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La fine dello zarismo e della disoccupazione in Russia

In programma per stasera al teatro Mariinskij di Pietroburgo la prima del film di Aleksej Učitel “Matilda” che, se poco o nulla dice al pubblico occidentale, da mesi tiene banco nelle cronache religioso-monarchiche in Russia. In pratica, si tratta della vicenda della ballerina di origini polacche Matylda Krzesińska che, tra il 1890 e il 1894, sarebbe stata l’amante del futuro Nikolaj II e, successivamente, anche dei gran principi Sergej Mikhajlovič (nipote di Nikolaj I), Vladimir Aleksandrovič (zio di Nikolaj II) e infine del figlio di questi, Andrej Vladimirovič, con cui trascorrerà poi tutta la vita.

Da mesi, da quando sono usciti i primi trailer della pellicola, l’ex procuratrice generale della Crimea e oggi deputata della Duma, Natalja Poklonskaja, si è messa a capo della crociata contro la proiezione del film che, a suo dire, può offendere i sentimenti dei fedeli ortodossi e ha annunciato indagini del Fond Kino sui finanziamenti alla produzione. “Nikolaj II è un santo” ha concluso la commissione che, su incarico di Poklonskaja, ha visionato la pellicola, “ma di lui hanno fatto uno stupidello, falsificando i fatti storici affinché gli spettatori credano che l’imperatore fosse privo di capacità intellettive”.

Un autentico “sacrilegio” contro un “santo martire” ucciso dai “giudei bolscevichi”, dagli ebrei, con le loro “pratiche rituali sataniche”, gridano monarchici e ortodossi e si è arrivati a incendiare i cinematografi in cui avrebbe dovuto proiettarsi il film. E’ accaduto a Ekaterinburg (ex Sverdlovsk): con la benedizione dei pope locali, è stato incendiato il “Kosmos”, situato proprio di fronte alla cattedrale di tutti i santi, eretta nel 2003 sul luogo in cui sorgeva la famosa Casa degli Ipatev, in cui nel luglio 1918 fu giustiziata la famiglia imperiale. I moderni “tsarebožniki” (più o meno: adoratori dello zar), che paragonano l’ultimo zar a gesù cristo, ripetono che “la Russia risorgerà solo quando nell’anima dell’uomo russo comparirà di nuovo l’altare per dio e il trono per lo zar”.

Se il “Kosmos” non rinuncia alla proiezione di “Matilda”, il vicino Centro Eltsin ha addirittura invitato il regista Aleksej Učitel, facendo gridare i credenti alla “profanazione”, anche perché era stato l’allora governatore della regione di Sverdlovsk, Boris Eltsin, a far demolire la casa degli Ipatev.

Chissà quale sarà la reazione degli “tsarebožniki” alla notizia che il “giuda” siberiano aveva espiato sì il proprio peccato procedendo nel 1998 alla canonizzazione della famiglia zarista e alla tumulazione dei resti nella fortezza di Pietro e Paolo a Piter, ma ben consapevole che quei resti a tutti potevano appartenere meno che a zar e famiglia.

Lo attesterebbero studiosi giapponesi, sulla base del confronto effettuato tra i DNA dei resti rinvenuti nei boschi attorno a Ekaterinburg, quello di familiari stretti dello zar e quello trovato su alcuni oggetti che Tokyo avrebbe conservato per oltre cento anni, da quando il futuro zar aveva visitato il Giappone. A parere del paleontologo russo Vadim Viner, gli argomenti a sostegno delle tesi giapponesi sarebbero più che solidi.

La commissione istituita all’epoca dal governatore di Ekaterinburg Boris Nemtsov (il dissidente liberale” assassinato a Mosca nel 2015) aveva utilizzato il DNA di parenti non stretti, concludendo che “ci sono coincidenze”. Ma, sostiene Viner, “nella lingua dei genetisti, coincidenza non significa identità: tutti noi coincidiamo”. Inoltre, durante la sua visita in Giappone, Nikolaj ricevette dei colpi di spada alla testa che lasciarono due ferite, una delle quali aveva lasciato nel cranio il cosiddetto callo osseo. Ma sul cranio che l’indagine federale attribuì a Nikolaj II, non c’era alcuna callosità. Di più: al museo di Ōtsu sono tuttora conservati la sciarpa, la giacca di Nikolaj e la spada che lo aveva colpito, e i ricercatori giapponesi hanno confrontato il DNA del sangue rimasto sul fazzoletto dopo il colpo di spada con quello di un frammento delle ossa di DNA trovate a Ekaterinburg, ed è risultato che sono diversi.

Di fatto, sostiene Viner, un grosso interesse ai resti dei Romanov cominciò a manifestarsi nell’ultimo periodo gorbacioviano: Elisabetta II d’Inghilterra aveva dichiarato che non ci sarebbe stato nessun avvicinamento russo-britannico finché Mosca non si fosse scusata per la sorte di Nikolaj II, cugino di suo padre.

La “scoperta” dei resti avvenne poco prima dell’incontro Tatcher-Gorbaciov. Inoltre, secondo la legislazione britannica, la banca inglese in cui sarebbero custodite le 5 tonnellate e mezzo di oro dell’ultimo zar, non può svincolarle finché non si prova la sua morte con la scoperta di un cadavere o, perlomeno, non si attesta che si stia indagando sulla sua scomparsa. Con buona pace delle genuflessioni di Poklonskaja e “tsarebožniki” alla divinità della famiglia imperiale e dei suoi eredi che, molto terrenamente, da settant’anni reclamano il diritto a quell’oro, la banca sta ancora aspettando il certificato di morte e la conclusione di un tribunale secondo cui quelli sarebbero veramente i suoi resti.

Secondo studiosi tedeschi, i resti “scoperti” a Ekaterinburg sarebbero quelli di una delle numerosissime “famiglie” usate come controfigure che i Romanov avevano cominciato a mandare in giro dopo l’attentato contro lo zar Paolo I. Aleksandr I e Aleksandr III e le loro famiglie avevano diversi sosia e anche Nikolaj II cominciò a servirsene dopo la “domenica di sangue” del 1905.

Come che sia, c’è da star sicuri che in queste settimane, in cui ogni più scafato tra gli “esperti” occidentali, solo per far cassa su giornali e TV distinguendosi a chi getta più fango e falsità sulla Rivoluzione d’Ottobre, riserverà un posto privilegiato al “turpe crimine” dei bolscevichi che non soltanto osarono rovesciare il “governo democratico” di menscevichi e socialisti-rivoluzionari il 7 novembre 1917, ma poi martirizzarono e crocifissero il simbolo supremo della Santa Russia il 17 luglio 1918.

Da sempre, con l’assenso di quella sinistra che da sessant’anni si cosparge il capo di cenere per “i crimini” dell’intera epoca sovietica, i “democratici”, sconvolti dalle decisioni dittatoriali dei bolscevichi, puntano il dito soprattutto su due momenti del primo anno rivoluzionario: lo scioglimento dell’Assemblea costituente nel gennaio 1918, ormai classicamente definito “colpo di stato” e la fucilazione della famiglia zarista nel luglio successivo, a dimostrazione della “malvagità” che contraddistingueva la leadership bolscevica e, di conseguenza, ogni comunista del pianeta. I socialdemocratici mondiali poi, ligi alla forma degli avvenimenti, tacciono ovviamente sul fatto che quell’Assemblea respingesse tutti provvedimenti adottati dal governo sovietico a favore del controllo operaio e dei diritti dei lavoratori appena conquistati.

Gli “esperti” borghesi che piangono sui resti (falsi) dello zar, evitano ovviamente di dire come Nikolaj II sia da sempre conosciuto con il nome poco sacrale di “sanguinario”, tanto che anche la leadership russa attuale, nonostante i tappeti rossi stesi agli eredi zaristi dei Romanov e dei Trubetskoj e nonostante i monumenti eretti in varie città ai predecessori di Nikolaj II, sulla sua figura evitano accuratamente di calcare la mano.

Gli “esperti” televenditori sproloquieranno di sicuro su tutto, pur di tacere l’essenziale: il contenuto di classe del 1917, la lotta di classe al livello supremo: il rovesciamento della dittatura di una minoranza e l’instaurazione della dittatura della maggioranza. Taceranno sulla giornata di lavoro di 8 ore (primo paese al mondo), il diritto alle ferie annuali pagate (primo paese nella storia), il divieto di licenziamento dei lavoratori da parte dei direttori d’azienda, senza il consenso di sindacati e partito; il diritto all’istruzione gratuita (primi al mondo) media e superiore, diritto all’assistenza sanitaria gratuita (primi al mondo), diritto all’alloggio gratuito (primi al mondo) e così via, fino alla bestia nera, soprattutto oggi, della democrazia liberale: la liquidazione completa della disoccupazione nel 1931. Come potrebbero giustificare un tale sacrilegio dittatoriale, di fronte alla democratica libertà di morire di fame?

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