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Il pantano italiano della crisi alla vigilia delle considerazioni di Draghi

Il governo è allo sbando e il futuro è incerto. La prossima «bordata» è attesa per martedì: Mario Draghi leggerà le sue ultime «Considerazioni finali» all’Assemblea annuale della Banca d’Italia e poi comincerà a fare le valigie per la Bce. Si chiuderanno così otto giorni di fuoco nei quali da più parti (Istat, Corte dei conti, Confindustria) si è sparato a zero sulla politica economica del governo con previsioni non certo brillanti per il futuro.

Già, ma il futuro cosa riserva? Trascurando per un attimo l’Italia, c’è da dire che anche a livello globale le prospettive non sono brillanti. In particolare sta rallentando la crescita degli Stati uniti; il governo di Pechino cerca di frenare quella cinese per paura di un eccesso di inflazione non tanto da domanda, ma di origine esterna. Ovvero situazione geopolitica confusa e speculazione rampante. Di più: al rallentamento – soprattutto nell’area Ue – non sono estranee le manovre restrittive attuate da molti paesi per ridurre gli enormi deficit pubblici esplosi durante la crisi che hanno fatto, tra l’altro, rimbalzare a livelli giudicati pericolosi i debiti di molti stati. Per non parlare dei rischi legati a un aumento dei tassi di interesse e della bomba potenziale legata al rischio di rifinanziamento dei debiti pubblici, ma anche di ricapitalizzazione delle banche.
Il nuovo patto di stabilità che prenderà avvio nel 2013 prevede che i paesi il cui debito supera il 60% del Pil debbano obbligatoriamente varare manovre di rientro per riavvicinarsi alla soglia del 60%. L’Italia attualmente è al 120% e, come ha calcolato la Corte dei conti, servirà di primo acchitto una manovra da 46 miliardi (il 3% del Pil) per cominciare a ridurre il debito. I magistrati contabili hanno scoperto l’acqua calda, ma con un merito: hanno fatto emergere un vincolo che il governo Tremonti aveva gelosamente custodito. Anche se a leggere bene i documenti previsionali la cifra già emergeva.
La Corte dei conti ha poi aggiunto che vista la situazione ci possiamo dimenticare un alleggerimento della pressione fiscale, una delle promesse (dal ’94) di Berlusconi. Al tempo stesso nel tagliare la spesa occorrerà procedere con criteri non «lineari», come li definisce la Confindustria: basta con il taglio uguale di tutte le spese – come è stato fatto – occorrerà discrezionalità per salvaguardare gli investimenti e non compromettere ulteriormente la crescita.
Proprio il problema della crescita è stato il tema centrale della relazione della Marcegaglia che – cifre Istat alla mano – ha dimostrato che il declino viene da lontano e nell’ultimo decennio ha assunto connotati drammatici visto che il Pil è cresciuto di appena lo 0,6%. Marcegaglia ha anche sostenuto – con ragione – che la minore crescita deriva da una stasi – spesso una riduzione – della produttività come conseguenza di un crollo degli investimenti: quelli in infrastrutture sono scesi dal 2,5 all’1,6 per cento in quattro anni. Insomma, la Confindustria chiama in causa lo stato e i governi. Citando anche il caso dei fondi strutturali Ue utilizzati dall’Italia per meno del 10% e, solo quest’anno, il Sud rischia di perdere 7 miliardi di finanziamenti. Colpa delle regioni, sostiene il governo. No, soprattutto dello stato: risultano, infatti, mai approvati dal Cipe 15 miliardi di programmi regionali.
Eppure l’Italia aveva sperimentato uno strumento egregio per incentivare lo sviluppo del Sud: la Cassa per il Mezzogiorno chiusa nel 1992. Importante, invece, la sottolineatura che fino a pochi anni fa il Mezzogiorno presentava tassi di crescita del Pil superiori a quelli della media italiana. È la dimostrazione che il Sud può svolgere un ruolo di traino per il paese se viene realizzato un intervento efficace come, parzialmente, fece il governo Prodi tra il 2006 e il 2008.
Marcegaglia, invece, ha sottovalutato parecchio le responsabilità delle imprese che negli ultimi anni hanno investito pochino in ricerca e innovazione. Le dimensioni delle aziende italiane non aiutano l’investimento, ma legare la causa della mancata crescita dimensionale allo Statuto dei lavoratori è un po’ semplicistico, forse un po’ da infami. Certo, invece, che le piccole e medie imprese hanno cercato di inseguire la competitività con dosi massicce di flessibilità e per questa via tenendo bassi i salari.
Facendo un passo indietro di alcuni mesi, vale la pena ricordare che il governatore di Bankitalia criticò apertamente il sistema della flessibilità forzata. Ovvero la precarizzazione a vita. Una critica, quella di Draghi, che coinvolgeva non solo gli aspetti economici ma anche sociali: per i precari la vita è un inferno e l’incertezza per il futuro si riflette, in termini economici, sulla capacità di spesa, sulla difficoltà di rapporti «familiari», sull’impossibilità di avere figli, come dimostrano i dati demografici. Insomma, come dice Draghi, la flessibilità è una mano santa, ma la precarietà uccide i sistemi economici e sociali.
Su questo tema – lunedì – è intervenuto anche il Rapporto annuale Istat. Tremonti ha ironizzato sul fatto che circa un quarto degli italiani siano a rischio di povertà chiamando a testimoni (il giorno successivo) i partecipanti all’assemblea della Corte dei conti. Rischio povertà, non significa povertà assoluta e neanche povertà relativa (circa il 13% della popolazione) così come viene calcolata secondo gli standard internazionali. È un concetto più ampio che comprende milioni di persone che non sono in grado di arrivare alla fine del mese o affrontare una spesa imprevista di alcune centinaia di euro.
Il rischio di povertà è frutto anche della precarietà e Tremonti queste cose dovrebbe saperle bene. Invece ha commentato con osservazioni banali e frasi tipo «i ristoranti sempre pieni» (ma gli osti smentiscono) e «ci sono aerei sui quali non si trova un posto». Falso anche questo, perché a leggere i dati delle compagnie aeree si scopre che la percentuale di riempimento è bassa, tanto che una grande compagnia mondiale tedesca ha praticamente sospeso quasi tutti i voli da Linate. Il problema non è il reddito del 20% della popolazione benestante (12 milioni di persone) ma il fatto che negli ultimi anni è andata peggiorando la distribuzione del reddito, ma anche quella della ricchezza, perché non è sufficiente possedere una casa per essere ricchi. Insomma, il problema è quello della distribuzione del reddito che implicitamente significa necessità assoluta di modificare il sistema fiscale. Il che non significa aumentare la pressione, ma distribuirla meglio. Per cercare, ad esempio, attraverso una patrimoniale, di far pagare un po’ di più a chi evade.
Tornando a Emma Marcegaglia, da sottolineare la riaffermazione di una società basata sul profitto. Nulla di male: il capitalismo e il profitto non sono il male assoluto. Il male è, invece, la ricerca del profitto in settori pubblici (l’acqua, ad esempio) e più in generale in quelli del welfare. Maliziosamente si può dire che lo smantellamento dello stato sociale è tutto funzionale all’affidare alla logica del profitto la previdenza, la sanità, la scuola, l’assistenza agli anziani e via dicendo. Giorgio Ruffolo sosteneva che il capitalismo è il minore dei mali possibili, ma è necessario piantare dei paletti per impedire sia invasivo e pieghi tutto alla logica del profitto.
In questo pantano economico si è arenata (ammesso che si mai partita) l’azione del governo. Ma l’impressione è che anche la sinistra storica sia «imbambolata»: l’obiettivo di mandare a casa Berlusconi (ma anche Tremonti) è sacrosanto; cercare alleanze con forze liberali e con il capitale è giusto, ma occorre un progetto complessivo che per ora non è all’orizzonte.
Domani sera dopo i risultati dei ballottaggi sapremo quanto durerà l’agonia di questo governo e martedì sapremo le ricette che suggerirà il governatore.
da “il manifesto” del 29 maggio 2011

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