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Le elezioni generali in Gran Bretagna. Un tentativo di analisi del voto

Una premessa: il Sistema elettorale britannico
Le elezioni per la Camera dei Comuni (come, del resto, quelle dei consigli comunali) sono regolate, in Gran Bretagna, dal sistema elettorale first-past-the-post: Nient’altro che un maggioritario uninominale a turno unico. L’intero territorio del Regno Unito è suddiviso in 650 constituencies; ciascuna di esse invia a Westminster un unico rappresentante, il più votato. Le implicazioni di questo meccanismo sono molteplici: su base storica, infatti, è possibile identificare collegi sicuri (in cui esiste una consolidata tradizione politica, ed è improbabile produrre uno swing<, ovvero un cambio di colore). Dunque, la campagna elettorale si concentra (sia in termini di risorse investite dai partiti; sia in termini di coinvolgimento di una residuale militanza), di fatto, nelle circoscrizioni in cui il risultato appare più incerto. Ne discende un peculiare ruolo dei partiti, non più corpi intermedi di rappresentanza sociale, ma comitati elettorali locali (legati al parlamentare di turno).

Un sistema simile (di cui abbiamo avuto limitata prova in Italia, all’epoca del Mattarellum, al netto della correzione proporzionale) favorisce la corsa al centro e l’auto-conservazione del ceto politico, taglia le “ali estreme”, favorisce i partiti regionali e a forte concentrazione geografica, a discapito di quelli medio-piccoli con una presenza uniforme sul territorio nazionale; celebre il recente caso di UKIP di Nigel Farage, uscito dalle Elezioni del 2015 con un risultato a due cifre (12.6%) cui corrispose l’elezione di un unico parlamentare. Soprattutto, un sistema simile rende complicatissima l’ipotesi di una rappresentanza politica autonoma delle classi subalterne.

Le forze in campo

In questo contesto, alle elezioni dell’8 Giugno hanno preso parte le seguenti 7 compagini politiche maggiori:

  • Il Partito Conservatore (Conservative Party, i cui membri sono comunemente indicati come Tories), guidato dal primo ministro uscente Theresa May, braccio politico delle oligarchie finanziarie e dei grandi monopoli capitalistici; ideologicamente ultra-liberista e thatcheriano. Forti della maggioranza assoluta nella Camera dei Comuni uscita dalle Elezioni Generali del 2015, i Conservatori hanno affrontato il Referendum dell’Estate del 2016 sulla Permanenza nell’Unione Europea sotto la guida dell’allora Primo Ministro David Cameron. La sconfitta di quest’ultimo (a capo del fronte del Remain) ne ha determinato l’avvicendamento con l’ex ministro dell’interno Theresa May. Attraversato da fratture interne dovute all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’UE nelle negoziazioni, il partito ha vissuto un anno turbolento. Il 18 Aprile, la Theresa May ha annunciato l’intenzione di tenere una consultazione anticipate (dopo aver più volte negato tale eventualità); intenzione poi approvata, a larga maggioranza, dalla Camera dei Comuni qualche giorno dopo. Di fatto, una chiamata alle armi per ottenere un forte mandato nelle negoziazioni per la Brexit, da parte di una leader (non legittimata da un processo elettorale) che, originariamente, aveva sostenuto il fronte del Remain.

  • Il Partito Laburista (Labour Party), principale partito d’opposizione, capeggiato da Jeremy Corbyn. Originariamente socialdemocratico e caratterizzato da forti legami con il mondo sindacale inglese, poi trasformato da quindici anni di cura blairista in forza di governo centrista, saldamente atlantista e filo-americana, allineata ai desiderata dei grandi monopoli finanziari. Corbyn, storico deputato della sinistra interna, divenuto leader nell’estate del 2015 grazie ad un clamoroso risultato nelle elezioni primarie, rappresenta un outsider all’interno dei meccanismi di funzionamento del partito. I suoi due anni al comando sono stati caratterizzati da continue manovre delle correnti centriste della compagine (che controllano la quasi totalità del gruppo parlamentare) volte a pervenire ad un cambio di leadership. Emblematico, in tal senso, il golpe interno dell’estate del 2016, immediatamente successivo al Referendum per la permanenza del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea: sfiduciato dal gruppo parlamentare, Corbyn fu costretto a fronteggiare nuove primarie, nuovamente stravinte, grazie al sostegno della base, con un risultato superiore al 60%.

  • I Liberal-Democratici (Liberal-Democrats o Lib-Dem), guidati da Tim Farron; un partito che si auto-definisce di centro radicale, euro-entusiasta e liberista. Tale formazione aveva, nel 2010, raggiunto un consenso elettorale ragguardevole (23% dei voti), affermandosi come alternativa alle due forze maggiori. A seguito di quell risultato, i Lib-Dem formarono, a sorpresa, una coalizione di governo con i Tories, esprimendo il vice-premier (l’allora leader Nick Clegg) dell’esecutivo Cameron. Lungi dal condizionare le linee programmatiche del gabinetto, la compagine centrist finì per favorire la promozione di cinque anni di politiche anti-popolari, improntate alla più feroce austerità. Di qui, il marcato calo di consensi alle politiche del 2015, e l’avvicendamento tra Farron e Clegg al vertice. Il partito si è presentato alle elezioni con un manifesto marcatamente europeista, e con la promessa di un secondo referendum sulla Brexit.

  • Il Partito dell’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), partito euroscettico, ultra-liberista e dalle venature xenofobe, guidato da Paul Nuttal. Dopo il Referendum del Giugno 2016, che ha visto il successo del fronte del Leave, e, dunque, il compimento della propria ragione costituente, UKIP è entrato in una profonda crisi, avviata dalle dimissioni dello storico leader Nigel Farage e dalla difficoltà di definire una piattaforma più organica. 

  • Il Partito Verde (Green Party of England and Wales), formazione ecologista e progressista orientata a sinistra, impegnata nei movimenti anti-austerità, dotato di rappresentanza parlamentare sin dal 2010 (grazie l’elezione alla Camera dei Comuni di Caroline Lucas, confermata nel 2015). 

  • Il Partito Nazionale Scozzese (Scottish National Party, SNP), compagine indipendentista scozzese, artefice, nell’autunno del 2014, della campagna referendaria per la secessione (fallita) della Scozia dal Regno Unito. La leadership di Nicola Sturgeon (attuale primo ministro scozzese) ha confermato il sensibile spostamento delle posizioni del SNP, caratterizzato oggi come partito inserito nell’alveo della socialdemocrazia classica, le cui posizioni nazionaliste accentuano, oggi, un forte carattere anti-conservatore, contrario alle misure di austerità implementate dai governi Cameron e May. Coerentemente alla propria definizione, lo SNP ha partecipato alle elezioni presentando candidati esclusivamente in Scozia, partendo dallo straordinario risultato del 2015: in quelle elezioni, sulla scia della campagna referendaria, ed approfittando di un Labour Party in crisi profonda, l’SNP raccolse 56 seggi su 59 al di la’ del Vallo di Adriano.

  • Il Partito del Galles (Plaid Cymru), partito indipendentista gallese, dalle posizioni socialdemocratiche, espressione di un nazionalismo di sinistra e progressista. Ne è leader Leanne Wood, auto-definitasi socialista e repubblicana. Coerentemente alla propria definizione, il Plaid ha partecipato alle elezioni presentando candidati esclusivamente in Galles.

Ulteriori partiti minori hanno partecipato al voto. Da notare la totale estinzione dei fascisti del British National Party (il cui seguito è stato, qualche anno fa, fagocitato dalla versione in doppio-petto UKIP, più presentabile e funzionale alle esigenze dell’establishment), presenti solo in una manciata di constituencies.

In Irlanda del Nord, presenti tutte le formazioni tradizionali. Tra questi, le più significative includono: la sinistra nazional-popolare e repubblicana del Sinn Fein (che partecipa alle votazioni, ma non invia i propri eletti a Westminster, boicottando in tal modo il parlamento di Londra), il Partito Social-Democratico e Laburista (di centro-sinistra e moderatamente nazionalista), la destra filo-britannica del Democratic Unionist Party (storicamente legata alle formazioni paramilitari pro-Londra, che si caratterizza per posizioni ultra-conservatrici in materia di diritti civili).

Sul versante della sinistra di classe, la presenza di Jeremy Corbyn al vertice del Partito Laburista fa segnare cambi di rotta rispetto al recente passato. Ad esempio, la Coalizione Sindacale Socialista (Trade Unionist and Socialist Coalition), cartello elettorale di partiti socialisti e trotzkisti (Socialist Party, Socialist Workers Party), forte dell’appoggio di alcune trade unions come la combattiva RMT (sindacato dei ferrovieri, affiliata alla Federazione Sindacale Mondiale), presente in ben 135 circoscrizioni alle elezioni del 2015, ha deciso, unilateralmente, di non correre in alcun collegio uninominale, per fornire un supporto critico al Labour. Una posizione motivata dal ritorno dei Laburisti su posizioni socialdemocratiche di sinistra, grazie al programma elettorale promosso da Corbyn. Anche il Communist Party of Britain (con all’attivo circa 1000 iscritti, e, a tutt’oggi, un minimo di influenza nel mondo sindacale; allineato, nel campo del movimento comunista europeo, alle posizioni del Partito Comunista Portoghese) ha promosso, come tradizione, un appoggio attivo (e alquanto incondizionato) ai candidati del Labour Party, non prendendo parte alla competizione con propri candidati. Simili le posizioni del New Communist Party (parte della mini-internazionale promossa dal KKE, ma dalla scarsa presenza di massa). Istanze astensioniste sono state espresse dal Revolutionary Communist Group e dal Communist Party of Great Britain Marxist-Leninist.

Il Contesto

Dopo sette anni di dominio Conservatore, la Gran Bretagna ha sperimentato un ulteriore inasprimento delle ataviche disuguaglianze sociali che da sempre caratterizzano la Terra d’Albione. Ad oggi, infatti, le mille famiglie più abbienti del paese controllano una ricchezza totale di 547 miliardi di sterline. Un incremento del 112% rispetto ai livelli pre-recessione del 2008; tale ricchezza cumulata supera quella totalizzata dal 40% più povero della popolazione Britannica. Un risultato, quest’ultimo, coerente con la natura anti-popolare del Partito Conservatore, autentico baluardo dei privilegi dell’aristocrazia e della borghesia britanniche. I Tories, prima in collaborazione con i Liberal-Democratici (nel quinquennio 2010-2015), e, negli ultimi due anni, tramite un esecutivo monocolore, hanno implementato un programma di feroce austerità, i cui risvolti sulle sezioni più deboli e vulnerabili delle classi popolari e del sottoproletariato britannico sono stati drammatici. Un programma fatto di tagli selvaggi alla spesa sociale per i programmi di welfare (che includono, ad esempio, indennità di disoccupazione, sostegno ai redditi bassi, accesso all’edilizia popolare), ai servizi pubblici essenziali offerti dagli enti locali e di progressiva privatizzazione del servizio sanitario nazionale (NHS) e dell’istruzione. A queste misure anti-popolari, ha fatto da contraltare una precisa e coerente operazione redistributiva verso l’alto, fatta di elargizioni e facilitazioni fiscali ai grandi monopoli privati e al settore finanziario, disimpegno del settore pubblico e crescenti privatizzazioni, accompagnata da contentini (quali l’abbassamento delle tasse sulle compravendite immobiliari e sgravi tributari) per la middle class.

La crescita esibita negli ultimi anni è dunque una crescita finanziata con il sangue ed il sudore della classe lavoratrice britannica; una crescita di bassi salari. Dal 2008 al 2017, i lavoratori britannici hanno subito nove anni consecutivi di caduta delle retribuzioni reali; i salari, rapportati al costo della vita, sono dunque tornati ai livelli osservati alla fine del secolo scorso, secondo i dati ufficiali forniti dall’Ufficio Nazionale di Statistica. Nonostante la legislazione sindacale restrittiva (che, nell’ordine: vieta lo sciopero politico, e, di fatto, quello generale; richiede lo svolgimento di un referendum per l’indizione di una astensione dal lavoro; prevede che solo gli iscritti ad un sindacato possano scioperare), e la natura concertativa della maggioranza dei sindacati britannici, negli ultimi sette anni sono stati molteplici gli scioperi nel pubblico impiego (in cui il tasso di sindacalizzazione è ancora elevato): insegnanti, docenti universitari, pompieri, impiegati comunali, medici specializzandi hanno ripetutamente incrociato le braccia (prevalentemente per questioni relative ai rinnovi contrattuali ed ai sistemi pensionistici di categoria).

In tale contesto, a seguito del già citato referendum del Giugno 2016, il Regno Unito ha recentemente avviato la procedura di uscita dall’Unione Europea. Il 29 Marzo 2017, Theresa May ha invocato l’Articolo 50 del Trattato di Lisbona. Una novità assoluta nella storia dell’UE. Le negoziazioni (da completarsi nel giro di 2 anni) procedono a rilento, anche per l’eccezionalità e la novità della situazione (mai sperimentata prima). Se i mercati internazionali paiono aver metabolizzato, dopo le fibrillazioni iniziali, l’idea della Brexit (con un indice FTSE100 che ha raggiunto livelli record nel Giugno 2017, superando addirittura i livelli pre-crisi), ciò che ora questi chiedono è stabilità, tempi certi per le negoziazioni, riduzione al minimo dell’incertezza. La frase ripetuta come un mantra, durante la campagna elettorale, da parte della May (“una leadership stabile e forte”, per affrontare le temperie della Brexit) pare dunque essere stata scritta sotto dettatura.

Figura 1 – Serie storica dell’indice FTSE100 (Fonte: Yahoo Finance)

La Campagna Elettorale e il Ruolo dei Media

Si è trattato di una campagna elettorale lampo. I sondaggi (si veda Figura 2), infatti, segnalavano, in Aprile, un vantaggio record da parte dei Conservatori, accreditati del 48% delle intenzioni di voto, a fronte del 24% del principale partito di opposizione (i Laburisti di Corbyn). Quale migliore occasione, dunque, per irrobustire la propria leadership (ancora non ratificata dalle urne), sedare i mal di pancia interni ai Tories sulla posizione da tenere nelle negoziazioni con l’Unione Europea, e fare un sol boccone del Labour, in preda a guerre intestine e guidato da un segretario, Corbyn, oggetto di continua e costante demonizzazione mediatica da parte della quasi totalità dei mezzi di informazione?

Figura 2 – Serie storica dei sondaggi elettorali dal Maggio 2015 al Giugno 2017. In blu, la percentuale del Partito Conservatore; in Rosso, quella del Labour; in Viola, UKIP. La linea verticale identifica la data di indizione delle elezioni.

Forse con la forza della disperazione che caratterizza chi ha ben poco da perdere (dato il consistente svantaggio nei sondaggi), il Labour ha messo in soffitta il credo neo-liberista, ossessivamente sbandierato dagli anni ’90 in poi, per presentarsi con un programma chiaramente ascrivibile alla tradizione socialdemocratica di sinistra. La rinazionalizzazione di ferrovie e compagnie energetiche, la lotta all’evasione fiscale sistematica praticata dai grandi monopoli commerciali e finanziari, la limitazione del potere delle grandi corporations, una ripresa dell’investimento pubblico nell’istruzione (con l’abolizione delle tasse universitarie) e nei servizi pubblici essenziali; ripresa delle assunzioni nel Servizio Sanitario Nazionale per turare le falle derivanti dai recenti tagli; un progressivo aumento del salario minimo (sino al livello di £10 orari nel 2020): argomenti segnalati da anni quali autentici vote-winner hanno trovato spazio nel Manifesto laburista, anche in virtù della prevista uscita dall’Unione Europea (la cui legislazione comunitaria rende complicato immaginare ed implementare politiche keynesiane).

Tali proposte hanno scatenato, puntualmente, l’uso del potente manganello mediatico dei tabloid. Un mondo, quello dell’informazione britannica (anch’esso controllato da grandi monopoli; su tutti, il gruppo Murdoch) completamente al servizio del grande capitale, capace di orientare l’opinione pubblica (e vasti strati di working-class e sottoproletariato urbano) tramite testate dall’impostazione di destra populista quali The Sun, Daily Mail, Daily Star, Daily Express (i cosiddetti tabloid) fedelmente schierate a favore del Partito Conservatore.

Durante i due anni nei quali è stato alla guida del Labour, i tabloid hanno a più riprese descritto Corbyn come un pericoloso sinistrorso portatore di amicizie pericolose, descritto come un “terrorista” a causa del suo storico impegno nel movimento pacifista (all’interno della coalizione sociale Stop the War, protagonista di oceaniche manifestazioni in opposizione alla Guerra in Iraq nel 2003), per un passato antimperialista (il deputato di Islington era infatti membro attivo delle campagne di solidarietà con Cuba e Venezuela), per supporto alle lotte di liberazione nazionale ed al processo di pace in Irlanda del Nord, per il forte legame con il mondo sindacale. L’attacco (cui, a più riprese, non si è sottratto neppure il Guardian, quotidiano preferito dell’intellighenzia progressista britannica, che ha dedicato diversi editoriali all’anomalia Corbyn ed al suo essere inadatto a guidare un modern partito socialdemocratico, si veda il sito http://theguardian.fivefilters.org/ per una carrellata di editoriali in materia) si è intensificato, particolarmente, durante la campagna elettorale, sino a raggiungere vette surreali. Corbyn, ad esempio, è stato oggetto di critiche feroci per aver più volte dichiarato, nei vari dibattiti televisivi della campagna che mai avrebbe fatto ricorso, in prima battuta, all’utilizzo di armi nucleari in eventuali conflitti internazionali. Una affermazione di assoluto buonsenso, presentata dalla stampa di destra come segno di debolezza ed indecisione.

E’ doveroso inoltre ricordare che la già breve campagna elettorale ha subito due interruzioni a causa degli atti terroristici che hanno interessato prima Manchester e poi Londra. Sicuramente questi tragici eventi hanno avuto l’effetto di influenzare l’andamento della campagna, spostando maggiormente l’attenzione sui temi della sicurezza nazionale, tradizionale appannaggio dei Conservatori. In entrambe le occasioni, Jeremy Corbyn ha denunciato il collegamento esistente tra la maggiore esposizione del Regno Unito a questo tipo di fenomeni e la linea di politica estera seguita dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, caratterizzata dalle molteplici avventure imperialiste. Posizioni che sono state duramente stigmatizzate dai Tories e dalla stampa britannica; The Sun si è addirittura spinto a proporre, il giorno prima dell’apertura dei seggi, la prima pagina mostrata in Figura 3, presentando Corbyn come “amico dei jihadisti”, proponendo un fantomatico dossier.

Figura 3 – Prima pagina di The Sun alla vigilia delle elezioni (7 Giugno 2017): “Jezza’s Jihadi Comrades” (“I compagni Jihadisti di Jeremy Corbyn”).

Sull’altro versante, i Tories, forti del vantaggio dei sondaggi, hanno optato per una campagna low-profile, il cui obiettivo principale era quello di non esporre troppo al vento la May. Pochi eventi, quasi sempre in luoghi al chiuso, per evitare contestazioni; il rifiuto categorico di un faccia-a-faccia con lo sfidante laburista; un programma assai vago (soprattutto sugli aspetti fiscali, argomento tradizionalmente importante per l’elettorato conservatore), incentrato, esclusivamente, sulla necessità di avere, nelle negoziazioni con l’Unione Europea, una leadership stabile e forte. Per far cosa, non è dato saperlo, visto che l’approdo cui i Conservatori intendono giungere al termine della trattativa non è certo: il Primo Ministro, dopo le prime schermaglie in cui gli eurocrati hanno mostrato un conto piuttosto salato da pagare, prima che la Gran Bretagna possa arrivare all’uscita, ha anzi avvertito che il raggiungimento di un accordo è cosa tutt’altro che scontata.

Non sono mancati, tuttavia, i momenti imbarazzanti per la May, legati soprattutto alla presenza, nel Manifesto elettorale, di ulteriori tagli alla spesa sociale. In particolare, le misure che avrebbero portato alla draconiana riduzione dei sussidi per gli anziani (supporto al pagamento delle bollette nei mesi invernali; meccanismi di assistenza socio-sanitaria per i malati gravi) hanno finito per alimentare pesanti critiche da parte dell’opinione pubblica per l’atteggiamento tenuto dal partito nei confronti di una fascia di popolazione tradizionalmente molto incline al voto conservatore. Grosso scalpore ha suscitato la possibilità di introduzione di una sorta di “tassa sulla demenza senile” che avrebbe dovuto finanziare (tramite un meccanismo assimilabile ad una gravosissima imposta di successione sugli immobili dei malati, da pagare, da parte dei familiari, una volta avvenuto il decesso) i costi dei trattamenti per malattie quali il morbo di Alzheimer. Un piano che ha suscitato vasta indignazione popolare, costringendo la May a ritrattarlo e ad eliminarlo, in corsa, dal proprio programma elettorale (fatto assai inusuale nella politica britannica), producendo quella che è stata descritta dai media come una “inversione ad U” (Figura 4). Questi avvenimenti, insieme alle scarse prestazioni della May nei dibattiti, ed all’assenza di una chiara visione sulla Brexit, hanno determinato una perdita di credibilità e di popolarità da parte del Primo Ministro in carica.

Figura 4 – Prima pagina del Daily Mirror (tabloid di orientamento laburista). “Come potremmo mai fidarci della Signora ‘Inversione a U’?

I risultati ed una possibile chiave di lettura: la “scommessa” persa della May

La cinica mossa del Primo Ministro, quella di una chiamata alle urne per incrementare la propria maggioranza al fine di avere mani libere nei negoziati con l’Unione Europea per il processo di uscita poggiava su una strategia precisa: mettere nel mirino quei seggi che, pur trovandosi nelle tradizionali roccaforti laburiste, avessero presentato, al Referendum dello scorso Giugno, una forte prevalenza del voto favorevole al Leave. Una strategia che fondava su due considerazioni. Sul versante destro, il prevedibile collasso di UKIP, partito attraversato da una forte crisi di identità in seguito alla vittoria nella consultazione referendaria ed al venir meno della propria ragione costituente: nella formazione di Farage, dunque, la May identificava un bacino elettorale cui attingere senza troppa difficoltà. A sinistra, invece, gli spin doctor conservatori prevedevano che l’offerta di una leadership “stabile e forte” in grado di procedere a spron battuto sulla strada della Brexit potesse esercitare una grossa attrazione sul tradizionale elettorato working-class laburista, espressosi in massa in tal senso in occasione del Referendum. L’asticella, per la May, era tarata sull’obiettivo dei 360 seggi, giudicati un obiettivo facilmente alla portata, visto il grosso favore iniziale dei sondaggi, con alcune previsioni che si spingevano addirittura ad assegnare, nella composizione del nuovo parlamento, 400 seggi ai Tories, prevedendo una landslide victory (“vittoria a valanga”).

Un piano, questo, tutt’altro che privo di senso. La Figura 5 riportata di seguito mostra, collegio per collegio, sull’asse orizzontale, la percentuale di votanti favorevoli al Leave e, su quello verticale, l’incremento di voto percentuale riportato, in ciascun collegio, dal Partito Conservatore. Il grafico a sinistra rappresenta tutti i 650 collegi; quello a destra quelli in cui il Partito Laburista ha riportato una vittoria. E’ possibile notare, intuitivamente, come, di fatto, il Partito Conservatore sia riuscito nell’intento di incrementare i propri consensi in ognuno dei collegi in maniera quasi proporzionale al voto favorevole al Leave al referendum del 2016. Nel grafico qui sotto è possibile notare come questa dinamica si sia verificata anche nei seggi nei quali ha prevalso un candidato Laburista.

Figura 5 – Correlazione, su base di collegio, tra la percentuale di votanti per il “Leave” al Referendum del Giugno 2016 e l’incremento percentuale riportato dal Partito Conservatore alle elezioni del Giugno 2017. A sinistra, il dato per tutti I collegi; a destra, per quelli in cui ha prevalso un candidato Laburista.

(Fonte: The Guardian; rielaborazione dell’autore)

Nella Figura 5 è però possibile notare come questo incremento percentuale del Partito di Theresa May non sia stato sufficiente a strappare il numero di seggi immaginato ai rivali Laburisti. Focalizzando l’attenzione esclusivamente sui collegi nei quali si è prodotto un cambio di colore, è possibile notare (grafico a destra) come i conservatori siano riusciti a prevalere quasi esclusivamente nelle circoscrizioni come Clacton e Mansfield nelle quali il voto al Leave era stato prossimo o superiore al 70%. Di contro i Laburisti sono riusciti a sopravanzare la formazione al governo anche in distretti fortemente euroscettici quali Peterborough e Crewe.

La “scommessa” della May ha dunque cozzato contro un muro: la residua influenza degli aspetti di classe nelle dinamiche elettorali britanniche. Il progetto conservatore di penetrare nel cuore delle roccaforti della Brexit si è scontrato contro l’ostilità di fondo per i Tories da parte della working class urbana britannica. Lungi dall’essere una romantica narrazione, questa evidenza è confermata in maniera inequivocabile dalla Figura 5. Su base di collegio, l’asse orizzontale riporta il valore dell’Indice di Deprivazione Sociale, una misura multi-dimensionale che combina diversi elementi socio-economici (composta da variabili quali reddito pro-capite, opportunità occupazionali, indici relativi allo stato di salute della popolazione e degli ecosistemi urbani, qualità della vita): più alto questo valore, peggiori le condizioni di vita della popolazione del collegio preso in esame. Sull’asse verticale, si riportano, invece, le percentuali ottenute, in ciascun collegio, dal Partito Laburista; i punti riportati in blu rappresentano i seggi conquistati dai Conservatori; i rossi quelli appannaggio del Labour. La figura consente di apprezzare al meglio la persistente frattura di classe esistente in Gran Bretagna, con i Laburisti solidamente ancorati nelle aree maggiormente depresse (area a destra nel grafico, in cui è possibile notare una esclusiva presenza di “punti rossi”; giova notare che si tratta, essenzialmente, di aree urbane), ed i Conservatori arroccati nelle proprie posizioni di vantaggio nelle aree benestanti (area a sinistra nel grafico, in cui le “incursioni” rosse sono rarissime). In soldoni, più che la diversa visione sui processi di integrazione europea, sono le disuguaglianze sociali a dettare, in maniera ancora rilevante, le scelte elettorali.

Figura 6 – Correlazione, su base di collegio, tra la percentuale di votanti per il “Leave” al Referendum del Giugno 2016 e l’incremento percentuale riportato dal Partito Conservatore alle elezioni del Giugno 2017. Focus sui collegi nei quali si è prodotto un cambio di colore. A sinistra, focus sui seggi conquistati dai Laburisti; a destra, su quelli conquistati dai conservatori.

(Fonte: The Guardian; rielaborazione dell’autore)

Figura 7 – Correlazione tra Indice di Deprivazione Sociale e voti al Partito Laburista

(Fonte: The Guardian; rielaborazione dell’autore)

La Figura 8 si focalizza maggiormente sui seggi conquistati dal Partito Laburista, evidenziando come questo sia stato capace di penetrare anche in aree non propriamente popolari (emblematico il caso del collegio di Sheffield Hallam, una delle constituencies caratterizzate dal più alto reddito pro-capite del paese); ciò è avvenuto soprattutto in città universitarie, grazie alla grande partecipazione al voto degli studenti.

Figura 8 – Correlazione tra Indice di Deprivazione Sociale e voti al Partito Laburista; focus sui nuovi seggi conquistati dal Labour.

(Fonte: The Guardian; rielaborazione dell’autore)

Al contrario, la Figura 9 si concentra sui seggi strappati dal Partito Conservatore ai propri avversari; è evidente come, a parte un paio di casi notevoli (come Walsall North) ai Tories non sia riuscita la strategia di penetrazione nel cuore della working class, anche quando questa aveva, al precedente referendum, votato in massa per il Leave.

Figura 9 – Correlazione tra Indice di Deprivazione Sociale e voti al Partito Laburista.
Focus sui nuovi seggi conquistati dai Conservatori.

(Fonte: The Guardian; rielaborazione dell’autore)

Un perfetto esempio del fallimento della scommessa di Theresa May è fornito dal collegio di Sunderland Central; tipico esempio di roccaforte Laburista nel Nord del paese, nella quale, al Referendum del Giugno 2016, il Leave aveva prevalso nettamente (61% a 39%). Una delle circoscrizioni, dunque, messe nel mirino dai Tories, anche in virtù del fatto che alle precedenti politiche del 2015, il partito euroscettico UKIP aveva qui ottenuto un sonante 19.1%, che, sommato al 23.4% degli stessi Conservatori, consentiva all’insieme delle forze di destra di mettere nel mirino il 50.2% ottenuto dal Labour. L’8 Giugno, tuttavia, il prevedibile calo di UKIP (-14.3%) ha solo in parte alimentato il partito di governo, che ha riportato un aumento del 9.9%; il Labour è stato capace di accaparrarsi i rimanenti voti in libera uscita da UKIP, portandosi al 55.5% e blindando l’elezione della propria rappresentante (Tabella 1).

Tabella 1 – Risultati del collegio Sunderland Central.

Come evidenziato in Figura 10, il Labour riesce addirittura ad aumentare il proprio margine sulla somma dei voti dei partiti di destra, frenando l’incursione dei Conservatori in un territorio euroscettico e popolare. Una evidenza che decostruisce anche il mito del voto pro-Brexit quale voto esclusivamente xenofobo e razzista, sottolineando l’esistenza di una componente popolare riconducibile ad un elettorato tradizionalmente Laburista (benché, talvolta, in “libera uscita”).

Figura 10 – Risultati del collegio Sunderland Central. Confronto tra voti ai Laburisti e somma dei voti a Conservatori e UKIP.

A Jeremy Corbyn, al contrario, sono riuscite imprese storiche. Come quella di Canterbury, feudo conservatore dal 1918 (Tabella 2), in cui il Labour ha guadagnato oltre 20 punti percentuali, superando i Conservatori sul filo del rasoio (uno scarto inferiore ai 200 voti). Oppure, il già citato caso di Sheffield Hallam (Tabella 3), storica roccaforte liberaldemocratica, e mai nel controllo dei Laburisti sin dal 1885: qui l’outsider Jared ‘O Mara è riuscito addirittura a prevalere sull’ex vice-premier Nick Clegg, estromesso dalla Camera dei Comuni dopo una lunga milizia. In entrambi i distretti, decisivo il voto giovanile, data la massiccia presenza di studenti.

Tabella 2 – Risultati del collegio di Canterbury.

 Tabella 3 – Risultati del collegio di Sheffield Hallam.

Riportando, inoltre, un sonante trionfo a Londra, il Labour riesce a ricompattare la tradizionale “coalizione sociale” a suo sostegno, tenendo insieme interessi e posizioni parecchio diversi: dal ceto medio riflessivo londinese, cosmopolita ed europeista, ai giovani universitari, alle classi popolari dell’ex cintura industriale del Nord (che, come detto sopra, in occasione del referendum aveva assunto orientamenti euroscettici). Una alleanza che era stata messa a rischio proprio dall’esito del Referendum, e dalla posizione assunta dal Labour (riflesso dell’euroscetticismo di fondo di Corbyn): pro-Remain in occasione del Referendum, ma pronta ad accettare il verdetto delle urne e determinata ad implementare una Brexit pro-people. Una posizione fortemente criticata dalle elite liberali (in primis, i quotidiani The Guardian e The Independent) che avrebbero gradito un maggiore impegno nella campagna referendaria ed un tentativo di sabotare il processo di uscita.

Il risultato finale (Tabella 4), è dunque impietoso per la May: l’all-in fallisce, con una perdita secca in termini di seggi (317, meno 13 rispetto al 2015). Cresce il Labour, che guadagna 30 seggi e riporta il 40.0% dei voti totali: per trovare percentuali simili bisogna tornare all’era Blair (quando, tuttavia, il Partito si presentava con una piattaforma centrista e neo-liberista, strizzando l’occhio alle elite dominanti). Da notare come, a causa del sistema elettorale, la modesta differenza in termini di voti tra Conservatori e Laburisti (2.3%) si traduca in un vantaggio di 55 seggi in favore dei primi.

Riporta forti perdite anche lo Scottish National Party, braccato sul terreno dell’anti-austerità dal Labour di Corbyn e in difficoltà sul terreno dell’indipendentismo, date le complicazioni derivanti dalla Brexit. I Liberal-Democratici, pur riportando il 7.4% dei voti, raccolgono solo 12 seggi. Come già anticipato, scompare, infine, dalla mappa politica UKIP: l’unico collegio conquistato nel 2015 torna ai conservatori; i voti raccolti ammontano appena all’1.8% (-10.8% rispetto al 2015).

L’esito, inatteso, è quello di uno hung parliament (“parlamento appeso”), con nessun partito dotato della maggioranza assoluta.

Tabella 4 – Risultati complessivi.

Gli scenari futuri

Theresa May, dunque, ne esce con le ossa rotte. Priva di una maggioranza assoluta, sarà costretta, per continuare a rivestire la carica di Primo Ministro, a provare un accordo con il Partito Democratico Unionista dell’Irlanda del Nord. La destra ultra-conservatrice, fondamentalista e bigotta di Belfast è infatti in possesso di quei 10 seggi che potrebbero portare i Tories appena sopra la soglia dei 326. Al momento di andare in stampa, questo appare lo scenario più probabile. La May potrebbe tirare a campare con un governicchio che, alle nostre latitudini, non esiteremmo a definire “balneare”. Una configurazione controversa (e che, anche dato il passato del DUP, rischia di risvegliare tensioni in Irlanda del Nord) che, tuttavia, già provoca i primi mal di pancia eccellenti nelle fila conservatrici. George Osborne, ex Ministro delle Finanze nel gabinetto Cameron, ed attualmente direttore del quotidiano London Evening Standard già tuona: “Sarà un governo in carica, ma senza alcun potere, sottoposto al veto determinante del DUP. Le decisioni che determineranno il future di Londra saranno prese a Belfast. Una configurazione insostenibile, rispetto alla quale vigileremo con attenzione”. Preoccupa, soprattutto, il fatto che il DUP, pur essendo un partito unionista ed euroscettico, favorevole alla Brexit, richiede una frontiera praticamente aperta con la Repubblica d’Irlanda (unico confine terrestre del Regno Unito con un paese Europeo).

Gli eurocrati, a Bruxelles, si sfregano le mani: la delegazione britannica rappresenterà sicuramente una controparte indebolita, dopo questo passaggio elettorale; e, con le fibrillazioni interne ai Conservatori (e Boris Johnson nuovamente in rampa di lancio), non è escluso che sia necessario procedere a nuove elezioni a breve.

Corbyn, la cui popolarità è ai massimi storici nei primi sondaggi successive al voto, si dice pronto ad ogni eventualità. La Grande prova del vecchio leone socialista, e delle energie giovanili che è riuscito a mobilitare (su tutte, il raggruppamento “Momentum”, stata la vera anima di questa campagna) è indubbia. Certo, buona parte del gruppo parlamentare laburista approdato a Westminster resta quello, assolutamente allineato ad impostazioni culturali liberali e centriste, che ha mosso una guerra continua, per due anni, al proprio leader. Il risultato rafforza la posizione di Corbyn; ma il rischio “imboscate” è tutt’altro che finito. Quanto durerà la Pax Elettorale, che, potere della necessità di confermare la cadrega, ha costretto i centristi del partito a mettere da parte, per un attimo, i propri istinti, è già materia di dibattito. 

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