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La cripta che custodisce il sonno della SPD

Tiene banco il congresso della SPD, svoltosi il 21 gennaio a Bonn e in cui il 56,4% dei delegati (contrari, per lo più, i “Juso”, i giovani socialisti di Kevin Kühnert) ha dato via libera all’adesione del partito alla “große Koalition” con CSU e CDU, sancita in una comune carta di intenti stilata in precedenza.

Un documento, questo, a proposito del quale, la scorsa settimana, Herbert Becker, sul settimanale del DKP, Unsere Zeit, notava come sia quasi integralmente “scritto al Konjunktiv”: una lista di belle intenzioni di cui, forse, in un qualche futuro, ai tre partiti potrebbe venir voglia di parlare. Frasi astratte su problemi sociali, povertà della popolazione anziana e miseria infantile, contratti di affitto sociale, lavoro precario. Si dice di voler intervenire sul mercato immobiliare, costruendo 1,5 milioni di nuovi appartamenti con finanziamenti pubblici gratuiti: una manna per i costruttori, nota Becker. Si parla di “posti di lavoro sicuri e duraturi”, di “rivalutare” il lavoro temporaneo e part-time e viene aleggiata una futura “piena occupazione”, ovviamente pagata poco o nulla. L’unico tema su cui i tre partiti parlano chiaro, a parte l’auspicio di un ulteriore sviluppo del ruolo tedesco nella UE, è quello della sicurezza: modernizzazione delle forze armate, continuazione delle missioni estere, arruolamento di 15.000 nuovi uomini.

L’intera carta è scritta “non solo nello spirito, ma in parte anche nella formulazione” di associazioni padronali quali BDI (Bundesverband der Deutschen Industrie), Automobilverband e Bauernverband (agricoltori): si devono a esse anche i punti sull’importazione di “forza lavoro qualificata internazionale” e su una legge sull’immigrazione, inquadrata in una cornice di “protezione delle frontiere esterne dell’Europa, sviluppo di Frontex, situazione giuridica e sociale dei rifugiati”, fino al compromesso sulle quote, con la formula “da-a”: da 180.000 a 220.000 all’anno.

Altre “bellissime frasi di desideri” sono quelle su cultura e istruzione, salute e assistenza, ambiente e agricoltura: “sotto i dettami di industria e capitale finanziario” conclude Becker, “la SPD sembra aver abbandonato ogni tentativo di fingere di varare progetti sociali”. Dopo il congresso di Bonn, l’esponente di Die Linke Sahra Wagenknecht ha detto che la SPD sta liquidando se stessa: “da anni sta facendo politica contro i propri elettori, è responsabile di bassi salari, povertà degli anziani, privatizzazione e lavoro precario. Ora, solo la base può fermare il definitivo suicidio, altrimenti la SPD finirà nella cripta in cui sono già assopite le sue sorelle olandese, francese e greca”.

D’altronde, l’odierno atteggiamento “sociale” della socialdemocrazia tedesca, in un paese in cui le 40 persone più ricche hanno le “stesse possibilità” della metà più povera della popolazione, ha una tradizione: a proposito del retaggio imperiale sul divieto di sciopero per i dipendenti pubblici, tuttora in vigore, Die junge Welt ricorda la condotta del presidente socialdemocratico Friedrich Ebert (quello dell’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg) che nel 1922 decretò il divieto di sciopero in occasione dell’agitazione salariale del sindacato dei ferrovieri. Allorché i macchinisti confermarono l’azione, sostenuti da scioperi di solidarietà proclamati dai comunisti, il capo della polizia di Berlino ordinò l’arresto dei capi sindacali, con il consenso dei sindacati socialdemocratici e liberali. Lo stesso sembra ripetersi oggi, con il Dbb (Deutscher Beamtenbunde) l’associazione dei dipendenti pubblici, che continua a respingere il diritto di sciopero.

I funzionari pubblici possono infatti esprimere solo “simbolicamente” le proprie richieste sindacali; ma il divieto di sciopero viene sempre più spesso contestato, soprattutto nelle controversie salariali a livello di Land, dove è impiegata la maggioranza dei circa 1,7 milioni di dipendenti pubblici. Secondo i “tradizionali principi della pubblica amministrazione professionale”, scrive Die junge Welt, si richiede ai “servitori dello stato” uno “speciale dovere di lealtà”, in cambio di un trattamento di favore rispetto al resto del lavoro dipendente; l’obiettivo è chiaro: “separare dalla classe operaia, con alcuni privilegi e doveri speciali, uno strato cui si può far appello in periodi turbolenti. Per lo più, ciò ha funzionato bene: raramente gli impiegati pubblici hanno sollevato conflitti con le autorità”. Ma, oggi, la svolta neoliberista mette in discussione anche quello status quo: settori quali poste e telecomunicazioni, con moltissimi dipendenti pubblici, sono stati trasformati in società per azioni, con orario di lavoro esteso unilateralmente, così che la “speciale relazione di servizio e lealtà reciproci”, tra datori di lavoro e dipendenti pubblici, si è ridotta a lealtà unidirezionale dei dipendenti.

Va dunque di pari passo con le privatizzazioni e la crescente precarietà, la questione del reddito di base garantito, che sta animando il dibattito nella sinistra tedesca. Sull’ex organo della SED, Neues Deutschland, l’economista Erika Maier (nel 1969, a 32 anni, fu la più giovane docente della DDR) nota che questo “non è un progetto di sinistra”, perché “l’uomo ha bisogno del lavoro”. Linke e Verdi, scrive, ritengono che un reddito di base di 1.000 euro garantisca una vita dignitosa e sono convinti che il futuro non riserbi alternative. In effetti, cresce il numero di persone in condizioni di vita e di lavoro precarie: almeno due milioni di lavoratori autonomi spesso non sanno come pagare l’affitto e molti di loro non hanno assicurazione sanitaria e pensionistica. Aumenta anche il numero di lavoratori temporanei e pensionati poveri; con la digitalizzazione si sono persi milioni di posti di lavoro e si presume che nei prossimi anni scompariranno la metà o 2/3 dei posti di lavoro tradizionali.

Il presidente della DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund: la Confederazione generale dei sindacati) Michael Sommer, ritiene che un reddito di base per coloro che vengono cacciati dal processo lavorativo, finanziato dalle tasse, sia possibile e giusto. Anke Hassel, direttrice dell’Istituto economico-sociale alla Fondazione Böckler, dipinge il reddito di base come un “dolce veleno”, che divide ulteriormente la società e distrugge lo stato sociale. Katja Kipping, leader di Die Linke, vede nel reddito di base incondizionato un progetto di sinistra, con cui si realizza un cambiamento rivoluzionario ed emancipatore; Sahra Wagenknecht lo giudica un abbaglio.

Cosa rimane infatti, nota la Maier, di 1.000 euro al mese, se scompaiono tutte le prestazioni sociali: assistenza, contributi per affitto e riscaldamento, aiuti per malati, disabili e genitori single? E con un aumento delle tasse del 50% per finanziare il reddito di base, ogni cosa sarà di 1/4 più costosa. La verità, scrive la Maier, è che la povertà sarà solo incrementata: con l’eliminazione completa dello stato sociale, stato e aziende non si prenderanno più cura dei licenziati.

Ci sono attualmente 44 milioni di persone attive in Germania ed entro il 2060 la percentuale di popolazione attiva diminuirà di quasi il 20%: accorciando le ore di lavoro a 30 ore settimanali, calcola Erika Maier, si creerebbero oltre 10 milioni di nuovi posti di lavoro; la crescente produttività, consente inoltre di pagare lo stesso salario a ore di lavoro ridotte. La Germania ha urgente bisogno di insegnanti, maestre d’asilo, infermieri. C’è da costruire appartamenti e scuole, riparare ponti, rinnovare stazioni; preservare l’ambiente, proteggere il clima, richiede manodopera.

Quando si discute del reddito di base, ci si chiede se la “liberazione” di persone “mentalmente e fisicamente sane dal dovere di lavorare sia equo, solidale, umanistico; tradotto socialmente, ciò significa domandarsi se il reddito di base sia una valida idea di sinistra”. Rivendicare una società solidale e socialmente giusta significa che nessuno viva a spese degli altri. Questo non vale solo per “quelli in alto”, ma per tutti. Naturalmente, le persone hanno bisogno di tempo libero per figli, genitori non autosufficienti, formazione e riqualificazione, forse anche per la riscoperta di sé. Ciò richiede soluzioni individuali per orario di lavoro, borse di studio, prestiti agli studenti, prestiti o conti temporali personali finanziati con imposte.

Nella DDR, il popolo era ben istruito e godeva di sicurezza sociale. Affitti, pane, riscaldamento avevano prezzi bassi e stabili; il popolo sapeva di non lavorare per i capitalisti e nemmeno per il Comitato centrale. Tuttavia, con il pane si nutrivano i maiali e in inverno si lasciavano le finestre aperte: non tutti lavoravano disinteressatamente e responsabilmente. A suo tempo, Marx e Engels erano intervenuti contro certe illusioni del movimento operaio: nella “Critica al programma di Gotha”, criticarono nettamente la richiesta lassalliana di un “reddito integrale da lavoro”. Sono stati sviluppati diversi modelli per finanziare il reddito di base incondizionato; si tratta di cambiare le coordinate: costa molto meno creare nuovi posti di lavoro, che non pagare a ognuno un reddito base di 1.000 euro, con un aumento delle tasse del 50%. Dieci anni fa, l’allora coalizione rosso-rossa di Berlino, aveva creato un settore pubblico per i disoccupati di lunga durata, con posti di lavoro che assicuravano un minimo di sicurezza sociale.

Per l’uomo, conclude la Maier, il lavoro non è solo un dovere per la società, ma è parte della sua esistenza sociale. Il diritto al lavoro, per secoli obiettivo della sinistra, è oggi giudicato una reliquia dei tempi antichi. Ma, la non occupazione può avere anche un impatto politico: nelle aree a elevata concentrazione di beneficiari di Hartz IV, l’affluenza alle urne è talvolta inferiore al 30% e l’AFD è spesso il partito più forte.

A questo proposito, Jörg Roesler, storico dell’economia, ex collaboratore dell’Istituto di storia economica dell’Accademia delle scienze della DDR e ora membro della Historischen Kommission di Die Linke, si chiede su Neues Deutschland quale relazione ci sia tra la privatizzazione dell’economia della DDR e i successi elettorali della destra, particolarmente sostenuti proprio negli ex Länder dell’ex Germania Est. Alle elezioni del settembre scorso, infatti, la xenofoba AfD (Alternative für Deutschland) ha ottenuto un risultato a due cifre (12,6%). In Sassonia, l’AfD è stato il primo partito (nella Sassonia orientale, lo ha votato oltre 1/3 degli elettori) puntando soprattutto sullo spauracchio dell’immigrazione, presentata quale causa per cui i tedeschi dell’Est non stanno ancora così bene come era stato loro promesso dal governo federale 28 anni fa. In tutti i nuovi Länder annessi nel 1989, dal Meclemburgo-Pomerania occidentale alla Turingia, almeno uno su cinque o sei votanti ha scelto AfD; nei “vecchi” Länder, solo uno su otto.

Per i media main stream, nota Roesler, la ragione è semplice: gli “Ossis” (i tedeschi dell’est), che il regime comunista aveva tenuto isolati per lungo tempo dal mondo esterno, non hanno avuto l’opportunità di familiarizzare con le culture straniere.

I media hanno così trovato il pretesto, si potrebbe osservare, per far ricadere anche questo problema sulla DDR in sé, e non sulla sua deindustrializzazione decretata dal capitale della RFT. E infatti, nota Roesler, “le ricerche dimostrano come non vengano prese di mira, di per sé, le minoranze religiose, culturali o etniche, ma sia piuttosto la condizione sociale a nutrire i pregiudizi. Se il contrasto tra ricchi e poveri diventa sempre più profondo e le persone sono minacciate in qualsiasi momento da precarietà e declino sociale, sentendosi impotenti, queste reagiscono con la rabbia”. E AfD ha raccolto consensi non solo per la retorica xenofoba, ma soprattutto perché, fondato appena quattro anni fa, non appartiene ai partiti dell’establishment della Repubblica Federale, che avevano promesso ai tedeschi dell’est il rapido allineamento al potere economico e al tenore di vita dei “fratelli e sorelle” dell’ovest.

Parafrasando l’ovidiano re d’Etiopia, Cefeo: ripagano per ciò che era stato pattuito con le parole, ma non meritato coi fatti.

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