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Sull’ex Ilva la Cgil sta dalla parte di Mittal, non del lavoro, né della salute

Accoglimento pieno del ricorso sulla proroga per la procedura di spegnimento dell’altoforno 2, per un massimo di 14 mesi. Questa, riporta il ilSole24Ore, la specifica della decisione del Tribunale del Riesame di Taranto, secondo fonti vicine al collegio. Il ricorso era stato presentato dall’amministrazione straordinaria dell’ex Ilva lo scorso 17 dicembre, impugnando in appello il primo “no” alla proroga pronunciato il 10 dicembre dal giudice Maccagno.

Ancora un rinvio dunque, a quattro anni e pochi giorni dall’apertura della vicenda con il primo invito all’acquisto dei complessi aziendali datato 5 gennaio 2016, invito che già da allora dava una finestra di 6 mesi – i “posticipi al ribasso” sono una costante di tutto l’affaire Ilva – per l’avvio della gara d’acquisto.

Una decisione, quella del Tribunale, dal sapore tutto politico che permette al governo di guadagnare altro tempo per trovare una via d’uscita alla spinosa questione. Un sapore però decisamente amaro sia per i lavoratori, specialmente quelli in amministrazione straordinaria, che per la popolazione tarantina.

Per i primi il rinvio rappresenta il lasso di tempo entro cui la proprietà franco-indiana Arcelor Mittal potrà giocare le sue carte per ricevere il via libera agli esuberi ritenuti necessari per continuare la produzione a un tasso di profitto congruo con le aspettative aziendali.

Per i secondi invece è l’ennesima messa in soffitta delle richieste di una presa di posizione chiara e definitiva sulla chiusura e la riconversione dello stabilimento, che salvaguardi sia la salute che il posto lavoro, e quindi il reddito, dei lavoratori e della città tutta: infatti, in assenza del secondo la prima non può darsi. Al contrario, i tarantini dovranno vedere lo stabilimento siderurgico sbuffare veleno per almeno un altro anno.

Come al solito, in questa partita i maggiori sindacati confederali giocano dalla parte del padrone, travestendo le loro parole di retorica e “moniti al governo” per salvaguardare il vantaggio di rappresentanza, e dunque di potere, di cui ancora godono nello stivale.

«Con la proroga si scongiura lo spegnimento immediato dell’Afo2 e si elimina un elemento di incertezza e di instabilità in un quadro già molto complesso dal punto di vista produttivo, occupazionale e ambientale. (…) L’assunzione di tutti i lavoratori, compresi quelli Ilva in amministrazione straordinaria a fine piano, resta per noi vincolante».

Così in una nota Francesca Re David, della segreteria generale Fiom-Cgil. Come, in questo quadro, si possa coniugare il mantenimento del livello di produzione con quello occupazionale, senza continuare a uccidere fuori e dentro lo stabilimento, è evidentemente un’idea presente solo nella testa della sindacalista, che difficilmente potrà vedere la realizzazione nella realtà dei fatti.

Da tempo infatti Mittal ha stabilito le condizioni (al di là dei tira e molla ufficiali) affinché possa continuare ad avere un ruolo per Taranto – riduzione della produzione, licenziamenti e soldi pubblici per la messa a norma, in termini sia ambientali che di sicuerzza, dell’impianto –, e queste non prevedono la presa in considerazione dei bisogni e delle richieste di chi nell’ex Ilva ci lavora, né di chi la città la abita.

Da parte sua, il governo aveva ribadito alla vigilia di Natale l’impegno per il rilancio in chiave green dell’acciaieria tramite la realizzazione di una società a capitale misto pubblico-privato, firmando il 20 dicembre un’intesa preliminare con l’As su un numero imprecisato di esuberi, senza la presenza dei sindacati. Pubblica la spesa per la messa in sicurezza, privato il profitto derivante dal mantenimento della produzione, al lavoro il sacrificio dei licenziamenti.

In poche parole, la storia della borghesia stracciona che ha caratterizzato la nostra repubblica, stavolta in salsa internazionale e con la complicità effettiva dei maggiori sindacati confederali, complicità data dall’assenza di un’alternativa percorribile messa in campo nella trattativa in questi anni.

Alternativa che invece non può essere altro che quella richiesta dalla maggioranza della popolazione tarantina e fatta propria dalla piattaforma lanciata dell’Usb: basta morte di lavoro e di veleni, lo Stato prenda in mano le sorti dell’impianto e predisponga un piano straordinario per la chiusura, la decontaminazione e la bonifica dell’intera area interessata dalla produzione, garantendo la riconversione – questa, sì, rispettosa dei vincoli ambientali imposti dalla natura in cui viviamo, e di cui facciamo parte – allo scopo di garantire occupazione e reddito per lavoratori e territorio.

Tuttavia, questo presupporrebbe la volontà politica di un’amministrazione capace di cogliere il momento storico che attraversa il sistema-Italia, sempre più prossima vittima sacrificale delle necessità imposte dal piano di integrazione europeo a guida franco-tedesca: deindustrializzazione funzionale alle gerarchie interne all’Ue, con buona pace di salute, pancia e portafogli dei cittadini, specie quelli del sud. La Grecia insegna.

«È positivo che il Tribunale del Riesame di Taranto abbia accolto il ricorso dei commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria», afferma sempre Re David in apertura della nota. Avrebbe dovuto specificare “positivo per chi”. Di certo, di nuovo, a Corso d’Italia non è neanche più il lavoro, figuriamoci il posto dei lavoratori e delle lavoratrici, l’oggetto da difendere e da rappresentare.

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