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Bologna. Niente più medico di base per gli studenti fuorisede

Appena qualche decina di migliaia di euro, che però non sono passati inosservati agli sforbiciatori della spending review. Servivano – secondo la legge 68/2012 alla mano – a salvaguardare l’accesso ai servizi del medico di base tanto nella città di residenza quanto sotto le Due Torri. Ora diventa un inefficiente raddoppiamento di costi per offrire lo stesso servizio.
Si tratta di sforbiciate “logiche” solo se utilizziamo la “logica” con cui il governo Monti ha agito nel corso dei 15 mesi del suo mandato, una logica deviata ab origine dalla sottoscrizione del fiscal compact e dall’adesione ai piani d’austerity come ricetta per uscire dalla crisi. Una ricetta che, fintanto che varranno quello e altri trattati concertati tra Bruxelles e Francoforte, può essere solo addolcita da chi non prevede la rottura col costituente polo imperialista europeo.

Nella città con una delle più grandi e quotate Università del Paese, è interessante notare come nella disposizione che colpirà i moltissimi studenti fuorisede dell’Alma Mater si intreccino alcune manifestazioni particolari dell’attuale gestione della crisi, che potremmo riassumere in tre vettori. 

Le parole di Draghi secondo cui “il modello sociale europeo non è più sopportabile” hanno come loro prodotto naturale affermazioni sostenute in questi mesi da voci istituzionali per le quali “il modello universale di assistenza sanitaria non è più sostenibile”. La posta in gioca sulla sanità è dunque centrale nella destrutturazione complessiva del modello sociale europeo in tutti i settori del welfare e del lavoro. 31 miliardi di tagli entro il 2015 non sono briciole.

La trasformazione della figura dello studente da soggetto su cui investire a priori (per garantire il ricambio di “classe dirigente” in senso lato) a corpo sociale dal quale pescare in maniera distinta, realizzando una separazione tra chi può accedere a certi livelli di istruzione (e mantenere contemporaneamente uno status congruo alle attese  di un cittadino di un cosidetto paese civile, in cui l’accesso alla sanità rientra tra i bisogni primari) e chi invece deve sudarsi retta, affitto, mensa, trasporti: tutte voci di spesa per cui Bologna certo non eccelle in parsimonia. Voci alle quali da oggi si deve cominciare a sommare la carenza di cure mediche.

Una classe dirigente collaborativa con le gerarchie superiori, ma che si trova in difficoltà quando le contraddizioni emergono e, ovviamente, iniziano a pesare sui piani decisionali e di gestione più vicini al territorio. “Noi siamo in perfetta buona fede. Non è una riduzione di risorse dell’ateneo, anzi spenderemo la stessa cifra o forse qualcosa in più per la medicina specialistica”: queste le parole del prorettore Nicoletti, che in tutta fretta ha commentato il fatto additando come responsabili “i revisori dei conti che ci hanno bloccato la contabilità”.
Dov’è la credibilità di chi in questi anni, assieme al magnifico Dionigi, è stato cinghia di trasmissione accelerata per l’applicazione della riforma Gelmini nell’ateneo di Bologna nonché fautore delle politiche restrittive verso le realtà studentesche autorganizzate, mettendo muri di fronte a chi vuole aprire spazi, portando la polizia dentro le facoltà?
Forte di quale conquista pretende oggi di fregare la legge sfruttando un cavillo nella speranza che la decisione venga lasciata passare da Roma pur nella sua totale inefficienza?

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