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Francia. Il dibattito sull’economia ipoteca le elezioni

Ho preparato questo per settimane, e sono felicissimo. Ho lanciato la mia granata. Ora vedremo come se la caveranno.“. (Emmanuel Macron, da “Le Monde”)

Dall’annuncio dello scioglimento dell’Assemblea Nazionale, l’interesse si è concentrato sui possibili danni post-elettorali all’economia francese in caso della vittoria del Nuovo Fronte Popolare o del raggruppamento incentrato sul Rassemblement National. I media tradizionali e gli economisti stanno lanciando l’allarme, come ogni volta che il “blocco centristaè minacciato, sugli effetti catastrofici di una vittoria “populista”, e si intravede la possibilità di rottura con la continuità neo-liberista.

Rottura fittizia nel caso della vittoria dell’estrema-destra, parziale in caso del successo del Nuovo Fronte Popolare.

Lunedì 17 giugno, ad esempio, il quotidiano economico Les Echos, di proprietà del gruppo di beni di lusso LVMH, ha pubblicato un titolo su “cosa vi aspetta con i programmi di ‘rottura‘”, che potrebbero essere “molto costosi” e causare panico sui mercati.

È un metodo classico, quello del vero e proprio terrorismo psicologico del “voto dei mercati”, è un terrorismo proprio della retorica conservatrice quello di prevedere un futuro collasso se ci si discosta, anche marginalmente, da ciò che già esiste.

Si domanda Romaric Godin in un articolo su Mediapart pubblicato il 18 giugno: “La narrazione dominante è quella di un “rischio politico” – come si dice in borsa – che potrebbe minacciare un’economia fiorente. Ma c’è una spina nel fianco di questa narrazione. Se l’economia è così florida, se la situazione attuale ha bisogno di tanta protezione, come si spiega l’attuale malcontento dell’opinione pubblica? Come spiegare il fatto che le forze politiche che difendono lo status quo ante raccolgono solo tra il 15 e il 20% dei voti?”

E la risposta è abbastanza convincente: “Allora dobbiamo avanzare un’altra ipotesi: che il problema non sia il rischio politico per l’economia, ma il rischio economico per la politica. In altre parole, è lo stato disastroso dell’economia e della sua gestione che logicamente porterebbe gli elettori a cercare alternative.”

La narrazione conservatrice del terrore cerca di cancellare la responsabilità delle politiche neo-liberali – e dell’appoggio dato dall’estrema destra a queste – per la situazione attuale, ma la comprensione della situazione attuale richiede un’analisi concreta delle condizioni economiche che hanno dato origine alla costellazione politica esistente.

In una situazione di rallentamento e poi di stagnazione economica in Occidente, la politica ha scelto di redistribuire sempre meno la ricchezza .

Robert Brenner e Dylan Riley in un articolo pubblicato sulla New Left Review alla fine del 2022 sulla politica statunitense hanno affermato che la politica è diventata una “politica di redistribuzione a somma zero”.

In Francia, tra il 2008 e il 2023 (escludendo gli effetti della crisi sanitaria), la crescita annuale ha superato solo due volte il 2% (nel 2011 e nel 2017). Se il trend del 2003-2008 fosse continuato, il PIL francese sarebbe più alto del 19,5%.

In concreto, ciò si traduce in un PIL pro capite (a parità di potere d’acquisto e in dollari costanti) che, secondo la Banca Mondiale, è aumentato solo del 6,4% nei quindici anni tra il 2007 e il 2022. È quindi facile capire perché la riduzione del tasso di disoccupazione di cui la maggioranza uscente va tanto fiera può essere ottenuta solo attraverso una forte moderazione salariale. I posti di lavoro offerti sono scarsamente retribuiti, per cui i disoccupati devono essere costretti ad accettarli riducendo i sussidi di disoccupazione.

Tutto questo genera una spirale negativa che aumenta la deflazione salariale e comprime i consumi, con un effetto di retroazione negativa sul ciclo economico stesso.

Brenner e Riley denunciano il fatto che al di là della retorica: “La politica attuale ha abbandonato la speranza stessa della crescita”.

Per quarant’anni i neoliberali hanno promesso che le “riforme strutturali” avrebbero incrementato la produttività e la crescita, ma le riforme ci sono state e la crescita non è praticamente migliorata.

Alla fine del 2023, il PIL francese era inferiore dell’1,8% rispetto al trend 2009-2019 (che, come abbiamo visto, era già un trend molto debole). Questo indebolimento è stato accompagnato da un forte deterioramento della produttività.

Insomma scarsa crescita e abbassamento della produttività sono il risultato delle politiche neo-liberiste che vanno retrodatate rispetto ai 7 anni di presidenza di Macron.

Questo avviene contestualmente a due tendenze tipiche dello “Stato per il mercato”: riducendo la quota destinata ai salari e permettendo al capitale di catturare il reddito generato dal debito pubblico.

La promessa neoliberista di un ritorno alla crescita è quindi solo una finzione che nasconde una vera contro-redistribuzione a favore del capitale.

La crescita non riprende e i redditi delle famiglie sono sotto pressione. Secondo una pubblicazione Francia 2023 dell’INSEE il reddito disponibile reale per unità di consumo (cioè tenendo conto delle dimensioni della famiglia) è aumentato del 3,5% tra il 2007 e il 2022” afferma Gaudin.

Si tratta di un dato complessivo, il che significa che per molte famiglie francesi il reddito “utilizzabile” è aumentato a malapena negli ultimi quindici anni. Allo stesso tempo, i massicci trasferimenti al settore privato (stimati tra i 160 e i 200 miliardi di euro all’anno) stanno riducendo la capacità dei servizi pubblici. È così che ci ritroviamo nell’attuale situazione apparentemente paradossale: un deficit galoppante e, allo stesso tempo, servizi pubblici che si deteriorano rapidamente” continua il giornalista di Mediapart.

Questa situazione concreta e tangibile ha messo progressivamente in discussione l’ideologia neo-liberista in Francia e colui che ne incarnava la narrazione: Macron.

Mentre i “centristi” sono per la continuazione di queste politiche, le ricette peculiari dell’estrema destra tendono a proporre come soluzione “la guerra dei penultimi contro gli ultimi”.

Il Rassemblement National (RN), mira a organizzare una redistribuzione basata su criteri nazionali ed etnici dentro un piano di compatibilità.

È il principio della “preferenza nazionale“, che è sempre stato al centro del suo progetto e non è mai stato abbandonato. L’obiettivo è trasferire risorse da questa popolazione discriminata a una popolazione “nazionale” privilegiata. Questa repressione etnica promette a coloro che sono “dalla parte giusta” redditi più alti a spese di una parte della popolazione.

Come evidenza Gaudin : ”valorizza la nazionalità come un merito che dà diritto a una fetta maggiore della torta. La sua forza sta nel fatto che non mette in discussione il sistema di produzione del valore, il che lo rende “accettabile” per una popolazione che, per quasi quattro decenni, è stata abituata a considerare impossibile qualsiasi sfida all’ordine sociale esistente. A ciò si aggiunge una nostalgia reazionaria per i “bei tempi andati” idealizzati delle Trente Glorieuses, presumibilmente corrotti dall’arrivo di popolazioni straniere”.

Come sempre, gli attacchi ai lavoratori su base etnica sono inseparabili dagli attacchi al mondo del lavoro nel suo complesso” conclude il gionalista.

Insomma preso tra l’incudine del “collare a strozzo” della UE a cui si sta progressivamente piegando e dei miliardari “grandi elettori” dell’estrema destra, un governo a trazione lepenista continuerebbe con le politiche neo-liberiste in chiave sempre escludente.

La ricetta che sta emergendo invece all’interno del programma del Nuovo Fronte Popolare è un opzione redistributiva che mira a modificare la redistribuzione tra capitale e lavoro.

Se sul piano della politica internazionale il programma del NFP ha più ombre che luci, sul piano della redistribuzione della ricchezza è inequivocabile: mira al reddito del capitale per ridistribuirlo in salari e servizi pubblici. Questa strategia potrebbe essere concepita come una politica di classe favorevole ai lavoratori invertita rispetto alla lotta di classe dall’alto imposta dal macronismo.

Gaudin ne mette in evidenza però i limiti: “Il problema centrale di questa politica di sinistra è che si limita in gran parte alla questione della redistribuzione. Per essere sostenibile, tuttavia, tale politica deve poter contare su una ripresa della produttività e della crescita. È solo a questa condizione che la redistribuzione verso il lavoro può continuare e che possiamo avere una base imponibile sufficiente. In altre parole, per aumentare i salari è necessario mantenere alti i profitti e per tassare i ricchi è necessario che ci siano persone ricche da tassare.

In realtà, una politica di sinistra strettamente redistributiva è possibile solo in un contesto di crescita solida. Il PNF scommette quindi che questa politica di redistribuzione sarà in grado di aumentare la produttività e la crescita. È una logica keynesiana che ha il merito di unire le varie componenti della sinistra”.

Aggiungiamo noi che oltre a un problema di congiuntura economica che va cronicizzandosi all’interno della crisi del modo di produzione capitalista, vi è un problema di modello di sviluppo considerato che il processo di accumulazione capitalista nel cuore della UE è sempre più orientato alla strutturazione di un complesso militar-industriale come vettore di uscita dalla crisi.

Ed il ragionamento di Gaudin qui si fa più ficcante.

Il tallone d’Achille della logica del PNF è che rimane in gran parte incorporata e dipendente dalla logica dell’accumulazione del capitale, senza dubbio per le ragioni che abbiamo già menzionato: la popolazione rimane in gran parte convinta che non ci sia via d’uscita da questo sistema. Ecco perché i tre blocchi fingono di promettere un ritorno alla crescita. (…) Ma se la crescita rimane insufficiente, l’unica soluzione “interna” è favorire l’accumulazione e tornare a politiche favorevoli al capitale. Questa è la logica che ha governato le “svolte” della sinistra di governo, da François Mitterrand a François Hollande. E le delusioni che le hanno accompagnate.”

Insomma, anche in caso di successo elettorale, l’inciampo – in prospettiva – è dietro l’angolo se oltre a rompere con il neo-liberismo non si attua un’alternativa di sistema.

Questo aspetto è sottolineato anche da Joseph Confavreux, sempre su Mediapart, in un articolo del 18 giugno.

Scrive il giornalista: “Dal momento che non sembrano possibili proposte di trasformazione, il circolo vizioso delle crisi politiche ed economiche non mostra alcun segno di fine.”

Dopo avere preso in rassegna gli ultimi esempi di terrorismo psicologico di parte marconista e padronale nei confronti del programma del NFP.

Per Confavreux si potrebbe “obiettare che il risultato del debito abissale e della disastrosa situazione economica e di bilancio della Francia è dovuto principalmente alle politiche neoliberiste perseguite per almeno due decenni. E potremmo soffermarci proprio sui sette anni di gestione macronista che hanno riservato alle fasce alte della popolazione i soli dividendi di un’economia capitalista strutturalmente in crisi, con tassi di produttività in calo e crescita a metà.

Questa la sua analisi:

Questo sgocciolamento è avvenuto attraverso due canali principali. In primo luogo, dal 2017 lo Stato ha perso 50 miliardi di euro di entrate fiscali, principalmente a causa dell’abolizione dell’imposta sul patrimonio (ISF), della riduzione dell’imposta sulle società e della CVAE (cotisation sur la valeur ajoutée des entreprises), dell’introduzione della “flat tax” e, in misura minore, dell’abolizione della taxe d’habitation e della redevance télévisuelle.

Insomma, una politica fiscale fortemente regressiva

In secondo luogo, il governo ha concesso aiuti massicci alle imprese, soprattutto alle più grandi, per un totale di 157 miliardi di euro all’anno, la voce più consistente del bilancio dello Stato: una manna che non è servita a invertire la tendenza alla precarizzazione di ampie fasce della società o a porre fine alla disoccupazione, e che invece è finita in gran parte nelle tasche degli azionisti e degli amministratori delegati, dal momento che anche le imposte eccezionali sui superprofitti sono state cancellate dall’agenda.

Ma con le elezioni europee e le mobilitazioni che si sono sviluppate dalla sera stessa il punto di caduta dell’egemonia neo-liberista ha conosciuto il suo punto più alto.

La convinzione del 2017 che uno spazio centrista potesse dinamizzare partiti di fatto decrepiti – a destra i gollisti ed a sinistra i socialisti usciti con le ossa rotte dall’esperienza presidenziale di Hollande -, si è esaurita, sotto la duplice realtà che il campo presidenziale ha raccolto solo circa il 7% dell’elettorato alle ultime elezioni europee e che il suo leader oggi assomiglia più a un apprendista stregone.

Bisogna comunque fare i conti con ciò che l’economista Lucas Chancel ha recentemente sottolineato, ovvero che la sfiducia nello Stato è a un livello molto alto e che molte persone preferirebbero vedere il RN andare al potere piuttosto che far pagare i ricchi, anche tra coloro che non ne fanno parte, perché l’antifona martellante che il denaro pubblico è speso male e inefficiente si è radicata profondamente.

Il vecchio adagio che il mercato è meglio dello Stato.

Senz’altro questa sfiducia della cosa pubblica a causa della sua degradazione dovuta a scelte politiche ben precise, è un aspetto della vittoria dell’ideologia liberista stessa.

In un recente articolo, il filosofo e attivista ambientale Pierre Charbonnier, ad esempio, sostiene che la trasparenza nell’azione pubblica e i meccanismi per rassicurare coloro che dicono di preferire avere i soldi in tasca piuttosto che nelle istituzioni sono necessari per anticipare l’insoddisfazione nei confronti di politiche climatiche necessariamente costose.

Perché “l’opacità”, tra l’altro, delle dinamiche decisionali del potere e l’impoverimento culturale sono forieri di astruse teorie sul “negazionismo climatico” che però hanno una certa presa tra le classi subalterne.

La verità, come ha sostenuto l’economista Gabriel Zucman, è che “la Francia è un paradiso fiscale per i miliardari: se domani si trasferissero tutti alle Isole Cayman, non cambierebbe praticamente nulla per le entrate del Tesoro!

Il possibile salto di qualità nel programma economico del NFP, al di là di una maggiore distribuzione della ricchezza e di una difesa dell’esistente sarebbe un altro.

Così lo esprime Confavreux:

In parole povere: non solo difendere i servizi pubblici che ancora esistono e crearne di nuovi dove non ci sono più, ma restituire al pubblico ciò che è stato svenduto al settore privato. (…) è possibile chiedere la “riappropriazione” di alcuni settori dopo decenni di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.

La riappropriazione non deve essere confusa con l’espropriazione, perché qui si parla di “spoliazione”.

Questa sarebbe la vera inversione di tendenza.

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