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Cigno nero in Gran Bretagna. Non c’è la maggioranza nella “patria” del maggioritario puro

Aggiornamento. La leader dei conservatori britannici, Therese May, sta andando dalla regina per cercare di formare il nuovo governo. Sembra aver imbarcato gli Unionisti dell’Irlanda del Nord (12 seggi) che gli assicurerebbero una risicatissima maggioranza. Il rischio non è solo quello della fragilità dei numeri ma anche quello di far esplodere di nuovo il conflitto civile nelle sei contee del Nord Irlanda, dove anche il Sinn Fein ha visto aumentare i propri consensi. 

Il risultato delle elezioni britanniche si è rivelato peggiore di una sconfitta di uno o dell’altro dei due principali partiti: conservatori e laburisti. Con i dati emersi dalle urne non sarà possibile formare una governo stabile. Un pò come è accaduto in Spagna o accade spesso in Italia. Solo che la Gran Bretagna ce l’hanno spacciata per anni come un modello di stabilità e governabilità perchè è in vigore il sistema elettorale più antidemocratico che esista: quello maggioritario, anzi, il maggioritario “puro”. In pratica è quello che gli analisti chiamano un “cigno nero”.

Il partito conservatore della premier britannica Theresa May infatti è risultato come il primo sulla base allo spoglio parziale del voto, ma ha perso la maggioranza dei seggi in Parlamento. La sterlina ha subito reagito perdendo terreno sia verso il dollaro che verso l’euro, mentre si palesa il timore che la leader conservatrice non riesca a formare un governo e sia costretta alle dimissioni.

Il leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn, che partiva con uno svantaggio di 20 punti percentuali ed ha realizzato un recupero rilevante e sorprendente, ha invitato la May a dimettersi, dicendo che “ha perso voti, perso sostegno e perso fiducia”. La straordinaria rimonta di Corbyn non ha messo solo in crisi il governo conservatore, ha anche seppellito Blair e il blairismo, dimostrando che per recuperare consensi non si debba necessariamente “andare a destra” ma magari riprendere in mano i temi sociali più consoni al Labour: salari, nazionalizzazioni, welfare. A Liverpool il Labour Party ha preso quasi l’80% dei voti, tanto per dare un’idea.

Secondo la proiezione sui due terzi circa dei collegi scrutinati i conservatori avrebbero 315 seggi (perdendone 12) e dunque ne hanno ottenenuti meno dei 326 che rappresentano la maggioranza necessaria alla Camera dei Comuni. I laburisti salirebbero a 261 seggi, in crescita di 31, concretizzando la possibilità di un parlamento senza maggioranza. il che, dopo il referendum di giugno 2016 sulla Brexit, rivela strappi significativi al mito della stabilità britannica. Già dieci anni fa, i conservatori erano stati costretti – per la prima volta – ad un governo di coalizione con i liberaldemocratici.

Gli euroscettici dell’UK Independence Party (UKIP), che due anni fa avevano ottenuto il 12,5% e hanno guidato la campagna referendaria per la Brexit, rischiano adesso di sparire. I liberaldemocratici, ultras europeisti e contrari alla Brexit, sono passati da nove a dodici seggi ma il loro leader Nick Clegg ha perso il seggio. Una sorte ancora più amara è toccata anche allo Scottish National Party, Alex Salmond che ha perso 19 dei suoi 54 deputati a Westminster. Il Snp si era schierato contro la Brexit e parte del suo elettorato è tornato al Labour Party. Nelle sei contee dell’Irlanda del Nord il Sinn Fein aumenta i suoi seggi ed arriva a 7, mentre gli Unionisti ottengono 12 seggi e potrebbero diventare la “stampella” per un governo di coalizione conservatore. Una ipotesi da brivido perchè potrebbe riaccendere il conflitto in Irlanda.

Adesso la prospettiva di un parlamento britannico senza maggioranza spaventa anche l’Unione Europea. Dopo una aver espresso una posizione ambigua contro la Brexit (sulla quale convergeva invece gran parte dell’elettorato operaio e popolare), il Labour ha accettato l’uscita dalla Ue ma senza la “hard Brexit” propugnata dalla May e intenderebbe mantenere i legami economici con l’Unione Europea.

 

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