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Turchia. Erdogan consolida la dittatura presidenziale, paese in grave crisi economica

Il 20 gennaio 2018 l’esercito turco iniziava un attacco su vasta scala sul piccolo cantone di amministrazione autonoma di Afrin nel nordovest della Siria, abitato soprattutto da curdi. Per due mesi le Unità di Difesa del Popolo e delle Donne YPG/YPJ curde tennero testa agli attacchi dell’esercito pesantemente armato con carri armati »Leopard II« e dei suoi mercenari jihadisti. Ma contro gli attacchi aerei costati la vita a oltre 1.000 combattenti YPG e che hanno distrutto in modo mirato infrastrutture civili, i difensori muniti di armi leggere a lungo andare erano impotenti.

Centinaia di migliaia di curdi sono fuggiti da Afrin, che ora è stato messo sotto il comando di un governatore coloniale deciso da Ankara. Milizie dell’area di Al-Qaida entrate insieme all’esercito turco nella regione fino ad allora risparmiata dalla guerra, hanno costruito un regime di terrore nel quale saccheggi, stupri, sequestri e scontri armati sono diventati la quotidianità.

Calcolo di politica interna

Alla guerra contro Afrin il Presidente Recep Tayyip Erdogan aveva legato l’intenzione di politica interna di intimidire e eliminare la poca opposizione rimasta. Un nazionalismo controllato dal governo e alimentato dai media pervadeva il Paese, imam pagati dallo Stato nelle moschee proclamavano la »Jihad«, oppositori della guerra venivano arrestati a centinaia per dichiarazioni nei »social media«.

A fronte del prevedibile inizio di una grave crisi economica, Erdogan fece anticipare le elezioni presidenziali e parlamentari in realtà previste per il novembre 2019, al 24 giugno 2018. Il partito di governo religioso-nazionalista AKP si è presentato alleato con i Lupi Grigi fascisti dell’MHP, mentre il CHP kemalista, il più importante partito dell’opposizione, si era alleato con il Partito della Felicità islamista e la scissione dell’MHP Iyi.

Kemalisti si piegano

Fuori dai due campi di destra, si presentava come alternativa l’HDP di sinistra, radicato in particolare tra i curdi. Ma per via dello stato di emergenza non era possibile una campagna elettorale libera per il partito il cui candidato presidenziale, Selahattin Demirtas, come migliaia di iscritti al partito si trova in carcere. Ciò nonostante l’HDP è stato in grado di superare la soglia del dieci percento – un successo importante. Il candidato del CHP Muharrem Ince si rivelava come portatore di speranze che in manifestazioni di massa entusiasmava milioni di persone. Ma già nella notte dopo la votazione il kemalista si è piegato e nonostante brogli elettorali palesi, ha riconosciuto la vittoria che, con il 52,5 percento, Erdogan ha ottenuto solo di misura. Davanti a una teppa fascista che nel centro di Ankara festeggiava sparando la vittoria del »reis« (comandante), Ince evidentemente era arrivato alla conclusione che altrimenti ci sarebbe stato il rischio di una guerra civile.

Con la vittoria di Erdogan entrava in vigore contemporaneamente anche il sistema presidenziale imposto nell’anno precedente tramite un referendum, con il quale il Parlamento è stato degradato a comitato di approvazione privo di influenza. La rimozione dello stato di emergenza due anni dopo il fallito golpe a quel punto era ormai solo una formalità.

Lira sotto pressione

Ma l’onnipotente Presidente è apparso incapace di agire di fronte alla rapida caduta della Lira turca, che nel corso dell’anno ha perso il 30 percento rispetto al dollaro USA. Erdogan e il suo Ministro delle Finanze e genero Berat Albayrak, si ritenevano in una »guerra economica« con una mafia finanziaria straniera. Il capo di Stato ha invitato la popolazione al cambio delle loro riserve di valuta e di oro in Lire e ha definito gli interessi come »padre e madre di ogni male«.

Fermare temporaneamente la caduta della Lira è stato possibile solo quando nel settembre la banca centrale – contro il volere di Erdogan – ha alzato in modo consistente il tasso guida, tuttavia con la conseguenza che la congiuntura è sprofondata e osservatori, come l’agenzia di rating Moodys, vedevano prepararsi addirittura una recessione. L’inflazione in ottobre con l’aumento dei prezzi al consumo di circa il 25 percento ha raggiunto il suo valore più alto da 15 anni.

Anche l’apertura del terzo aeroporto di Istanbul il 29 ottobre, la giornata di festa nazionale, non è stata in grado di distrarre dalla crisi. Poco prima dell’apertura erano entrati in sciopero numerosi lavoratori, perché le miserabili condizioni di lavoro in questo mega-progetto sono costate la vita a circa 400 dipendenti.

Lite con gli USA

Il rapidissimo crollo della Lira durante l’estate aveva anche cause politiche. La fiducia di investitori stranieri, dai quali l’economia turca è fortemente dipendente, era stata minata da decisioni arbitrarie di Erdogan. A questo si era aggiunta la lite con gli USA per il prete statunitense Andrew Brunson, incarcerato in Turchia per assurde accuse di terrorismo. Per estorcere la sua liberazione, il Presidente USA Donald Trump aveva fatto perfino imporre ad Ankara dazi punitivi. Il predicatore evangelico, alla fine rilasciato in ottobre, tuttavia era solo un simbolo degli screzi tra i due partner della NATO.

Causa del conflitto è l’aspirazione della Turchia di ottenere maggiore diritto di parola come potenza regionale nell’alleanza bellica occidentale e di seguire propri progetti di conquista neo-ottomani in Iraq e in Siria. Il flirt di Erdogan con il Presidente russo Vladimir Putin, nel quale aveva ordinato missili antiaerei »S-400«, così serve all’obiettivo di aumentare i margini di manovra nell’ambito dell’alleanza occidentale.

Trump ritira le truppe

Con arresti di massa e operazioni militari nell’est della Turchia, nel 2018 la guerra contro il movimento di liberazione curdo è proseguita invariata. Le truppe della guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) sono tuttavia riuscite ad assestare all’esercito più volte colpi dolorosi nella zona di confine con l’Iraq. Con il pretesto della »lotta contro il terrorismo«, truppe turche nel corso dell’anno avevano costruito una testa di ponte profonda circa 30 chilometri nel nord dell’Iraq.

L’ultimo annuncio di Erdogan di voler procedere con un’ulteriore operazione militare contro la zona di amministrazione autonoma a est dell’Eufrate abitata in prevalenza da curdi, con lo sguardo rivolto alle elezioni amministrative nel prossimo marzo, mira a distrarre dalla miseria economica. Nel nordest della Siria, la prevedibile conquista dell’ultima zona di ritirata di »Stato Islamico« a est dell’Eufrate a Deir Al-Sor, ha portato alla fine dell’alleanza tra gli USA e le YPG curde, da entrambe le parti intesa dichiaratamente solo come tattico-militare.

L’ordine di ritiro dato da Trump alla fine di dicembre per i soldati USA significa allo stesso tempo via libera da Washington per un ingresso turco, per far rientrare in questo modo Ankara di nuovo saldamente nell’alleanza strategica della NATO. Per i curdi e gli altri popoli della Siria del nord con la grande guerra che ora incombe, è in gioco tutto.

* da Junge Welt – Tradotto e pubblicato da Rete Kurdistan

https://www.jungewelt.de/artikel/346658.jahresrückblick-türkei-kurdistan-krieg-und-krise.html7

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