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Kaminer: “Israele ha stabilito un regime di migrazione per evitare la naturalizzazione di popolazione non ebrea” (I parte)

INTERVISTA. Secondo il ricercatore israeliano, l’importazione di manodopera straniera “avrebbe permesso un soggiorno limitato ad alcuni anni: i lavoratori non avrebbero messo su famiglia e non avrebbero avanzato rivendicazione politiche”

Il conflitto Israelo-Palestinese ha per ovvi motivi sempre richiamato l’attenzione sulla violenta conquista del territorio attraverso l’esercito e le colonie. Tuttavia esiste anche una sorta di “economia politica dell’occupazione”, a volte meno conosciuta, che intreccia la storia dell’occupazione con i regimi di lavoro coatto, le migrazioni e le lotte salariali. In che modo questa storia economica ha doppiato la storia del conflitto?

Possiamo individuare alcuni periodi principali. Il primo periodo è costituito dalla cosiddetta “conquista del lavoro”: all’inizio del Novecento il movimento sionista si trovava di fronte il problema di come garantire sussistenza per i coloni ebrei che avevano iniziato a trasferirsi. La prima aliya fu una migrazione borghese che impiegava lavoratori palestinesi nelle fattorie. Non avevano quindi nessun interesse ad assumere i nuovi ebrei immigrati dall’Europa dell’est, meno esperti dei lavoratori palestinesi e con richieste salariali più alte. I nuovi migranti ebrei comportavano uno svantaggio economico. Ciò che venne denominata la “conquista del lavoro” fu l’organizzarsi dei nuovi migranti nei partiti sionisti contro l’impiego della forza-lavoro palestinese nelle fattorie. L’International Zionist Organization decise di comprare terre pagando di tasca propria e metterle a disposizione per fattorie collettive, chiamate kibbutzim, e cooperative, chiamate moshavim. Queste terre, che erano al tempo molto costose e difficili da ottenere, vennero messe da parte per i lavoratori ebrei allo scopo di avvicinarsi agli standard europei di vita ed essere competitivi sul mercato locale. Così funzionò fino al 1948, quando la parte di migranti ebrei impiegata nell’agricoltura restava ancora una minoranza della popolazione ebraica. A partire dal 1948 molti palestinesi furono espulsi o persero le loro case. Lo stato di Israele si appropriò della terra e cominciò a ripartirla tra differenti fattorie, kibbutzimmoshavim, che non ebbero perciò più problemi di terra. Al contrario: cominciò un problema legato al lavoro. Era necessario che venissero nuovi lavoratori. Nonostante le pretese socialiste, o addirittura comuniste, le fattorie non ebbero problemi a importare lavoro salariato esterno. In una prima fase si trattò prevalentemente di immigranti ebrei dal Medio Oriente (Nord Africa e Yemen), oggi chiamati mizrahim. Successivamente, con la recrudescenza del governo militare contro i palestinesi in Israele e poi con la conquista dei territori nel 1967, le fattorie si garantirono questo enorme bacino di forza-lavoro palestinese. Quando scoppio la prima intifada nel 1987, i palestinesi cominciarono a rendersi conto che potevano fare leva contro il governo israeliano in quanto lavoratori. Cominciarono a scioperare, in alcuni casi arrivando a violenze contro i padroni, e lo stato israeliano capì che l’utilizzo di forza-lavoro palestinese era un punto di vulnerabilità. Dopo gli Accordi di Oslo del 1993, Rabin cercò di rompere questa leva dei palestinesi importando lavoratori da altre parti del mondo. Tuttavia, l’aspetto fondamentale per Israele era stabilire un regime di migrazione capace di evitare una naturalizzazione massiva di popolazione non ebrea. L’importazione di lavoratori ospiti, ad esempio, avrebbe permesso un soggiorno limitato ad alcuni anni: i lavoratori non avrebbero messo su famiglia e non avrebbero avanzato rivendicazioni politiche. Per quanto riguarda l’agricoltura, il paese che fu selezionato per l’importazione di lavoro fu la Tailandia. Quando alla fine degli anni 90 inizio 2000 la situazione cominciò a stabilizzarsi, i padroni avrebbero voluto importare più forza lavoro ma lo stato decretò una quota massima di 22000 lavoratori. Questo livello rimase tale negli ultimi 15 anni.

In cosa consiste esattamente il sistema di “guest workers” tailandesi? E che funzione anti-palestinese ha avuto all’interno della politica apertasi con la “conquista del lavoro”?

Parlo dell’agricoltura perché si tratta del settore che conosco meglio. Quando la migrazione tailandese si stabilizzò, verso la fine degli anni novanta, lo Stato decretò una quota massima di 22 mila lavoratori, livello che restò tale nei successivi quindici anni. Come ho detto, l’obiettivo politico e economico di Israele è essenzialmente quello di assicurarsi che questa popolazione resti temporanea, che rimanga non garantita, senza diritti politici, senza leve per sollevare rivendicazioni. Il modo in cui fu possibile fare ciò nel settore agricolo fu attraverso un regime del lavoro costituito da diverse componenti. Un primo elemento è che i “lavoratori ospiti” possono venire solo una volta, e per una durata massima di cinque anni. Una seconda componente è che le coppie sposate non possono venire insieme, la grande maggioranza dei lavoratori sono di fatto uomini. La terza componente è che se una donna rimane incinta durante la permanenza è costretta ad abortire o a lasciare il paese. Tutte queste misure sono principalmente finalizzate a mantenere questa popolazione senza garanzie.

Nel caso dei lavoratori agricoli, diversamente da altri settori, c’è una specie di triplo isolamento a cui devono fare fronte. Un isolamento prima di tutto geografico, perché molti vivono in zone periferiche. Un isolamento anche linguistico, perché non parlano ebraico, inglese o arabo. E infine un isolamento sociale, a causa della loro provvisorietà e della politica di revolving door, che dislocandoli continuamente rende difficile per loro una forma di organizzazione politica.

La quarta componente della storia è che Israele non è interessato a imporre questo regime come tale. E’ del resto costoso e complicato garantire che i lavoratori ospiti abbandonino effettivamente il paese. Così lo Stato ha avuto la splendida idea di “responsabilizzare” i datori di lavoro: istituendo il “regime delle quote”. Per fare un esempio: se sono un agricoltore e ho 50dunam di terra che coltivo peperoncino, lo Stato ha una formula per valutare il numero di lavoratori di cui ho bisogno e ne assegna, diciamo, 10 per quest’anno. Se io agricoltore dispongo già di lavoratori che possono stare legalmente ancora un anno, posso tenerli; se non ne ho abbastanza, posso chiederne altri. Ma in quanto datore di lavoro, sono responsabile: 1. Che non si fermino oltre il tempo legale ( 5 anni); 2. Che non vadano a lavorare per qualcun altro, che sia un padrone agricolo o urbano; 3. Teoricamente, che tutte le protezioni lavorative previste dalla legge vangano applicate anche ai lavoratori tailandesi. Di fatto non ci sono ispezioni e non vengono applicate: i lavoratori tailandesi prendono il 70% del loro salario legale, che dovrebbe invece corrispondere al salario minimo israeliano. L’effetto principale del sistema di quote è che gli stessi datori di lavoro, dovendo assicurarsi che le persone lascino il paese e non lavorino per altri, talvolta arrivano a usare mezzi illegali, sequestrando i lavoratori deportandoli in Tailandia, o riconducendoli al posto di lavoro se provano a scappare. Nel 2012 è stato firmato un accordo bilaterale che facesse gestire dagli Stati il processo di assunzione che ha relativamente migliorato la situazione. I lavoratori pagano una quantità di denaro abbastanza moderata da poter saldare il debito con l’azienda spesso in alcuni mesi e poi essere più autonomi nella scelta del contratto di lavoro.

Alcuni mi chiedono se penso che si tratti di un sistema schiavistico. Non penso che sia schiavitù, perché ci sono delle differenze sostanziali rispetto a quest’ultima. Per esempio il fatto che queste persone percepiscono uno stipendio; ma di certo è lavoro non-libero, non si tratta di un mercato del lavoro in cui le persone possono scegliere liberamente.

(La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata il 1 dicembre)

Roma, 29 novembre 2017, Nena News

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