tutto da Mosca che in cambio di un corridoio energetico di carattere strategico ha ripreso le relazioni con la Turchia, i curdi del Pyd tentano, stringendo i legami con l’amministrazione statunitense, di agganciarsi ad una sponda internazionale che sia in grado di rafforzare lo sforzo militare finora profuso contro i jihadisti anche fuori dal Rojava, e di controbilanciare l’intervento turco in quell’area. Un intervento che da indiretto – con il sostegno ai gruppi fondamentalisti e alle milizie turcomanne legate ad Ankara – è diventato diretto con l’invasione della Siria da parte di un consistente contingente militare accompagnato da colonne di carri armati.

Il problema è che gli Stati Uniti – coscientemente, ma anche a causa della confusione che regna a Washington – giocano su due tavoli. Da una parte l’amministrazione Obama arma i curdi e li sostiene con i raid aerei e le azioni dei propri commandos, dall’altra però appoggia anche alcuni dei gruppi armati fondamentalisti agli ordini del regime turco. Washington utilizza strumentalmente le milizie curde – così come il Pyd spera di riuscire ad utilizzare il sostegno Usa – per cercare di frenare l’invadente e irriverente protagonismo turco, ma non può non tenere conto delle pressanti richieste di un paese guidato da un regime, quello di Erdogan, che minaccia di continuo di sganciarsi dalla Nato e di ‘fare da sé’. Di fatto, per non rimanere completamente tagliata fuori da una regione del globo nel quale la sua influenza è ridotta ormai ai minimi termini, Washington è impegnata in un difficile e rischioso doppio gioco che da un lato blandisce le pretese turche e dall’altro tenta di ridimensionarle.

«Abbiamo convenuto in maniera definitiva con la coalizione internazionale che non ci sarà alcun ruolo per la Turchia o le sue forze alleate» aveva annunciato alla vigilia dell’offensiva Talal Sello, uno dei portavoce delle Forze Democratiche Siriane, parlando anche a nome dell’alleato statunitense.
E le accuse lanciate nei giorni scorsi da Ankara contro Washington sembravano confermare il quadro, col regime turco che non solo rinfacciava agli Usa di “permettere una conquista curda di Raqqa che cambierebbe gli equilibri etnici della regione” ma rivendicava un ruolo diretto nell’offensiva delle truppe che nelle scorse settimane hanno occupato centinaia di chilometri quadrati di territorio siriano scacciando i jihadisti di Daesh ma assai più spesso le milizie curde che avevano già liberato quei territori.

A cercare di togliere argomenti al regime turco la stessa comandante delle Fds, Jihan Sheikh Ahmad, aveva annunciato che dopo la liberazione Raqqa sarà amministrata da un consiglio civile e da un comitato militare composti dai rappresentanti degli abitanti e non dai liberatori.

Ma poi la visita non annunciata del capo di stato maggiore statunitense Dunford ad Ankara e il lungo incontro con il suo omologo locale Akar hanno dimostrato che Washington è assai sensibile alle pretese di Erdogan. E così in una dichiarazione ufficiale l’alto papavero Usa ha affermato che le milizie curde non entreranno nella città e che “la coalizione e la Turchia lavoreranno insieme per conquistare e governare Raqqa”. Smentendo nettamente le affermazioni del portavoce delle Fds, il curdo Talal Sello, Dunford ha aggiunto che l’operazione deve coinvolgere anche consistenti forze arabe e sunnite, a partire dal cosiddette Esercito Libero Siriano.
Una rassicurazione evidentemente insufficiente per il governo turco che ha schierato altri 80 carri armati lungo la frontiera con l'Iraq ed ha ammassato altre truppe di terra lungo quella siriana.

A dimostrazione che quelle di Dunford non erano dichiarazioni di circostanza Liwa Thuwar Raqqa, piccola milizia sunnita affiliata all’Esercito Siriano Libero, con un passato di collaborazione coi qaedisti di Al Nusra ma poi avvicinatasi alle Forze Democratiche Siriane, ha annunciato il suo disimpegno dall’offensiva militare contro Raqqa.

A soffiare sul fuoco delle contraddizioni sono in questi giorni i media arabi, in particolare quelli di proprietà saudita, che hanno il dente avvelenato ora che i gruppi fondamentalisti etero-diretti dalle petromonarchie in Iraq e Siria sono in ritirata. Se da una parte criticano aspramente il regime di Erdogan, accusato di aver abbandonato la difesa delle comunità sunnite (leggi “i gruppi jihadisti”) in nome della ricucitura con la Russia e un tentativo di parziale normalizzazione con Iran e Damasco, dall’altra parte i media di proprietà saudita puntano l’indice contro il presidente Obama, reo di aver “escluso la Turchia” dalle offensive contro Raqqa e contro Mosul a vantaggio dei curdi e degli odiati sciiti. E questo nonostante Dunford abbia platealmente assicurato il capo di stato maggiore turco, Hulusi Akar, sul fatto che né a Mosul né a Raqqa sarà permesso l’ingresso di milizie curde o sciite.

A complicare il quadro, infine, il quotidiano libanese Assafir ha parlato nei giorni scorsi di un’intesa segreta tra alcuni degli attori in campo per permettere l’ingresso a Raqqa anche delle truppe fedeli al regime siriano. Riportando le dichiarazioni di una fonte anonima delle Forze Democratiche Siriane (da prendere con le molle, ovviamente) il quotidiano Assafir ha scritto: "Sicuramente Washington ha concordato intese su Raqqa, ma la natura della battaglia e i possibili sviluppi richiedono la necessità di disegnare confini precisi per delimitare le zone di influenza degli antagonisti sul terreno. Siccome le forze del Fds non hanno la possibilità di estendere il loro controllo sul vasto territorio della provincia di Raqqa, per non parlare del fatto che non vogliono allontanarsi troppo dalla loro roccaforte (nelle zone curde siriane), l'unica forza in grado davvero di avanzare su alcune zone e controllarle è l'esercito siriano: questa necessità ha spinto verso un riconoscimento di un ruolo a Damasco in una certa fase dell'offensiva".
Sempre secondo Assafir, allo scopo di tranquillizzare Ankara, Washington avrebbe promesso ad Erdogan di permettere ad alcune milizie sunnite legate alla Turchia o addestrate dall’esercito turco di entrare a Raqqa e di controllarne certa porzione.

Insomma, sembra scontato che la liberazione di Raqqa non farà che complicare ulteiormente un quadro già esplosivo.

 

Marco Santopadre

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1 Commento


  • fausto schiavetto

    non sarebbe da stupirsi se a Raqqa entrassero infine  i governativi siriani gli hezbollah e magari le milizie comuniste e anche i volontari sciti dell'Iran cosicchè meritatamente per il loro comportamento i kurdi avranno diritto a una riserva  sui monti di quelle riservate a suo tempo ai Sioux. a parte le battute è da tempo che trattano i nuovi confini e le entità che sostituiranno l'attuale Siria, ma Trump ha intimato a Obama di non muoversi e firmare adesso. Sta per ritornare sulla scena il suo collaboratore Bolton quello che a suo tempo inventò il Sunnistan. a suivre

     

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