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Gli USA spiegano quanto conti il voto in Ucraina

Domenica 21 aprile è la giornata del secondo turno delle elezioni presidenziali ucraine tra i due candidati rimasti in lizza: l’oligarca Petro Porošenko e lo showman Vladimir Zelenskij, pedina dell’oligarca concorrente Igor Kolomojskij.

Nella tardissima serata di sabato 20 aprile si è consumato l’ultimo disperato tentativo di Porošenko di scongiurare la sconfitta: dinanzi alla 6° Corte d’appello amministrativa di Kiev era stata intentata una causa per l’esclusione di Zelenskij dalla corsa elettorale, con l’accusa di “compravendita di voti”. Nella notte tra sabato e domenica la Corte ha però deciso di rigettare la denuncia; così che sono andate in fumo le speranze dell’attuale Presidente golpista di ritrovarsi unico concorrente in gara.

Ma già ventiquattr’ore prima, negli ultimissimi minuti prima dello scoccare della giornata del silenzio del 20 aprile, il rappresentante speciale del Dipartimento di stato USA per l’Ucraina, Kurt Volker, aveva ricordato, a chi eventualmente ne dubitasse, come stiano effettivamente le cose: gli Stati Uniti sono arrivati in Ucraina seriamente e per rimanerci a lungo.

Dunque, chiunque vinca la farsa elettorale, Washington continuerà a “fornire tutta l’assistenza possibile” a Kiev, per rientrare in possesso di “tutti i territori perduti”, perché gli USA vogliono una “forte Ucraina, nei vecchi confini”. Ma, già lo scorso 4 aprile, il rappresentante regionale della Banca Mondiale, Satu Kahkonen, si era rivolto proprio a Kurt Volker prefigurando la probabile vittoria di Vladimir Zelenskij al secondo turno, disegnando il futuro del paese quale repubblica parlamentare; esprimendosi per l’affidamento della carica di Primo Ministro all’attuale Ministro degli interni Arsen Avakov; e chiedendo a nient’altri che allo stesso Volker di ridurre al minimo le possibilità per Julia Timošenko di diventare Primo ministro. Quando si dice la “sovranità del paese”…

Dopo il duello dibattimentale di venerdì pomeriggio, allo stadio “Olimpijskij” di Kiev, tra Porošenko e Zelenskij, il vero suggello alla chiusura della campagna elettorale lo ha dunque fornito la Casa Bianca, come è d’altronde “naturale” nell’Ucraina golpista.

D’altra parte, le battute verbali tra i due contendenti di fronte ai “tifosi” schierati per l’uno o l’altro sul campo e sulle tribune dello stadio, non riguardavano certo la fine dell’aggressione al Donbass o la condanna dei golpisti, ma essenzialmente la disputa tra interessi dell’uno o dell’altro clan o cordata oligarchica, l’arricchimento di uno dei golpisti a spese dell’altro.

Non va dimenticato che, se Vladimir Zelenskij ha addossato a Porošenko la responsabilità delle disfatte di Debaltsevo e Ilovajsk, le sacche in cui le milizie riuscirono a intrappolare migliaia di soldati ucraini, il mandante di Zelenskij, quel Igor Kolomojskij ex governatore della regione di Dnepropetrovsk – prima che la guerra aperta con Porošenko lo obbligasse alla fuga in Israele – è stato uno degli sponsor e finanziatori del battaglione nazista “Pravij Sektor”, tra i più feroci raggruppamenti terroristici (a dispetto del “romanticismo” di Repubblica) nei confronti della popolazione civile del Donbass.

Certo, Zelenskij ha avuto buon gioco nel dare addosso a Porošenko, domandandogli come sia potuto “accadere che l’Ucraina sia diventata lo stato più povero d’Europa, con uno dei Presidenti più ricchi”; oppure perché “nessuno sia dietro le sbarre per Ilovajsk e Debaltsevo”; o ancora, come mai Porošenko abbia “mandato 23 marinai a morire” per la provocazione nello stretto di Kerč e lo ha definito “un lupo con sembianze d’agnello”, cui “verosimilmente toccherà comparire davanti ai giudici”.

A sua volta, il primo golpista d’Ucraina ha accusato lo showman di non esser in grado di “studiare da Presidente”, di “raccontare solo balle”, di essere “una copertina senza contenuto” e di aver “ricevuto denaro russo per il cinema”: una “colpa” che in Ucraina si paga cara; e infatti la consorte di Zelenskij è stata immediatamente inserita nella lista nera di “Mirotvorets”. Ma ha anche dato a intendere di esser consapevole della probabile sconfitta, dichiarando che il 21 aprile accetterà “qualunque scelta e il 22 aprile la vita continuerà”. E se Zelenskij ha domandato a Porošenko “come mai non sia ancora finita la guerra”, sottintendeva non la cessazione del conflitto, ma la “conclusione vittoriosa” dell’aggressione al Donbass.

D’altronde, Zelenskij ha dichiarato chiaro e tondo al canale “1+1” (finanziato da Kolomojskij) che, in caso di vittoria elettorale, non ha alcuna intenzione di venire a patti con “gli insorti” del Donbass, beccandosi per questo la reprimenda di Porošenko, per aver definito insorti gli “aggressori russi”: nessuno “perdonerà i banditi! I criminali saranno puniti”, aveva detto Zelenskij in televisione.

Ecco quindi la “voce del padrone” americano ribadire i veri contenuti della politica consolidata dietro la sceneggiata del voto: gli USA sono “qui a lungo e siamo qui per sostenere una Ucraina pacifica, forte, democratica, prospera e sicura, che veda le proprie frontiere e i propri territori, inclusa la Crimea, pienamente ripristinati”. Prospera e sicura come lo sono tutti Paesi in cui la bandiera a stelle e strisce sia arrivata a “portare la democrazia”!

Nessuna meraviglia, dunque, che “l’uomo nuovo”, il “non politico” Vladimir Zelenskij, al pari del navigato Petro Porošenko, ribadisca che il filo-nazista capo di OUN-UOA, Stepan Bandera, sia “l’eroe dell’Ucraina”, mentre la Russia un “paese aggressore”. Nessuno crede che, chiunque esca vincitore dal voto del 21 aprile, venga ristabilito il vecchio nome a quella strada centrale di Kiev da poco intitolata a uno dei nuovi “eroi”, il guerrafondaio yankee John McCain; strada che era dedicata al leggendario agente sovietico sotto l’occupazione nazista, Ivan Kudrja, definito ”terrorista e agente del KGB” da Irina Lutsenko, moglie del Procuratore generale, l’elettrotecnico Jurij Lutsenko. Omaggio doveroso a Washington.

Nessuno crede che, chiunque prenda il potere a Kiev, abbia serie intenzioni di mettere fine all’aggressione alle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk.

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