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Atene resiste, L’Unione Europea minaccia

Fin qui tutto bene. La faccia feroce con cui l’Unione Europea – allineata silenziosamente dietro il ghigno di Wolfgang Schaeuble – vuol costringere il nuovo governo greco a proseguire sulla strada del servo conservatore Antonis Samaras non ha prodotto risultati.

Quella in corso è una pre-trattativa, con i contendenti su posizioni lontanissime e obbligati a mostrarsi ultra-decisi a non cedere un millimetro. Atene vuole di fatto una ristrutturazione del debito (ossia una cancellazione) di almeno il 50%, ma per ora si limita a dichiarare morto il “memorandum” sottoscritto da governo precedente con la Troika e a pretendere un nuovo “accordo ponte”, su scadenze più lunghe e termini meno draconiani, per aver modo di rimettere in sesto un’economia uccisa dalle “prescrizioni” e ridare fiato a un popolo esausto.

Da Bruxelles e Francoforte si risponde col “rispetto degli impegni e delle regole”, ma soprattutto con l’obbligo di rimettere la Troika (una commissione di funzionari nominati da Ue, Bce e Fmi) a guida effettiva del governo di Atene. Tsipra e Varoufakis si sono infatti rifiutati fin qui anche soltanto di incontrarla, per dimostrare nei fatti indipendenza politica ed economica.

Nel discorso programmatico pronunciato ieri davanti al Parlamento Alexis Tsipras ha mantenuto la barra ferma: «Mi impegno a rispettare in pieno il programma del partito con cui ho vinto le elezioni». In altre condizioni sarebbe una banalità (ogni governo dovrebbe avere questo in testa, quando si insedia); in quelle presenti è stata immediatamente definita, anche dai media padronali italiani, “una sfida alla Ue”.

E certamente lo è; se non altro nei termini della pre-trattativa in corso. Ma, ribadendo il suo impegno con il popolo greco, Tsipras mette al centro la questione politica decisiva del presente sistema politico europeo: un governo risponde a chi lo ha eletto o alle istituzioni sovranazionali non elette da nessuno? In altri tempi si diceva fosse qui il nucleo centrale della democrazia, persino di quella borghese.

Stabilito questo, poi, la pre-trattativa si svolge tramite dichiarazioni che non chiudono tutte le porte, con un’ovvia alternanza di docce gelate e aperture. Rientra tra le seconde la frase «La Grecia vuole pagare il suo debito», compensata immediatamente da un’altra: «ma vuole raggiungere un’intesa comune con i partner per l’interesse di tutti: il problema del debito greco non è economico ma politico».

Se poi l’Unione segue la Germania e insiste nel pagamento totale del debito, alle scadenze e ai tassi di interesse concordati in precedenza, si prepari ad affrontare la richiesta greca di pagamento delle «riparazioni di guerra della Germania». In questo mondo affidato teoricamente ai “tecnici” il governo greco ricorda che – se si vuole essere davvero rigidi sul concetto di “pagamento dei debiti” – c’è quel 50% abbonato nel 1953 alla allora Germania Federale per i danni di guerra provocati dall’invasione nazista. Un “aiuto alla ricostruzione post-bellica” concordato da tutto l’Occidente, Grecia compresa. Sospettiamo che quella cifra, rivalutata con l’inflazione maturata negli ultimi 60 anni, coprirebbe alla grande l’attuale debito greco verso i parner europei.

In concreto, Atene non vuole un prolungamento del cosiddetto “piano di salvataggio” concordato con la Troika, ma un “programma ponte che assicuri liquidità fino a giugno. Drastico cambiamento anche negli interlocutori: la sola Unione Europea, senza più triangolazioni con Bce e Fmi. È la traduzione immediata del concetto “il debito greco è un problema politico”, non “tecnico”. Del resto Tsipras e Varoufakis possono vantare argomenti fortissimi: la gestione imposta dai “tecnici” ha portato il debito dal 125 al 180% del Pil ellenico, ottenendo il risultato opposto a quello perseguito. Dopo cinque anni bisogna dunque dire: quei tecnici sono degli incapaci, servono interessi non esplicitati, si devono semplicemente togliere di mezzo e lasciare “la politica” – il governo di Atene e gli altri dell’Unione – libera di stabilire nuove regole per risolvere il problema.

In questo modo, però, salta completamente anche il ruolo della Commissione guidata da Juncker – il “governo europeo” – rimettendo al centro i rapporti interstatuali rispetto alla tecnostruttura costruita dai trattati in successione. Venticinque anni di regole e regolette, sinteticamente definite “pilota automatico” da parte di Mario Draghi, dovrebbero dunque venir messi da parte per lasciare spazio a soluzioni meno idiote di quelle partorite dai presunti “tecnici”.

Di conseguenza, ha spiegato Tsipras, niente più rispetto del memorandum, che «è fallito da solo. Il nostro governo non deve chiedere il suo prolungamento: chiede un nuovo accordo-ponte sino a giugno per rinegoziare il suo debito. La Grecia vuole un accordo sostenibile con i partner e, ad essere sincero, sono sicuro lo raggiungeremo». Non solo: il governo greco chiederà una commissione parlamentare d’inchiesta sul memorandum firmato a suo tempo da Papandreou e Samaras, “non per fare rivendicazioni sul documento ma per far prevalere la giustizia”. Una messa sotto accusa di un’intera classe politica che ha portato il paese al disastro prima falsificando i conti pubblici (i conservatori di Karamanlis), poi dicendo sempre e solo “sì” ai diktat della Troika.

Ma siccome ogni governo esprime gli interessi di un blocco sociale, Tsipras ha annunciato anche una dura “lotta alla corruzione” e una “profonda riforma fiscale”.

Espressioni logorate dall’uso, per un lettore italiano, ma che suonano decisamente in altro modo alle orecchie elleniche. Oltre alla corruzione (quanti ex ministri vedremo andare in carcere, se verrà fatta davvero?), c’è da risolvere il problema assurdo per cui l’unica attività economica rilevante in Grecia – il commercio navale – è stato di fatto esentato dal pagamento delle tasse sia sotto la dittattura dei colonnelli che in seguito, col passaggio alla democrazia parlamentare. In concreto: seicento armatori, la borghesia greca è quasi tutta qui, non hanno mai versato una dracma o un euro nelle casse dello Stato. Sono anche gli stessi che, in previsione della vittoria di Tsipras, avevano svuotato i depositi finanziari in patria per trasferirli.ì – di preferenza – sulla piazza londinese.

Confermato, di conseguenza, anche l’innalzamento del salario minimo da 500 a 751 euro, «gradualmente entro il 2016».

Idem per le privatizzazioni imposte dalla Troika. Resta solo quella, parziale, del porto del Pireo, già in precedenza concessa ai cinesi (sponda essenziale, oggi, insieme alla Russia, per prefigurare un “piano B” se si dovesse comunque arrivare all’uscita dalla Ue e dall’euro). Per il resto taglio agli sprechi: «la rete statale Nerit sarà riorganizzata da zero e saranno anche messe in vendita auto blu ministeriali per 700mila euro e uno dei tre aerei di proprietà dello Stato». E certamente non dispiacerà agli elettori il taglio del 30% dei funzionari del Parlamento e del 40% degli agenti di polizia addetti al palazzo.

Un discorso ovviamente rivolto soprattutto alla propria popolazione, sospesa tra voglia di cambiare radicalmente politica economica e paura di essere “assalita” dai cani feroci dell’Unione. “La strada per la ricostruzione della nostra patria sarà lunga ma renderemo il nostro sogno realtà – ha concluso Tsipras – Costruiremo una Grecia economicamente indipendente e partner allo stesso livello nell’Unione Europea e nell’eurozona”. Non proprio miele per le orecchie europee…

Pre-trattativa, ripetiamo. Dopodomani si riunisce l’Eurogruppo che dovrà cercare di “ridurre le distanze”, attualmente enormi tra Atene e il resto del’Unione. Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, superfalco liberista olandese, ha già annunciato che i paesi dell’eurozona non sono disponibili a concedere il “prestito ponte”.

La situazione resta dunque molto pericolosa, soprattutto perché si accumulano le tensioni geopolitiche intorno alla crisi ucraina, che spingono per un lato verso il “compattamento” belligerante del Vecchio Continente, per l’altro favoriscono le possibilità di allentare i vincoli (il mondo ora è multipolare, non più a “guida unica” degli Stati Uniti).

E non sembrano di buon augurio le previsioni fatte, in un’intervista alla Bbc, dal vecchio Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve statunitense, secondo cui «Non vedo come rimanere nell’euro possa aiutare i greci e certamente non vedo come la permanenza della Grecia possa aiutare il resto dell’eurozona. Penso sia solo questione di tempo e poi tutti si accorgeranno che la migliore strategia è il distacco».

Ma è proprio il progetto dell’eurozona che risulta inconcepibile per il vecchio padrone del dollaro: “Il problema è che non c’è alcun modo che mi possa portare a concepire che l’euro debba continuare, a meno che e fino a quando tutti i membri dell’Eurozona si integrino politicamente – anche l’integrazione fiscale, da sola, non basterà. Guardate al trattato di Maastricht. Non c’è alcuna indicazione su un qualsiasi modo concepibile di uscire dall’euro, e ciò è stato fatto apposta. Questo però non significa che i mercati alla fine non decideranno di dividere l’Eurozona”.

E lui sa bene come possono essere orientati…

 

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