1. Tutti i debiti del mondo.
C’era un tempo in cui gli economisti teorizzavano (sto esagerando, ma non di molto) che con il salario i lavoratori dovevano alimentare i consumi, i capitalisti destinare tutto il profitto a risparmio per l’investimento, le banche essere appena intermediarie tra questo investimento e il risparmio e lo Stato intervenire al minimo (al limite zero) nelle cose economiche. Questo mondo ideale, se mai c’è stato, è comunque scomparso nel corso del Novecento sotto la pressione di modificazioni finanziarie straordinarie di cui anche gli economisti hanno dovuto, alla fin fine, prendere consapevolezza.
La prima modifica è stata l’irruzione prepotente del credito bancario quale elemento di finanziamento alle imprese. Non c’era più infatti bisogno che gli imprenditori dapprima risparmiassero per investire nella produzione, perchè il denaro necessario poteva essere anticipato dalle banche che lo creavano ex-novo (le banche, proprio come gli Stati, sono produttrici di moneta e non semplici intermediarie). Ora, nell’ipotesi estrema che tutto l’investimento venisse assicurato dal credito, il risparmio dei capitalisti, rimasto a disposizione, poteva essere intercettato dallo Stato per finanziare la spesa pubblica con un proprio debito sovrano (come oggi si dice) senza alcuna necessità di elevare imposte. E’ così che nel corso della prima metà del Novecento l’indebitamento delle imprese verso le banche e l’indebitamento dello Stato verso i capitalisti sono diventati i nuovi “motori” d’alimentazione degli investimenti e della spesa pubblica.
Nella seconda metà del “secolo breve” è poi venuta a mutare la posizione finanziaria di quei lavoratori che col loro reddito avevano solo il compito di alimentare i consumi. Intanto gli alti salari dovuti alla rivoluzione produttiva “keynesiano-fordista” ha permesso di renderli risparmiatori e non soltanto consumatori, così da partecipare, come i capitalisti, al finanziamento dello Stato mediante l’acquisto dei titoli del debito sovrano. L’ulteriore modifica è invece novità dei nostri ultimi anni: anche i salariati sono stati introdotti alle magie dell’indebitamento grazie ad un credito al consumo che li ha messi in grado di spendere ben oltre il reddito guadagnato.
Sommando anche queste due ultime trasformazioni finanziarie, ne risulta che attualmente gli Stati sono diventati debitori sia verso i capitalisti che verso i lavoratori (le “famiglie”) per l’ammontare del proprio debito sovrano, mentre le banche risultano creditrici sia verso le imprese che verso le “famiglie” per l’ammontare dei loro debiti privati. Ma se così è (come è), diventano parziali e tendenziose tutte quelle invettive contro l’eccesso di debito pubblico (il cui aumento è stato anche dovuto al salvataggio del sistema finanziario dalla bancarotta dopo la Grande Crisi dei Mutui del 2008, costato attorno ai 15.000 miliardi di dollari) che tacciono sulla presenza di un debito altrettanto preoccupante delle “famiglie” e delle imprese che, se sommato al precedente, darebbe un totale d’indebitamento mondiale di quasi 100.000 miliardi di dollari a fronte di un PIL planetario che non va oltre i 60.000 miliardi.
E’ per questo che a tener conto dell’intero debito cambia notevolmente la graduatoria della fragilità finanziaria delle singole nazioni rispetto alle valutazioni espresse dalle agenzie di rating. E qui basti il confronto dell’incidenza del debito pubblico e privato sul Prodotto Interno Lordo esposta in una tabella pubblicata da “L’Espresso” il 21 luglio 2011 con i relativi valori di rating assegnati a quella data dall’agenzia Standard&Poor’s (d’ora in poi S&P):
in % PIL Debito pubblico Debito privato Debito totale Rating S&P
Gran Bretagna 83 970 1153 AAA
Giappone 229 400 629 AA-
Spagna 64 408 472 AA
Francia 88 374 462 AAA
Area euro 87 362 449 non esiste
Italia 120 268 388 A
Stati Uniti 100 264 364 AA+
Germania 80 226 326 AAA
Grecia 152 160 312 CCC
Comunque ci saranno delle buone ragioni che spiegano l’accanimento contro il solo debito sovrano! La ragione c’è e giustifica il duro scontro finanziario che si è aperto nel 2011 (sebbene certe premesse fossero state poste in precedenza) soprattutto tra l’Unione Monetaria Europea e i cosiddetti “mercati”.
2. Una scadenza micidiale.
Ciò che chiamiamo mercati è un’entità complessa ed elementare al tempo stesso costituita alla base da un ristretto gruppo di decisori finanziari che perseguono obiettivi di guadagno in Borsa con una “potenza di fuoco” straordinaria. Come rivela il “New York Times”, «il terzo mercoledì di ogni mese nove membri di una élite di Wall Street si riuniscono a Midtown Manhattan. I dettagli delle loro riunioni sono coperti dal segreto. Rappresentano Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Deutsche Bank, Barclays, Ubs, Credit Suisse»: sono «i Padroni dell’Universo (che) usano il loro potere oligopolistico per estrarre dal resto dell’economia dei profitti esorbitanti».
Ad ogni loro decisione pro o contro titoli di debito o monete concordata in quegli incontri riservati di cui però alle volte si ha perfino notizia dai giornali finanziari, seguono in Borsa comportamenti “da gregge” da parte degli altri investitori, a cui si aggiungono anche programmi automatici di compravendita così che, quando una quotazione di titoli o monete viene indotta a crescere/calare, s’innescano acquisti/vendite a catena (in Borsa, a differenza dei mercati tradizionali, quando il prezzo aumenta si compra, mentre si vende quando diminuisce). Insomma, alla fin fine «il gioco è quello delle transazioni computerizzate in cui gli ordini di acquisto o di vendita scattano in nanosecondi secondo complessi algoritmi. Siccome, però, gli algoritmi si somigliano, gli ordini scattano tutti insieme, imprimendo al mercato violenti scossoni. L’immagine del “gregge”, tradizionalmente applicata ai mercati, va quindi aggiornata: le pecore sono meccaniche». E’ così che (come ha dovuto riconoscere Helmut Schmidt) «alcune migliaia di operatori della finanza negli Stati Uniti e in Europa, ed inoltre alcune agenzie di rating, hanno preso in ostaggio in Europa i governi politicamente responsabili… e dal 2010 questo branco di manager della finanza super-intelligenti, e allo stesso tempo inclini alla psicosi, ha ripreso il suo gioco sui profitti. Un pericolo mortale».
Prendere sul serio i movimenti erratici di titoli o monete così provocati come se fossero rappresentativi dello “stato di salute” dell’economia dei singoli Stati non ha quindi alcun senso (sarebbe come misurarsi la temperatura ad ogni ora ed agitarsi per le alterazioni che avvengono nel corso della giornata). Eppure è in questo modo che i “mercati” muovono le loro pedine, soprattutto da quando sono alle prese con la prospettiva di una micidiale coincidenza di scadenze di debito, sia pubblico che privato, che si materializzerà nel corso del 2012, allorquando arriveranno in pagamento simultaneo 11.550 miliardi di euro di titoli statali, obbligazioni private e junk bonds (soltanto di debito pubblico Washington dovrà rinnovarne per 4500 miliardi di dollari, Tokyo per 3500 miliardi e le banche europee titoli propri per 800 miliardi). Il che però non farebbe problema se alle diverse scadenze debitorie corrispondessero rinnovi di pari ammontare da parte dei risparmiatori, così che il gioco finisse “a somma zero” lasciando le cose invariate.
Purtroppo però, a causa dell’incertezza finanziaria dominante, si teme che così non finisca e che diversi creditori, incassato quanto a loro dovuto, non lo reinvestano più in titoli di Borsa pubblici o privati, bensì in beni-rifugio come l’oro (il che peraltro sta già succedendo) oppure si rivolgano solo verso i titoli più sicuri, che sono quelli che possiedono rating migliori, lasciando gli altri alle prese con una insufficienza di domanda superabile soltanto offrendo tassi d’interesse crescenti ai sottoscrittori (il significato delle variazioni dello spread tra diversi titoli sovrani sta tutto qui). E’ per questo che da tempo è stata prevista «una serrata concorrenza tra il debito pubblico e quello privato per accaparrarsi quote dei flussi di rifinanziamento, ma anche una concorrenza tra i diversi stati per sostenere i rispettivi debiti sovrani». Tutto questo si potrebbe comunque evitare se nel corso del 2012 una parte del debito venisse rimborsata definitivamente e non richiedesse rinnovo. Ma quali dovrebbero essere i debitori così disposti ad «onorare i propri impegni»» (come si dice) togliendosi dai piedi? Escluso che facciano i privati, soprattutto quelle banche ed imprese che reggono le redini del gioco, è ovvio che a tanto sacrificio non può essere destinato che il debito sovrano degli Stati.
3. Guerra al debito sovrano americano.
In un libro famoso, Guerra senza limiti, due colonnelli cinesi Qiao Ling e Wang Xiangsui hanno da tempo descritto il nuovo «volto del dio della guerra» che è diventato sempre più «indistinto»8 per le nuove forme di combattimento del terrorismo, degli attacchi mass-mediatici, delle speculazioni finanziarie. Soprattutto è la guerra finanziaria, che è una «forma di guerra non militare il cui potere distruttivo è almeno pari a quello di una guerra cruenta, ma nella quale, di fatto, non si versa alcuna goccia di sangue», ad essere «venuta ufficialmente alla ribalta sulla scena della guerra per millenni unicamente occupata da soldati ed armi, con sangue e morte ovunque»9.
Ora è proprio una “guerra finanziaria” quella che nel 2011 è stata scatenata dai “mercati” contro i debiti sovrani, utilizzando quelle “divisioni corazzate” che sono le agenzie di rating che assegnano pagelle di qualità a questa o quella nazione allo scopo di assoggettarla alla propria volontà (che è poi tutta la sostanza del «fenomeno guerra»). Di questa guerra, peraltro ancora in corso, si proverà di seguito a dare una ipotesi di lettura per niente cronologica ma, per quanto più possibile, logicamente conseguente.
Il primo ad essere messo sotto attacco dai “mercati” è stato il debito sovrano americano. Ringalluzziti dalla vittoria repubblicana alla Camera dei deputati che indeboliva notevolmente il governo Obama, all’inizio del 2011 i “mercati” hanno preso a denunciare l’eccessivo indebitamento federale, mentre S&P minacciava di togliere la tripla A ai titoli pubblici di Washington se il governo avesse superato il limite di debito, peraltro già raggiunto, imposto dalla legge ed oltre il quale è necessaria l’autorizzazione parlamentare. Di fronte a tanta opposizione sia politica che economica Obama ha dovuto veramente sudare le proverbiali sette camicie per arrivare ad un compromesso che gli ha consentito di sforare il tetto costituzionale del debito, ma al prezzo di tagliare di altrettanto la spesa pubblica e senza elevare alcuna tassa. Come si capisce, era un successo dei “mercati” che costringevano il governo a continuare a spendere soltanto riducendo altre spese, però «le agenzie di rating avevano chiesto sforbiciate per 4mila miliardi di dollari per evitare il declassamento, mentre l’accordo ne prevede poco più di 2mila». Così puntualmente è arrivata la punizione di S&P che ha tolto la tripla A al debito sovrano americano portandolo «ad AA+, lo stesso livello del Belgio e della Nuova Zelanda e per giunta con outlook negativo», a prova che sono i creditori dello Stato, attraverso la longa manus delle agenzie di rating, a tenere i cordoni della borsa e non i governi.
Però questa vittoria dei “mercati” non comportava il rischio, subito sottolineato dal governo cinese, che i risparmiatori abbandonassero alle scadenze del 2012 i titoli pubblici americani declassati per indirizzarsi verso altri debiti sovrani, come quello europeo, che mantengono la tripla A?
4. L’assalto ai paesi “maiiali”.
Qui occorre una precisazione. Quando si arriva al debito sovrano europeo va ricordato che non esiste perchè ogni Stato europeo emette titoli pubblici che, sebbene espressi nella medesima moneta, ricevono dai “mercati” una diversa valutazione finanziaria, e quindi pagano interessi differenti a seconda dello Stato che li ha emessi. E’ per questo che al posto del debito sovrano europeo ci sono i debiti sovrani, tutti in euro, di Germania, Francia, Italia, Spagna e via seguitando, ciascuno con proprio rating specifico (nel 2011 dal CCC della Grecia alla tripla A di Germania e Francia. Anche la Gran Bretagna ha la tripla A ma non aderisce all’euro ed esprime il proprio debito sovrano in sterline). E’ questa anomalia che ha permesso ai “mercati” di muoversi contro il debito sovrano europeo con una tecnica di sfogliamento del carciofo, ossia passando da nazione a nazione, avendo l’obiettivo di arrivare infine al “cuore” di quel debito sovrano, al debito a tripla A di Francia e Germania per ridurne il rating al livello americano e ristabilire le condizioni di parità finanziaria nell’imminenza delle scadenze debitorie del 2012.
Che l’indebolimento della intera zona-euro fosse l’obiettivo dei “mercati” era stato chiaro fin da quando, nel 2010, avevano preso a mettere sotto pressione i debiti sovrani dei cosiddetti paesi “maiali” (PIGS = Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), che erano i più vulnerabili16. Tuttavia è solo dopo il declassamento degli Stati Uniti che la mira si è fatto evidente con l’allargamento dell’attacco anche all’Italia, trascinata tra quei paesi diventati adesso “maiiali” (PIIGS = Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Questo era tanto più necessario perchè, se per i “maiali” le autorità monetarie europee potevano anche arrivare ad organizzarne un salvataggio finanziario con l’acquisto del debito sovrano rigettato dai “mercati”, ciò non è possibile per l’Italia che ha un debito pubblico troppo grande per fallire (too big to fail) ma anche troppo grande per essere salvato (too big to save), così che tutti coloro, come le banche europee, che lo possiedono verrebbero coinvolti da un suo eventuale declassamento.
E’ questo ciò a cui si tende quando, nella seconda metà del 2011, parte l’offensiva finale avendo alla guida, secondo le indiscrezioni del “Wall Street Journal”, la finanziaria Goldman Sachs che in un rapporto riservato invita a «speculare contro» e «questo rapporto è stato diffuso mentre la Goldman offre i suoi servizi di consulenza a quei medesimi Stati europei contro i quali sta consigliando ai suoi clienti di speculare». Ad indirizzare poi le “pecore meccaniche” della Borsa affinché non acquistino il debito sovrano italiano oppure lo facciano ma a condizioni sempre più onerose (da cui l’inesorabile aumento dello spread), provvedono le agenzie di rating con le loro valutazioni strumentali al ribasso.
5. Scherzi “da prete”.
Ma non c’è rischio che l’Italia tiri fuori una qualche soluzione estemporanea a danno dei suoi creditori, come già fatto dall’Islanda e dalla Grecia? Il governo della prima, alle prese con una crisi finanziaria esagerata (il debito aveva raggiunto il 1100% del PIL!), aveva dapprima traslocato i risparmi dei connazionali in tre banche nuove di zecca e poi sottoposto a referendum popolare il quesito su cosa fare del debito estero, soprattutto inglese e olandese, rimasto incagliato nelle vecchie banche finite in liquidazione. Nel marzo 2010, col 93% dei voti favorevoli, si era deciso di non restituire niente agli stranieri, lasciandoli così «a becco asciutto, appesi a procedure fallimentari da cui, se tutto va bene, recupereranno il 30% del capitale investito». Comunque il danno era stato risibile, vista la scarsa incidenza quantitativa dell’indebitamento islandese.
Più pesante la perdita nel caso di default della Grecia. Dopo più di un anno di reiterate richieste di aiuto all’Unione Europea e al Fondo Monetario Internazionale, anche il governo Papandreou aveva minacciato il referendum popolare, ma questa volta per decidere se restare o meno nell’euro. E se avesse vinto la fuoriuscita? In un report di fanta-cronaca Ubs e Citigroup avevano azzardato lo scenario successivo: la decisione d’abbandono dell’euro sarebbe stata unilaterale e senza preavviso in un giorno non prevedibile sul calendario ma quasi certamente di sabato perchè allora le Borse sono chiuse. Dopo di che la Grecia avrebbe potuto «rifiutarsi di pagare i suoi debiti e le perdite per i creditori (banche ma pure Bce e Fmi) salirebbero attorno al 90-100%». A rimedio le banche creditrici, questa volta prevalentemente francesi e tedesche, si sono dette favorevoli ad accettare «volontariamente» anche una robusta «sforbiciata» (haircut) del 50% del loro avere, purché Papandreou venisse cacciato e del referendum non se ne parlasse più. Il che è stato fatto, ma il punto cruciale è che le banche creditrici devono accettare «volontariamente la limatura del valore nominale dei bond greci (perchè) in caso contrario partirebbe una procedura di default che farebbe scattare i credit default swaps (CDS) premiando chi ha puntato sulla bancarotta e indebolendo ulteriormente il sistema finanziario». I CDS? E che sono mai?
Coi credit default swaps si sta veramente scherzando col fuoco. Nel mondo malsano della finanza globale a chi è preoccupato della solvibilità del proprio credito è stata offerta la possibilità di assicurarsi presso istituzioni finanziarie (come l’AIG americana, i Lloyds di Londra o la stessa Goldman Sachs) così che, pagando un premio, gli si garantisca il risarcimento da parte dell’assicuratore in caso d’insolvenza del debitore. E’ come per gli incidenti automobilistici, con la differenza che in questo caso non c’è un solo incidentato da rimborsare, ma tutti i possessori di quel debito diventato inesigibile. Nel caso di un debito sovrano venduto in tutto il mondo la perdita è quindi colossale e tutta a carico di quelle incaute compagnie finanziarie che hanno assicurato dei debiti «impossibili da fallire». Ma se fallissero?
E’ per questo che quando parte l’attacco al debito sovrano italiano ciò che va escluso a priori è anche la sola minaccia di un default perché per la sua dimensione (spiega un preoccupato commentatore del “New York Times”), se le prime a rimetterci sarebbero le banche francesi che «hanno la massima esposizione verso il debito pubblico italiano», poi verrebbero gli Stati Uniti «perchè chi lo sa quali istituzioni americane hanno a loro volta assicurato le banche francesi contro il default dell’Italia?». Ciò è tanto vero che all’inizio di novembre c’è già una vittima illustre: «si chiama Mf Global, una società con due secoli di storia alle spalle… travolta per aver sottovalutato la debolezza di debitori sovrani come l’Italia… (Ma) nei giorni scorsi erano circolate preoccupazioni per l’esposizione di tipo “assicurativo” della Goldman Sachs e altri colossi verso quelle banche europee a loro volta gonfie di titoli pubblici italiani».
6. Un’Italia “goldman sachs”.
Ciò spiega perchè fin dall’agosto sia il governo americano ad agitarsi più di tutti affinché l’Italia non faccia scherzi25. Ma il 5 agosto sono il presidente in scadenza della BCE, Jean Claude Trichet, e soprattutto quello subentrante Mario Draghi, già consulente Goldman Sachs, a intimare al governo Berlusconi di «rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali» mediante misure d’austerità estrema (leggere per credere!) che riducano le necessità di raccolta futura di risparmio sui mercati. E «consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011».
Però il governo italiano tergiversa con rifacimenti ripetuti della manovra (così che si va oltre la scadenza di settembre) e si azzarda perfino a «ricevere in via riservata una vasta delegazione del CIC, ricchissimo fondo sovrano di Pechino, interessato a comprare i nostri gioielli di famiglia (meglio se energetici) e disposto ad acquistare (quasi fosse una contropartita) tanta parte dei nostri titoli di Stato». Ma è questa una cosa che non si ha proprio da fare perchè, se mai andasse in porto, invece di togliersi dalle scadenze del 2012 l’Italia verrebbe a richiamare su di sé una parte del risparmio cinese disponibile sottraendolo ad altri debitori. Per questo essa merita una punizione esemplare che viene messa in atto dalle solite agenzie di rating che la declassano a raffica (il 20 settembre Standard & Poor’s: da A+ ad A; il 4 ottobre Moody’s: da Aa2 ad A2; l’8 ottobre Fitch: da AA- ad A+) per allontanare le “pecore meccaniche” della Borsa dal suo debito sovrano.
Ovviamente il messaggio trova orecchi e, mentre la trattativa con la Cina s’interrompe, lo spread dei BTP rispetto ai più solidi Bund tedeschi schizza alle stelle28. Ma c’è ancora da fidarsi di un governo così “maiiale”? Se è vero, secondo i retroscena poi rivelati dal “Wall Street Journal”, che è stata la Germania a chiedere il 20 ottobre la testa di Berlusconi al Presidente della Repubblica29, occorrono però tre settimane di pressioni concentriche perchè arrivino il 12 novembre quelle «dimissioni volontarie» (onde evitare il rischio di un passaggio in Parlamento) che lasciano il posto all’uomo di fiducia dei “mercati” Mario Monti, anche lui ex consulente Goldman Sachs, appena nominato senatore a vita così che la sostituzione non sembri extra-parlamentare.
Il compito che spetta al nuovo governo è subito annunciato da un soddisfatto Nouriel Roubini: «Il debito pubblico italiano va immediatamente ridotto al 90% del PIL dall’attuale 120%, e per raggiungere l’obiettivo serve una riduzione del 25% dell’ammontare, da quasi 2000 miliardi a 1500». Se nel corso del 2012 l’Italia avrà da rinnovare 400 miliardi di euro di titoli sovrani, bisogna però che poi la smetta. Ma come possa, a queste condizioni, il governo trovare i soldi anche per quella “crescita”, che ciononostante s’invoca, resta un mistero. Lo impedisce il doppio impegno, già sottoscritto, di raggiungere nel 2013 il pareggio di bilancio (da iscrivere addirittura in Costituzione) contemporaneamente rientrando di un ventesimo all’anno per la parte di debito superiore al 60% del PIL (che però Monti si sta ingegnando ad alleggerire), così che i conti pubblici dei prossimi cinque anni partirebbero gravati da un disavanzo di almeno 40 miliardi di euro soltanto per quella eccedenza d’indebitamento da ridurre.
Ma c’è già chi pensa alla via d’uscita di una dismissione del patrimonio pubblico, come già fatto nel 1992 dal governo Amato in consulto con gli investitori internazionali sullo yacht “Britannia” (allora, a verbalizzare lo shopping, era stato un giovane Mario Draghi). Dopo vent’anni perchè non ripetere? Ci sarebbero almeno 600 miliardi di euro da ricavare dalla vendita (svendita?) di Enel, Eni, Finmeccanica, Anas, Poste, Rai, Cinecittà e via seguitando. «L’Italia ha bisogno di diminuire il debito pubblico, non solo di contenere il deficit annuale: la restituzione al settore privato di imprese e società oggi in mano allo Stato è la via più veloce ed apprezzata dai mercati [sic!], certamente molto di più dell’imposta patrimoniale vagheggiata da molti».
7. Al cuore del “carciofo” europeo.
Ma se il nuovo governo “tecnico” italiano può garantire ai “mercati” il ridimensionamento del suo debito sovrano, restano quei titoli europei che mantengono la tripla A rispetto agli americani che invece l’hanno persa. Per distogliere il risparmio dal reinvestirsi su di loro nel 2012 non resta che declassarli, a partire da quelli francesi. E’ per questo che, insieme all’apertura della “guerra finanziaria” contro l’Italia, volano subito minacciosi avvertimenti che le agenzie di rating hanno già messo sotto tiro anche la Francia e il 12 novembre, ma per appena due ore (esattamente dalle 15,37 alle 17,40), S&P ci prova anche a toglierle una A. Si tratta però solo di un «errore del sistema automatico con l’invio non autorizzato da nessun essere umano», ma chi ci può credere? Piuttosto è la prova generale di quanto deve necessariamente accadere e che infatti succede il “venerdì 13” del gennaio 2012 quando S&P scatena il downgrading di massa: in un colpo solo svaluta la Francia, insieme all’Austria, ad AA+, riduce la Spagna ad una sola A, butta l’Italia a BBB+ («lo stesso livello dell’Irlanda e, fuori dalla UE, di Perù, Colombia e Kazakhstan»35) e il Portogallo a BB che è il livello della “spazzatura”. Mantengono ancora la tripla A soltanto Germania, Olanda, Finlandia, Lussemburgo – e Gran Bretagna, Svezia e Danimarca che però sono fuori dall’euro. E’ una «sberla colossale» che, indebolendo il debito sovrano degli Stati coinvolti, pregiudica il portafoglio di tutte le banche europee che lo detengono e che quindi sono a rischio di vedersi svalutare “a cascata” anche le proprie obbligazioni (come peraltro già successo a dicembre alle tre principali banche francesi Bnp Paribas, Crédit Agricole e Société Generale che avevano “in pancia” titoli pubblici italiani36). Adesso, col debito sovrano di Parigi manomesso, chi può mai sentirsi al sicuro?
E dire che, proprio per parare il colpo in anticipo, la Francia aveva coinvolto la Germania in un accordo, da firmarsi a marzo 2012, per irrigidire le regole di bilancio dell’Unione Monetaria Europea col pareggio sforabile soltanto dello 0,5% del PIL ed in violazione con l’obbligo di un “programma di rieducazione” (detto partenariato economico) sorvegliato dalla Commissione Europea promossa ad arbitro delle leggi finanziarie nazionali col rinvio, se inadeguate, ai parlamenti per le correzioni del caso. Ma se con tanta «fiscalità compatta» (fiscal compact) si sperava di allontanare la presa dei “mercati”, la data della firma è troppo lontana e comunque la Gran Bretagna (estranea all’euro) se ne sfila perchè la giudica contraria ai propri interessi. Nemmeno s’impegna verso quel Fondo Permanente Salva-Stati che dovrebbe diventare operativo dal luglio 2012 perchè con un debito sovrano in sterline non intende «contribuire a nulla che favorisca solo i paesi dell’eurozona». Infine pone il veto all’applicazione di una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie che un invelenito Sarkozy vorrebbe introdotta per fargliela pagare a quei “mercati” che l’hanno declassato. Certamente, si risponde da Londra, «se i francesi vogliono andare avanti e introdurre la tassa da soli, sono liberi di farlo», ma era pensabile che la City, la più importante Borsa europea, si castrasse da sola per accontentare un premier francese prossimo a perdere le elezioni?
8. Brutte notizie dal futuro.
E adesso che altro può succedere? Pur senza possedere arti divinatorie, qualcosa comunque si può dire sulla base delle tracce emergenti. Certamente l’abbandono della “nave monetaria europea” da parte della Gran Bretagna è un segnale che non può che rafforzare la tendenza degli investitori, già in atto dalla fine del 2011, ad allontanarsi progressivamente dall’area euro «puntando sul dollaro, sulla sterlina e sul franco svizzero, insomma sulle valute le cui banche centrali possono battere moneta». Per statuto, invece, la BCE non può farlo e comunque, dopo il “declassamento di massa”, l’abbandono non potrà che accentuarsi. Complici anche alcune procedure finanziarie, ricordate da Mario Monti, per le quali «i grandi fondi pensione americani e gli investitori internazionali che comperano titoli di Stato hanno vincoli severi e per statuto devono rispettare dei parametri prudenziali. Tra questi c’è spesso il divieto di acquistare debito pubblico da paesi senza la A. E questo può essere un problema in futuro»42. Ma quali procedure? «Fra il 2006 e il 2011 una serie di direttive europee hanno imposto ai fondi comuni, agli hedge funds e alle banche di tener conto dei rating dei titoli nel costituire le loro riserve…. e dove non arrivano le direttive comunitarie arriva la pioggia di raccomandazioni e orientamenti emanati dalle autorità di vigilanza: l’Eba (banche), l’Esma (la Consob europea), l’Eiopa (assicurazioni e fondi pensione). Anche la Bce di Draghi utilizza largamente le decisioni delle agenzie di rating… nella “qualità di credito” dei titoli che vengono portati allo sportello a garanzia dei prestiti che fornirà la Banca centrale… La Bce infatti non accetta i titoli al valore nominale. Nel caso di un titolo di Stato decennale a rating almeno A applica un taglio del 5,5% sul valore nominale. Per un titolo di serie B (come oggi l’Italia), il taglio è di cinque punti superiore, cioè del 10,5%»43.
A queste condizioni meraviglia che l’Italia sia stata cacciata in serie B? Ma a farsi del male da soli, di chi ci si può lamentare? E se si risponde inviando la Guardia di Finanza nella sede milanese di S&P per aver diffuso «valutazioni e dati non veritieri, tendenziosi, incoerenti, scorretti (dunque falsi anche in parte)… nella consapevolezza della concreta idoneità di siffatte false valutazioni a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, segnatamente dei titoli di Stato italiani»44, è soltanto la protesta (tardiva) dell’impotenza a cui la terza agenzia di rating Fitch non tarda nemmeno una settimana a rispondere declassando l’Italia da A+ ad A-! E il governo Monti? «Niente di nuovo. Distaccata serenità», perchè non è proprio il caso di mandare la Guardia di Finanza anche a Fitch.
Comunque le carte sono tutte nelle mani della Germania che conserva ancora la tripla A. Ma se, per salvare l’Unione Monetaria Europea, si facesse coinvolgere in quel Fondo Permanente Salva-Stati a cui (già lo si sa) le agenzie di rating non assegneranno la tripla A, potrebbe indebolire la “qualità” del proprio debito sovrano rischiando di trovarsi, proprio come la Francia, declassata a sua volta. E’ così evidente che per Jean-Paul Fitoussi «la prossima vittima, statane certi, sarà la Germania»46 e Moody’ già si muove in tal senso portando a D+ (proprio così!) Commerzbank, la seconda banca tedesca. Cosa potrebbe allora fare Berlino? Forse l’unica soluzione che le resta è quella di sottrarsi ad una Europa monetaria allo sbando e alla sovranità monetaria di una BCE che tutti tirano per la giacchetta perchè acquisti, contrariamente al proprio statuto, il debito sovrano sia dei paesi “maiiali” che di Francia rifiutato dai “mercati”. Potrebbe allora riesprimere il proprio debito in marchi (o in altra moneta come il neuro, ossia l’euro del Nord), che è una ipotesi di cui già si vocifera. Ovviamente «Berlino & C. manderebbero giù il boccone amaro della perdita di competitività sul fronte dell’export con la soddisfazione di non doversi far più carico del salvataggio dei brutti anatroccoli dell’Unione», ma soprattutto conserverebbero la tripla A, così da competere da posizioni di forza con gli Stati Uniti nell’accaparramento del risparmio alle diverse scadenze debitorie del 2012. E forse questo suo “addio all’Europa” potrebbe addirittura far comodo anche ai “mercati”, a dar retta ad una maliziosa insinuazione di Rampini: «escludendo dai suoi downgrading Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo, la più potente delle agenzie di rating rafforza l’impressione che ci sia un vasto mondo di interessi e di poteri (prevalentemente angloamericani) che ormai ragionano sull’ipotesi di ricostituzione di una piccola Europa omogenea, un mini-euro o neo-marco centrato sul nocciolo duro della Germania più i suoi satelliti di sempre. Questo non significa evocare teorie del complotto, ma constatare che quello scenario è incluso nelle previsioni. E S&P può accelerare “l’auto-realizzazione delle profezie” se il declassamento della Francia finisce per ripercuotersi sul rating del fondo salva-Stati».
Eppure non è proprio sicuro che la Grande Guerra scatenata dai “mercati” contro i debiti sovrani europei possa finire in bellezza, a leggere una notiziola apparsa di scorcio sul finire del 2011. In un incontro a Pechino tra i primi ministri giapponese e cinese, Tokio si sarebbe impegnata ad acquistare nel 2012 i titoli del debito sovrano cinese aumentando la quota di renmimbi detenuta nella propria riserva valutaria. Sarebbe «una mossa che dovrebbe indebolire le altre monete globali: l’euro, ma soprattutto il dollaro, e consolidare la guida cino-giapponese nel commercio mondiale e nell’area del Pacifico». Si capisca bene. In un momento di difficoltà finanziaria interna come quella che sta vivendo, la Cina si presenterebbe sul mercato mondiale dei debiti sovrani richiamando i risparmiatori verso i propri titoli garantiti da una riserva valutaria (come si sa) imponente e valutati da una sua agenzia di rating (la Dagong) concorrente con quelle anglo-americane. E il Giappone, finora il massimo acquirente dei titoli pubblici USA, trasferirebbe volentieri i suoi fondi da Washington a Pechino. Se ciò avvenisse, sarebbe una fuga del risparmio dal debito sovrano americano che annullerebbe la grande fatica compiuta nel 2011 dai “mercati”, e dalle agenzie di rating al loro seguito, per allontanarlo dal debito sovrano europeo. E sarebbe altresì la conferma del detto che il delitto non paga mai.
(intervento al forum “La Mala Europa” della Rete dei Comunisti, novembre 2011)
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