Cominciano domani e andranno avanti fino al 8 settembre (salvo “contrattempi”) manovre aero-navali russe nel Mediterraneo orientale. La scala di tali esercitazioni è tutt’altro che modesta: si parla di 25 vascelli delle flotte dei mari Nero, Baltico, del Nord e del Caspio; 30 velivoli dell’aviazione strategica e di marina, tra cui aerei lanciamissili Tu-160, antisom Tu-142MK e Il-38, caccia Su-33 e Su-30SM.
Non è certo casuale tale concentramento: Mosca parla da tempo della possibilità dell’ennesima provocazione contro la Siria – il governo siriano denuncia il rapimento di 44 bambini da parte dei “caschi bianchi”, nell’area di Aleppo, che dovrebbero venir utilizzati per la solita messinscena dell’attacco chimico – e tale schieramento di mezzi militari costituisce una chiara dimostrazione di forza nei confronti di Washington e della NATO.
Al largo delle coste siriane incrociano a rotazione una decina di vascelli russi, tra cui, come riferisce topcor.ru, l’incrociatore lanciamissili “Maresciallo Ustinov” (armato con il complesso missilistico antinave “Vulcan”), la nave antisom “Severomorsk”, due sommergibili nucleari e altri due diesel, fregate armate con missili alati antinave “Kalibr-NK”, vascelli pattugliatori, a difesa della base russa di Tartus. Oltre a ciò, i sempre più stretti legami della Russia con la Turchia, anche mediante le forniture militari, mirano a raggiungere una piena libertà di transito attraverso Bosforo e Dardanelli per le unità russe, la qual cosa può portare a un diverso equilibrio militare nel Mediterraneo orientale.
Sulla linea opposta del fronte, Washington ha concentrato oltre un centinaio di missili alati (a bordo di torpediniere e cacciatorpediniere nel Mediterraneo e nel Golfo persico e di bombardieri B-1B stazionanti in Qatar) in vista dell’oramai sempre più annunciato attacco alla Siria, per ostacolare, dietro il paravento di un fantomatico “attacco chimico” delle forze governative, lo sforzo di Damasco di riprendere il controllo, da una parte, della provincia di Idlib, al 70% sottomessa alle bande islamiste e, dall’altra, delle aree in mano alle cosiddette “forze democratiche siriane”, sostenute dalla coalizione a guida USA.
Per parare l’attacco yankee, Mosca rafforza ulteriormente, con i complessi antiaerei semoventi “Tor-M2”, le difese antimissilistiche attorno alla base aerea di Khmeimim. Di contro, per sostenere le “forze democratiche”, Washington e compari danno il via alla realizzazione di una nuova base nell’estremo est della Siria, nell’area di Hajin, in prossimità del confine iraqeno, uno dei punti d’appoggio dello stato islamico, nella provincia di Deir el-Zor. Secondo la versione ufficiale, la base deve fungere da sostegno per le le “forze democratiche”, nella battaglia contro l’ultima roccaforte dei terroristi sulla riva orientale dell’Eufrate: un’area, guarda caso, ricca di petrolio, con il 70% dei giacimenti petroliferi siriani.
D’altra parte, nonostante il numero non indifferente di unità navali russe, gli Stati Uniti rimangono convinti della propria assoluta superiorità nel Mediterraneo orientale: indipendentemente dal numero di vascelli russi che si stanno concentrando in quel bacino, scrivono gli analisti dell’agenzia “Stratfo”, Mosca non ha alcuna possibilità di impedire agli USA di colpire obiettivi siriani. Anche se le unità russe riuscissero ad abbattere alcuni dei “tomahawk”, come avvenne lo scorso aprile, il grosso dei razzi yankee arriverà sul bersaglio, dicono gli americani.
C’è comunque un altro soggetto, interessato alla situazione nell’area: Pechino. Già lo scorso aprile, ricorda Vladimir Pavlenko su iarex.ru, alle unità cinesi presenti nel bacino del Mediterraneo orientale, era stato impartito l’ordine di unirsi alla squadra navale russa e concentrarsi in vista della base di Tartus, in caso di massiccio bombardamento statunitense sulla Siria. Al momento, nel Mediterraneo orientale incrociano tre vascelli cinesi, nel quadro del contrasto alla pirateria.
Quanto è reale, si domanda Pavlenko, l’ipotesi di una più stretta collaborazione politico-militare tra Mosca e Pechino? Al momento, si è alla vigilia delle manovre militari russe “Vostok-2018” nell’area a oriente del lago Bajkal, poco meno di 1.000 km a est di Ulan-Udè: le manovre più grandi dal 1981, per numero di uomini e mezzi, con quasi un terzo di milione di uomini; alle forze russe si uniranno, dal 11 al 15 settembre, anche un discreto numero di soldati e mezzi aerei cinesi. Per quanto locali e lontane dal teatro mediterraneo, tale manovre congiunte sono indicative del clima russo-cinese; oltretutto, le esercitazioni saranno dirette da un comando comune.
Se a ciò si aggiunge il fatto di come, meno di un mese fa, l’ambasciatore cinese in Siria, Qi Qianjin, e l’addetto militare Wong Roy Chang avessero proclamato l’intenzione di Pechino di partecipare alla liberazione della provincia di Idlib, appare abbastanza chiaramente delineato il piano a lungo termine cinese, per sgombrare il terreno al transito verso occidente, tanto più che i terroristi-separatisti uighuri appaiono massicciamente radicati in quella provincia siriana e pronti a penetrare nello Xinjiang.
Nemmeno vanno dimenticate le dichiarazioni di Xi Jinping, già due anni fa, a crisi siriana in corso, in occasione del 95° anniversario del PCC: “Il mondo è sull’orlo di cambiamenti radicali. Vediamo come l’Unione europea stia gradualmente collassando e come stia rovinando l’economia americana. Tutto ciò porterà, nel giro di una decina d’anni, a un nuovo ordine mondiale, la cui chiave di volta sarà costituita dall’alleanza tra Repubblica Popolare Cinese e Russia. Ora stiamo assistendo ad azioni aggressive da parte degli Stati Uniti, sia contro la Russia che contro la Cina. Credo che Russia e Cina possano dar vita a un’alleanza, contro cui la NATO sarà impotente e questo metterà fine alle aspirazioni imperialiste dell’Occidente“.
Uno dei punti nevralgici dello scontro passa oggi per la Siria. Dal momento che la principale forza navale USA nell’area è costituita dalla VI flotta, il cui comando è in Italia, è evidente il pericolo rappresentato per la penisola dalla crescente tensione nel Mediterraneo orientale.
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