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Un Nobel per l’economia alla frutta

Lo scarto tra teoria economiche e teoria fisica non potrebbe essere più grande. Nell’anno in cui il Nobel arriva a premiare i due fisici teorici che avevano ipotizzato il “bosone che permette alle particelle di avere massa” – Peter Higgs e François Englert – lo stesso premio cala su tre economisti “empirici”, di quelli col naso attaccato a un singolo movimento (in questo caso i prezzi degli asset e la relativa valutazione del rischio di investimento), che non alzano mai lo sguardo a una visione d’insieme dei processi.

Tutti e tre statunitensi, ovviamente: Eugene F. Fama, nato nel 1939 a Boston, docente all’università di Chicago; Lars Peter Hansen, nato nel 1952 a Minneapolis, anch’egli a Chicago; e Robert J. Shiller, nato nel 1946 a Detroit, docente a Yale.Insomma: due Chicago boys e un formatore di figli di papà molto, ma molto, ricchi. Si capisce che proprio a questi figli è decisivo insegnare “la valutazione del prezzo degli asset e anche del rischio”.

Battute a parte, è il livello scientifico minimo – “empirista” non è un complimento, in questo ambito – quello che sconcerta. Si capirebbe meglio un premio consegnato a qualcuno in grado di dare una spiegazione – anche parziale – di una crisi economico-finanziaria entrata ormai nel suo settimo anno di vita (l’esplosione della “bolla dei mutui subprime” è dell’agosto 2007, sei anni e due mesi fa). Qualcuno insomma in grado di dare un senso a quel che economicamente viene descritto ogni giorno come “inevitabile” fare, anche se i risultati positivi si allontanano nel tempo, invece di avvicinarsi.

Invece no. Si premia chi non cerca “spiegazioni generali”, ma chi si rifiuta di darne. Il movimento dei prezzi e le valutazioni dei rischi, va da sè, sono oggetti di indagine in perenne oscillazione, anche violentissima (quanti titoli godevano ancora della “tripla A” al momento  in cui sono diventati “spazzatura”? e non stiamo parlando soltanto di Enron o Lehmann Brothers…). Si possono ovviamente determinare dei margini statistici di oscillazione, quelle misure che tanto appassionano gli investitori di borsa (“soglie psicologiche”, “resistenze”, ecc); numeretti destinati a saltare come birilli quando i processi di crisi esplodono sui mercati.

Per esempio: chi è in grado di quantificare la dimensione dello tsunami finanziario di un eventuale – ancora improbabile, ma non più impossibile – default tecnico degli Stati Uniti? E chi aveva in qualche modo “previsto” le ondate di feedback di una “crisi pilotata” come quella che ha investito uno dei più piccoli paesi europei, ovvero la Grecia?

Niente da fare. Gli economisti “seri”, quelli che aderiscono senza fiatare alla “teoria standard”, non si fanno di queste domande. Il loro lavoro di ricerca, “empirico”, si limita alla “consulenza tecnica” di breve momento.

E come diceva quello che hanno messo ormai fuori legge – il tenero Keynes – “sul lungo periodo saremo tutti morti”. Quindi, perché chiedersi il perché delle cose? Basta aspettare che ti arrivino addosso…

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