Questi effluvi sgradevoli non originano dal fatto che il ricco e potente francese di 62 anni che fino a questa settimana dirigeva l’organizzazione è accusato di aver aggredito sessualmente in uno sfarzoso hotel newyorchese una cameriera africana giovane e indigente, bensì dai forti strascichi coloniali che già stanno emergendo nella scelta del successore di Dominique Strauss-Kahn.
Questi strascichi, prodotto di un antiquato baratto stipulato nel dopoguerra fra le nazioni più ricche del mondo, comporta che il posto di direttore generale del Fmi, un’istituzione di cui fanno parte 187 Stati, sia riservato a un europeo. Questo accordo, che di fatto discrimina il 93 per cento dell’umanità, ha sempre goduto del sostegno degli Stati Uniti, il maggiore azionista del Fondo.
Il Fmi in cambio dei soldi esige costantemente, dai Governi che bussano alla sua porta per chiedere aiuti finanziari, l’adozione di principi liberisti di efficienza, trasparenza e meritocrazia. Eppure, questa stessa istituzione seleziona il proprio leader mediante un processo totalmente in contraddizione con quei valori. Secondo l’accordo tra Europa occidentale e Stati Uniti, l’incarico di maggior prestigio del Fondo va sempre a un europeo, mentre la presidenza della Banca mondiale è riservata a un americano. È sempre stato così da quando furono create queste istituzioni, a metà degli anni 40, e se l’accordo era coerente con la Realpolitik mondiale dell’epoca, oggi appare obsoleto, inaccettabile e controproducente per la stabilità economica globale.
Anche i leader del G20, il gruppo di nazioni che rappresenta l’80 per cento dell’economia mondiale e i due terzi degli abitanti del pianeta, riconoscono che il metodo di selezione del leader di queste istituzioni deve cambiare. Al termine del vertice del G20 dei primi mesi del 2009 a Londra, subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria, i capi di Stato e di Governo dichiararono che «i direttori e gli alti dirigenti delle istituzioni finanziarie internazionali devono essere nominati attraverso un processo di selezione aperto, trasparente e fondato sul merito».
Lo scandalo è che non sia già così. E altrettanto scandalose, naturalmente, sono le innumerevoli giustificazioni che già i Paesi europei stanno propinando per spiegare perché il successore di Strauss-Kahn deve venire dal vecchio continente.
Didier Reynders, il ministro dell’Economia belga, ha dato voce all’opinione predominante in Europa quando ha detto che «sarebbe preferibile se continuassimo a ricoprire noi questi incarichi». La ministra dell’Economia francese Christine Lagarde già viene sbandierata come grande favorita dalla stampa americana e internazionale. Anche un alto funzionario brasiliano ha ammesso alla Reuters che «l’Europa probabilmente conserverà il controllo sul ruolo di direttore generale del Fondo», anche se Angela Merkel ha detto che il posto potrà andare a un candidato dei Paesi emergenti… ma fra un po’ di tempo. Per il momento preferisce avere un europeo.
Illustri editorialisti europei come Martin Wolf e Wolfgang Münchau hanno sostenuto sulle colonne del Financial Times che in considerazione del ruolo fondamentale del Fmi nelle operazioni di salvataggio dei Paesi di Eurolandia in difficoltà, solo una persona che disponga di una fitta rete di contatti politici nell’area può sperare di agire in modo efficace. «Sicuramente, nessun non europeo potrebbe interpretare il ruolo che ha interpretato Strauss-Kahn nella zona euro», scrive Wolf. O, per citare Münchau: «Mi chiedo se un competente funzionario della Banca centrale messicana, per fare un esempio, sarebbe in grado di interpretare questo ruolo».
Strano come nessuno si fosse posto il problema quando era toccato all’Asia e all’America Latina fare i conti con una crisi finanziaria, negli anni 90. Chissà perché, all’epoca non aveva importanza che il Fmi fosse guidato da un francese o da un tedesco, privi di una fitta rete di contatti politici in quelle aree. Ora, naturalmente, questa familiarità è considerata fondamentale: «Il nuovo capo del Fmi per buona parte del suo primo mandato dovrà misurarsi con problemi relativi all’Europa», scrive Münchau, e «dovrà gestire gli incontri fra i ministri dell’Economia europei, e confrontarsi efficacemente con capi di Stato e di Governo notoriamente difficili da gestire».
In quest’ottica eurocentrica, dunque, Agustín Carstens, il governatore della Banca del Messico, già funzionario di alto livello del Fondo monetario stesso, e Kemal Dervis, stimato ex ministro dell’Economia turco, semplicemente non possiedono l’occorrente sul piano intellettuale o politico per stipulare un accordo con i loro colleghi di Grecia o Portogallo, o non possono sperare di guadagnarsi il rispetto delle autorità tedesche o francesi.
Un altro presupposto infondato è che i politici europei possano opporre maggiore resistenza dei loro corrispettivi asiatici e latinoamericani alle impopolari misure economiche che si accompagnano a ogni salvataggio operato dal Fondo, e che solo un altro europeo possa convincerli a scendere a più miti consigli. Il tacito sottinteso di tutto questo è che gli europei si meritano un trattamento più gentile di quello che il Fmi offrì ai Governi della Corea del Sud e del Brasile quando questi avevano bisogno di aiuti.
In realtà, la cosa migliore per l’Europa sarebbe avere a capo del Fmi uno dei tanti economisti di un Paese in via di sviluppo dotati di ottima preparazione e lunga esperienza, e che hanno già gestito con successo una crisi. L’India, il Brasile e il Sudafrica hanno una ricca scorta di talenti in grado di aiutare l’Europa a superare i suoi problemi. Senza contare che anche se la crisi del giorno è nel vecchio continente, il nuovo direttore generale del Fondo si dovrà misurare con problemi economici che potrebbero insorgere in alcuni dei Paesi in via di sviluppo che in questo momento sono in pieno boom.
E poi c’è il piccolo dettaglio che, mentre il peso dell’Europa nell’economia mondiale si sta rapidamente riducendo, quello di Paesi come Cina, India e Brasile si sta espandendo a ritmi sempre più sostenuti. Perché le potenze economiche emergenti dovrebbero essere tenute fuori dalle posizioni di potere all’interno delle maggiori istituzioni finanziarie mondiali?
La tesi di chi sostiene che il prossimo capo del Fmi dovrebbe venire da una regione o da una nazione prestabilita è fallace, perché può essere applicata praticamente a qualsiasi regione. Quel posto dovrebbe essere aperto a qualsiasi candidato dotato dei requisiti necessari, da qualunque parte del mondo provenga; e il processo di selezione dev’essere inclusivo, trasparente e basato esclusivamente sui meriti professionali, sull’esperienza e sull’integrità del candidato.
Sarebbe anche bene imporre ai candidati di prendere seriamente l’impegno a portare a termine i loro mandati quinquennali a capo del Fmi. Gli ultimi tre direttori generali (tutti dell’Europa occidentale, naturalmente) si sono dimessi regolarmente prima del completamento del mandato.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
da IlSole24Ore del 21 maggio 2011
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa