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L’Ue contro le colonie israeliane in Palestina, Tel Aviv isolata

Per chi continua a guardare il mondo con le lenti deformate del passato Israele è solo una pedina degli Stati Uniti e più in generale dell’Occidente. Per alcuni è addirittura il contrario, sarebbe la più grande – per quanto in declino – superpotenza esistente, gli Stati Uniti, ad essere manovrata in tutto e per tutto dalla classe dirigente israeliana. Ma il mondo cambia a passo di carica, e ciò che era vero dieci anni fa non lo è più, le alleanze cambiano, si compongono e si scompongono, il quadro si fa più complesso e articolato e ridurre tutto al ‘bianco contro nero’ può diventare consolatorio ma inefficace a comprendere le tendenze in atto.

Rischiando ad esempio di farsi sfuggire il fatto che Israele in occidente non è mai stato così solo come sta accadendo in questi frangenti. Le relazioni tra Tel Aviv e Washington si sono da tempo deteriorate – qualcuno, forse forzando un po’, afferma che Obama parla più spesso con i leader iraniani che con quelli israeliani – e quelle tra lo ‘stato ebraico’ e l’Unione Europea diventano addirittura tese. Non perché Obama o la classe dirigente europea siano improvvisamente diventati sensibili alle denunce del popolo palestinese sull’apartheid che Tel Aviv applica tanto agli occupati quanto ai cittadini di serie B. La questione alla base dello scontro è che gli interessi della fortezza israeliana, governata da una classe dirigente forsennata, coincidono sempre meno sia con quelli di Washington sia con quelli di Bruxelles- Francoforte. Anzi, a dire il vero Israele sempre più spesso cerca di rompere le uova nel paniere agli ex padrini mettendosi di traverso rispetto ai piani, alle strategie, ai progetti europei e statunitensi nell’area. Più l’isolamento e l’indebolimento economico e politico di Israele cresce, più aumentano l’estremismo e il parossismo delle politiche coloniali e guerrafondaie portate avanti dal suo establishment. Il che innesca una spirale micidiale – per Israele, ovviamente – che costringe Ue e Stati Uniti a differenziarsi, ad alzare i toni, a diminuire le relazioni. Anche se finora – su questo occorre essere chiari – nessuno a Washington o a Bruxelles si è sognato di fare alcunché di concreto per fermare la mano assassina dei coloni, dell’esercito e degli apparati repressivi tanto criticati.
L’ultima tegola per Israele, dopo la dura reazione del governo svedese alla strage di palestinesi operata negli ultimi mesi dalle forze di sicurezza di Tel Aviv con la scusa del contrasto alla cosiddetta ‘Intifada dei coltelli’, arriva dal Consiglio per gli Affari Esteri dell’Unione Europea, che ha approvato ieri una storica (quanto tardiva) risoluzione con la quale chiede che gli accordi tra lo Stato di Israele e l’Ue stabiliscano in modo inequivocabile ed esplicito la loro inapplicabilità nei Territori occupati nel 1967. La risoluzione è la conseguenza della presa di posizione della Commissione Europea che nel novembre scorso aveva chiesto a Israele di etichettare in maniera riconoscibile i prodotti esportati all’interno dell’Unione Europea provenienti non da Israele ma dalle colonie.
A Israele i ministri degli Esteri dell’Ue chiedono inoltre, esplicitamente, di «mettere fine alle attività d’insediamento e di smantellare gli avamposti eretti a partire dal marzo 2001», perché le colonie realizzate in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nel Golan siriano «mettono seriamente a rischio la possibilità per Gerusalemme di diventare la futura capitale dei due Stati”, cioè della Palestina e di Israele. La risoluzione ricorda che gli insediamenti «sono illegali in base alla legge internazionale, costituiscono un ostacolo alla pace e minacciano di rendere impossibile la soluzione dei due Stati» e ribadisce la contrarietà di Bruxelles al cosiddetto “Muro di separazione” realizzato da Israele nei territori palestinesi occupati, in particolare in Cisgiordania e intorno a Gerusalemme, alle demolizioni e confische di case e terreni, ai trasferimenti forzati (cioè alle deportazioni) della popolazione araba e alle draconiane restrizioni alla libera circolazione degli abitanti dei territori occupati. 
Israele ha reagito alla decisione del Consiglio per gli Affari Esteri di Bruxelles con i soliti toni isterici, ricorrendo alle consuete accuse di antisemitismo, di tradimenti, di “collaborazione con i terroristi”, dopo che Tel Aviv aveva tentato inutilmente, nei giorni scorsi, di bloccare la presa di posizione comunitaria esercitando pressioni sui paesi europei con cui lo ‘stato ebraico’ intrattiene le più proficue relazioni: Cipro, Grecia (!), Repubblica Ceca, Ungheria e Bulgaria. Ma il pressing, attuato nella speranza che tirandosi indietro alcuni paesi europei il Consiglio si sarebbe convinto a rimandare l’adozione della risoluzione e a rivedere il testo per limarne gli aspetti più invisi a Tel Aviv, non ha funzionato.
Non è proprio una bella notizia con Israele che proprio in questi giorni deve fare i conti con un sostanziale allentamento dell’isolamento imposto dal fronte occidentale al suo nemico giurato, l’Iran.
Ieri l’ambasciatore degli Stati Uniti a Tel Aviv, Dan Shapiro, che parla un buon ebraico e alcuni dei cui parenti sono cittadini israeliani, è stato costretto a dire che “l’amministrazione americana è preoccupata e perplessa” per la politica di espansione delle colonie da parte di Israele, una “politica che suscita domande sulle reali intenzioni di Netanyahu.
A Tel Aviv si spera che le elezioni presidenziali statunitensi facciano tornare alla Casa Bianca un esponente repubblicano più accondiscendente nei confronti delle pretese di Israele. Ma la sostituzione di Obama potrebbe, vista la situazione, non essere sufficiente. 

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