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Il mercato del lavoro cinese nell’economia globale

Se si vuole superare il modo di produzione capitalistico, a nessuno può sfuggire l'importanza rivestita dal mercato del lavoro della prima manifattura al mondo, per dimensioni degli impianti e della popolazione che vi lavora. Quindi è necessario informarsi. E dettagoatamente…

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Titolo originale: Il mercato del lavoro cinese nell’economia globale tra sfruttamento capitalistico e strategie di resistenza

Da Progress in Political Economy

di Andreas Bieler, 9 Gennaio 2017 – Traduzione e cura di Francesco Spataro

Quando facciamo riferimento alla Cina, di solito, lo facciamo pensando ad una nuova potenza economica, interna all’odierno sistema economico politico globale. Alcuni ne parlano persino come di una potenza in via di sviluppo, che nel tempo potrebbe subentrare alla potenza statunitense, egemone nel mercato dell’ economia globale. Eppure, esiste un lato nascosto, oscuro, di questo “miracolo”: le ragioni di un tale fenomeno si manifestano sotto forma di estenuanti orari di lavoro, salari da fame e mancanza di qualsiasi beneficio o welfare; questo è quello che i lavoratori si trovano a dover sopportare. Le diseguaglianze sono aumentate fortemente, e questo è andato di pari passo con la diffusione di condizioni lavorative caratterizzate da un iper sfruttamento.

Tuttavia, i lavoratori cinesi non hanno supinamente accettato queste condizioni di sfruttamento, ma hanno iniziato a reagire e a contrattaccare. Nel nuovo numero speciale di “Globalizations(rivista internazionale di studi economici), da me pubblicato in collaborazione con Chun-Yi Lee (docente alla SPIR — Scuola per le Politiche e le Relazioni Internazionali — all’ Università di Nottingham, ndr), alcuni esperti hanno dato il proprio contributo, analizzando queste varie forme di resistenza da parte dei lavoratori cinesi e il modo in cui si sono organizzati. Qui di seguito una breve panoramica dei contenuti e delle analisi di questo numero della rivista.

[Dopo l’ introduzione, in cui Bieler e Lee tratteggiano un quadro d’ insieme delle principali aree dove è localizzata la produzione cinese, come parte della nuova divisione internazionale del lavoro, all’interno dello scenario economico globale, troviamo quindi, un’interessante ed attenta analisi di Jane Hardy]

Jane Hardy, analizza in dettaglio, come la produzione cinese si sia integrata nella economia politica globale lungo linee di sviluppo irregolari e fra di loro rigorosamente collegate; ma, lo sviluppo cinese è strettamente collegato allo sviluppo globale, e, ovviamente, è anche estremamente variabile tra la Cina e le altre nazioni, così come all’interno della Cina stessa. Più avanti la Hardy suggerisce come, il cosiddetto “pacchetto di stimolo del 2008”*, con il quale il governo Cinese tentò di evitare di essere trascinato in una recessione globale, si risolse in un’enorme crisi di sovrapproduzione; insomma, la risposta della Cina alla crisi finanziaria globale, poggia su una forte contraddizione di base: da una parte il governo, per incoraggiare la domanda interna e non dipendere troppo dalle esportazioni verso gli USA e l’UE, vorrebbe aumentare i salari; ma di contro, sente la necessità di contenerli ad un livello modesto, per assicurare una crescente produttività, ed una competitività prolungata, sulla quale si basano gran parte delle esportazioni della Cina.

Quindi Andreas Bieler prima, e Chun-Yi Lee subito dopo, iniziano le loro analisi dei modi di resistenza utilizzati dalla manodopera a basso costo, prima nel settore delle componenti elettroniche a basso valore aggiunto nell’area del delta del Fiume delle Perle (PRD), poi in quello a più alto valore aggiunto della IT** nel delta del Fiume Yangtse (YRD); e lo fanno, analizzando anche le differenti aree di produzione di questi due settori, nell’ economia globale.

Dal momento che il settore della componentistica elettronica di base utilizza principalmente manodopera a basso costo, il conflitto più forte si verifica sui livelli salariali e sulle condizioni lavorative; di contro il settore a più alto valore aggiunto della IT deve fare affidamento, per forza di cose, su forza lavoro più stabile e più qualificata; anche qui, però, si scopre la necessità, per questi lavoratori, di migliori condizioni lavorative e salari più adeguati. Del tutto prevedibile quindi che la differente ubicazione del settore produttivo all’interno dell’economia politica globale modelli le forme di lotta nei due settori.

Nell’industria dell’elettronica, le ONG del lavoro*** cosiddetto “non formale” (che racchiude “liberi professionisti”, lavoratori temporanei ed interinali, insomma il lavoro precario ndr), assistono i lavoratori in vertenze individuali o collettive per rivendicare i loro diritti più elementari (salario, orario di lavoro), spesso in un confronto diretto ed aperto con l’amministrazione, mentre nel mondo del lavoro tradizionale, le ONG, nello specifico quelle del settore IT, si focalizzano nell’organizzare attività e sviluppare gli interessi dei dipendenti, nei momenti del tempo libero, non lavorativi. I due studiosi si chiedono: questo può voler dire che un miglioramento generale delle condizioni lavorative nelle attività a un più alto valore aggiunto potrebbe essere un viatico per migliorare, in generale, le condizioni di tutti i lavoratori?

Lo studio di Boy Luthje e Florian Butollo getta delle ombre su altri temi, legati alla qualità e al livello professionale delle assunzioni. Nello specifico, i due economisti prendono in esame il contratto dell’industria manifatturiera, settore elettronica (ECM) nel PRD (Delta del Fiume delle Perle in Cina). Luthje e Butollo provano a far coincidere il progresso tecnologico e la eterogeneità della produzione; i due fattori vengono comunque combinati con un super sfruttamento continuato dei lavoratori; ci si basa su una massa produttiva estremamente flessibile, unita ad una forza lavoro poco qualificata e ad un alto turnover di tutto il personale. Secondo il loro studio si sono verificati dei modesti aumenti salariali, soprattutto nel salario base, ma i compensi rimangono comunque molto modesti, e generalmente il lavoratore si trova costretto a fare un utilizzo esagerato del lavoro straordinario. In breve, il collegamento tra un rinnovamento industriale da un lato e una modernizzazione del lavoro e delle relazioni lavorative dall’altro risulta molto debole. E’ ancora assente un rinnovamento a livello sociale, all’interno del luogo di lavoro.

Come possiamo comprendere il ruolo dello Stato Cinese all‘interno del proprio sviluppo industriale e nelle lotte dei lavoratori per i propri diritti? Nel loro articolo su lotta di classe e Stato, Chris King-chi Chan ed Elaine Sio-ieng Hui sostengono che, se si fa una valutazione dello Stato Cinese, non sono adeguate, né quindi accettabili, sia l’idea che il ruolo dello Stato si è indebolito a causa della globalizzazione, né tantomeno il concetto di Stato come attore autonomo ed indipendente. Piuttosto, lo Stato ha bisogno di essere considerato come campo e sintesi della lotta di classe; probabilmente è per questo che, durante la crisi economica, il capitale globale (le altre potenze ndr) spinse la Cina verso la riduzione della copertura assicurativa dei lavoratori. Sulla scia della ripresa economica, però, i lavoratori iniziarono a riaffermare sé stessi sull’onda di alcuni scioperi come quello indetto all’Honda nel 2010 o al calzaturificio Yue Yuen nel 2014.

rtrhzihPer assicurare la completa continuità dell’accumulazione capitalistica lo Stato dovette intervenire in loro sostegno, in relazione alle richieste sulla contrattazione collettiva e sui contributi, che le compagnie dovevano versare per il sistema di assicurazione sociale. In breve, secondo la coppia di economisti non è il progresso tecnologico la via che può portare ad un miglioramento delle condizioni di lavoro, bensì la lotta di classe.

A questa stessa conclusione arriva anche Tim Pringle; nel suo contributo al volume egli segue un approccio di tipo “Classe contro Capitale”, nella sua analisi delle crescenti richieste per la contrattazione collettiva da parte dei lavoratori cinesi. E’ strano che, nella sua analisi delle lotte nella provincia meridionale del Guangdong, analizzi nel dettaglio anche le lotte dei lavoratori della nettezza urbana di Guangzhou, estremamente precarizzati e frammentati, oltre ai famosi scioperi nella fabbrica di componenti automobilistiche di Foshan di proprietà dell’Honda, a quelle dei terminal dei containers internazionali di Yantian e della fabbrica di calzature Yue Yuen di Dongguan. Soprattutto, egli si prefigge di provare che, nel Guangdong, il lavoro si crea solo dal conflitto fra Classe e Capitale, modificando gli equilibri delle forze di Classe, e schiacciando il Capitale e lo Stato entro forme di contrattazione collettiva.

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L’articolo di Jenny Chan e Mark Selden si focalizza invece nello specifico, sulla situazione della forza lavoro migrante autoctona. I due economisti affermano che sta emergendo una nuova generazione di lavoratori migranti, che non ha nessuna intenzione di tornare alle loro case, nella Cina rurale, ma vuole valorizzare la propria vita nelle città, dove essi lavorano. Per proteggere questi lavoratori da uno sfruttamento enorme da parte di compagnie come la Foxconn, per esempio, gli studiosi hanno analizzato una serie di strategie a supporto delle richieste per un salario migliore, migliori benefici sociali, ed un orario di lavoro più umano. Lo Stato ha tentato più volte di intervenire ufficialmente nelle vertenze, anche attraverso la Federazione Sindacale All-China (ACFTU, la confederazione sindacale generale cinese ndr ), per tentare di mediare fra operai e datore di lavoro; ma i lavoratori si stanno muovendo autonomamente, per assicurarsi i propri diritti. Forti della posizione determinante, e quindi dominante nella catena di produzione, e considerato il fatto che, fra i lavoratori, il numero dei giovani è in diminuzione, questo gruppo gode di un considerevole potere contrattuale di fronte allo Stato; lo stesso potere contrattuale che fa affermare che, facendo lotta di classe, ci si può solo guadagnare.

Xuebing Cao e Quan Meng analizzano lo sciopero dei portuali al terminal internazionale dei container di Yantian nel 2013. Dimostrano come questi lavoratori, sono stati capaci di organizzarsi per indire uno sciopero, da soli, senza che sia intervenuta ufficialmente alcuna sigla sindacale; lo sciopero  fece guadagnare loro un aumento del 30% sul salario. Potevano fare affidamento su una serie di differenti motivi, incluso quello principale, il potere contrattuale del loro specifico posto di lavoro: l’introduzione di una nuova tecnologia nei porti aveva reso il lavoro più specialistico di prima e perciò, quando i lavoratori entrarono in sciopero, la compagnia non fu in grado di rimpiazzarli, e dovette cedere: si resero conto di essere quasi indispensabili.

Nel loro contributo al numero della rivista, Stefan Schmalz, Brandon Sommer ed Hui Xu esaminano le dinamiche che sottendono lo sciopero di massa alla fabbrica di calzature Yue Yuen in Dongguan. Soprattutto furono tre i fattori che contribuirono al successo dello sciopero. Primo, esisteva un’enorme concorrenza sull’abbassamento dei salari da parte di altre regioni della Cina e di altri paesi, si doveva allentare la pressione fiscale nelle fabbriche di scarpe, specie nella Cina meridionale: i datori di lavoro della Yue Yuen tentarono di tagliare i costi, non pagando i contributi per l’assicurazione sociale. In secondo luogo, la campagna anticorruzione fatta dal Partito Comunista: nei nuovi posti di lavoro, i lavoratori cominciarono a pretendere che il datore si attenesse agli obblighi di legge in fatto di contributi assicurativi. Infine, i pagamenti dell’assicurazione sociale: sono di importanza vitale per le persone più anziane, vicine al pensionamento, e stanno diventando un argomento fondamentale, e sempre più utilizzato, per far crescere il conflitto nelle fabbriche.

liansheng-china-strike-480x269Inaspettatamente, a differenza di quello che hanno dichiarato Chan e Selden in altra parte della rivista, Schmalz e Sommer fanno notare che i lavoratori che decidono di fare un’azione di sciopero non sono necessariamente giovani migranti, bensì persone di mezza età, o lavoratori migranti più adulti, che lottano per difendere la propria copertura assicurativa sociale, per esempio una rendita fissa dopo il pensionamento. Quando è stato evidente che il padrone, Yue Yuen, non avrebbe pagato i regolari contributi all’assicurazione sociale come previsto dalla legge, ben 40.000 lavoratori sono scesi in sciopero preoccupati per il loro personale futuro.

Contrario ad una tesi di fondo, che teorizza due programmi ed aspettative strettamente correlati – il progetto costruito sulla speranza globale di una Cina vista come nazione trainante di una crescita globale, ed il progetto di speranza Cinese, che si fonda sulla costruzione di una forza e di una modernità nazionali – Ngai-Ling Sum tratteggia l’emergere di una nuova classe subalterna in Cina, chiamata Diaosi****. Questo nuovo gruppo da una parte sposa la sua identità di perdente e la sua marginalità nella società Cinese, ma allo stesso tempo, secondo quello che dimostra la Sum, lo svilupparsi dei Diaosi non sottintende la trasformazione automatica in gruppo di resistenza al loro stesso sfruttamento. Anzi, molto, nel loro modo di agire, è espressione di rassegnazione.

Il Capitale, inoltre, tenta di reintegrare i Diaosi nella società, fornendogli specifiche ed esclusive vie di accesso al consumo. Così lo Stato trova il modo di riammettere potenzialmente il gruppo nel mercato, e così facendo raggiunge l’obiettivo della pacificazione. Infine, lo Stato tenta sempre più di controllare le loro azioni di resistenza, nel nome della civilizzazione e della stabilità sociale. In breve, non è assolutamente garantito che la montante resistenza dei lavoratori cinesi contro l’ipersfruttamento prenda piede e raggiunga un qualsiasi successo; questo è quello che emerge, secondo Sum, dai processi di lotta di classe, in cui troviamo anche momenti di cooptazione di lavoratori, sfruttati per il progetto egemonico di modernizzazione cinese.

La globalizzazione ha messo in competizione gli uni contro gli altri, quindi anche movimenti nazionali diversi, legati comunque al mondo del lavoro; ne consegue che il livello di sfruttamento dei lavoratori in Cina ha conseguenze dirette anche sui livelli di sfruttamento dei lavoratori di altri paesi. Non sorprende quindi che il movimento operaio globale, nella sua espressione istituzionale, la ITUC (Confederazione Internazionale Sindacale), e tramite varie altre Federazioni Sindacali Globali, stia valutando la possibilità di impegnarsi a collaborare con le organizzazioni nazionali dei lavoratori di diversi paesi, schierandosi a fianco delle loro lotte; specificamente l’ACFTU (la Federazione Sindacale Cinese), con circa 134 milioni di tesserati, è un’organizzazione troppo potente per essere ignorata, in questo processo.

Su questo argomento, Rob Lambert ed Eddie Webster, nel loro contributo al numero della rivista, mettono in guardia circa una contiguità, diremmo, troppo “ufficiale”, che si potrebbe instaurare con troppa leggerezza fra sindacati e governo: come fanno notare, la ACFTU è in realtà parte integrante del mondo del lavoro cinese; ma essendo strettamente allineata e subordinata al Partito Comunista Cinese, avrebbe un margine di manovra veramente minimo, se volesse attivarsi in modo autonomo. Soprattutto, ricordiamo che la ACFTU non ha accettato gli standards della ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), incluso, per esempio, il diritto alla libera associazione. Piuttosto che collaborare con la ACFTU, concludono Lambert e Webster, le organizzazioni internazionali del lavoro, dovrebbero sostenere le ONG del lavoro precario, i lavoratori locali e le loro lotte. E, contemporaneamente, dovrebbero aumentare la pressione sull’ACFTU perché accetti gli standards internazionali.

La conclusione a cui Bieler e Lee arrivano è quindi quella di indicare le nuove fonti di potere che i lavoratori cinesi hanno, e valutare il ruolo determinante che le ONG del lavoro precario potrebbero avere nell’organizzazione della resistenza dei lavoratori stessi.

 

Note del Traduttore:

* L’Economic Stimulus Act del 2008, è un atto del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese del 9 novembre 2008, con il quale, attraverso una serie di “stimoli” di natura economica, si intendeva incoraggiare l’economia del Paese, per evitare la recessione, e ridurre l’impatto della crisi finanziaria mondiale, nel tentativo di migliorare le condizioni dell’economia della seconda potenza mondiale.

** IT, acronimo di Information Technology (letteralmente Tecnologia dell’Informazione), con cui viene indicato il settore produttivo in cui l’utilizzo di pc ed altri dispositivi di telecomunicazione viene usato per memorizzare, recuperare, trasmettere e manipolare dati, nel contesto di una attività commerciale od industriale; è anche utilizzato come sinonimo di pc o reti di pc, e ricomprende anche altre tecnologie di distribuzione dell’informazione, come la televisione e la telefonia.

*** In Cina le Organizzazioni Non Governative si occupano anche del mercato del lavoro e, in parallelo con i sindacati “ufficiali”, appoggiano e coordinano le lotte dei lavoratori; le ONG del lavoro sono di due tipi: quelle protette dal governo e quelle più “autonome”, indipendenti.

**** Questo gruppo emergente nella società Cinese, non è caratterizzato dalla propria personale povertà, ma dall’essere messi da parte dai propri colleghi più ricchi e meglio connessi di loro.

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