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Eurozona tedesca, l’equilibrio impossibile

Pochi hanno il coraggio di indicare la Germania come responsabile di buona parte dei problemi economici – dunque anche sociali e politici – dell’Europa. Diciamo intenzionalmente Europa (un’area continentale) per distinguerla nel modo più netto dall’Unione Europea (un’istituzione quasi-statuale che ne regola in modo differenziale le scelte economiche, così come l’Italia è cosa ben diversa dallo Stato italiano). Confondere i due concetti, come intenzionalmente sono abituati a fare i governanti e i media, non può che provocare la paralisi delle capacità critiche e l’adesione inconsapevole al pensiero mainstream.

L’editoriale di Martin Wolf, sul Financial Times, rompe il tabù con molta più potenza di quanto non abbia fin qui provato a fare, in ambito nazionale, IlSole24Ore, che non a caso non ripubblica immediatamente con grande rilievo.

Una presa di posizione importante per molti motivi, non ultimi quelli di ordine teorico. Per la prima volta o quasi, in un articolo destinato al grande pubblico, si qualifica la dottrina economica dominante nella testa dei dirigenti tedeschi come ordoliberalismo. Una variante del pensiero economico liberista specifica della scuola austro-tedesca e ben riassunta, da Wolf, nella triade un bilancio (quasi) sempre in pareggio, la stabilità dei prezzi (con una preferenza asimmetrica per la deflazione) e la flessibilità dei prezzi.

Una dottrina che enfatizza unilateralmente solo alcune delle caratteristiche strutturali del cosiddetto “libero mercato” e determina comportamenti economico-politici irrealistici. O meglio, convenienti solo per alcuni soggetti del mercato, ma catastrofici per gli altri. Banalmente, questa triade punta alla creazione di un surplus (quello della Germana sfora da anni i parametri di Maastricht senza che nessuno provi ad aprire una “procedura di infrazione” contro Berlino). Il che va benissimo – capitalisticamente parlando – per chi (pochi o uno solo) riesce nell’intento, ma provoca automaticamente un deficit negli altri componenti di una comunità economica relativamente chiusa come l’Unione Europea. È insomma una linea che destabilizza il contesto generale in modo inversamente proporzionale alla stabilità raggiunta dal soggetto più forte.

Ma la sortita di Wolf è importante anche perché smonta, di conseguenza, la vulgata sulle “riforme strutturali” come unica via – “oggettiva” – per migliorare la competitività di un sistema produttivo nazionale. L’unico risultato che possono produrre, ed hanno effettivamente prodotto, è una caduta della domanda interna all’area governata secondo questi criteri (l’intera eurozona), anche al di là delle dimensioni imposte dall’esplodere della crisi del 2008.

Se determinate politiche non possono funzionare – ne abbiamo ormai l’evidenza, all’ottavo anno di crisi – non resta che rovesciare il binocolo: è la Germania il vero problema dell’Eurozona, così come è la Germania il vero dominus dell’Unione Europea. Le stesse distorsioni violente che questa istituzione è andata creando (il caso greco è solo il più drammatico e lampante) sono il frutto obbligato di una distorsione sistematica delle politiche economiche e finanziarie dell’eurozona, tanto più in una situazione generale di crisi sistemica.

Wolf le spiega con grande chiarezza, da un punto di vista liberale ma intelligente. Evita di soffermarsi sulle distorsioni più propriamente ideologiche nascoste nelle pieghe della lingua tedesca (notoriamente la parola Shuld indica sia la colpa che il debito, mentre l’opposto, Gläubige, significa sia credente che creditore, in una spaventosa sovrapposizione di connotazioni etiche per posizioni economiche in fondo temporanee e spesso scambiabili in una economia complessa).

In ogni caso, però, ne vien fuori che le difficoltà e gli interessi di un paese – in realtà di un particolare groviglio di filiere produttive e centrali finanziarie – si sono lentamente trasformati nella regola dominante per tutti gli altri. Senza alcuna ragione scientifica, sul piano economico.

Tra questi problemi, ormai devastanti, c’è una crisi demografica mai vista dai tempi della Guerra die trent’anni (tra il 1618 e il 1648 la popolazione tedesca si ridusse da 18 a 6 milioni, tra guerre, carestie ed epidemie di peste).

Il censimento del 2013 ha rivelato che la popolazione complessiva è diminuita in pochi anni dell’1,9%, restando di poco sopra gli 80 milioni. Nei giorni scorsi, il ministro tedesco dell’Istruzione Johanna Wanka, nel corso di un involontariamente delirante incontro-accordo con la sua omologa Stefania Giannini, ha spiegato che in dieci anni la popolazione tedesca (ovvero quella di origine “indigena”, ndr) si è ridotta del 22%. L’unico settore in cui la produttività è diminuita è quello dei figli”. Sorvoliamo sull’uso disinvolto del termine “produttività” con riferimento alla natalità (non vi sentite un po’ polli in batteria?) e restiamo al merito della faccenda. Tutto il “merito” di questo crollo va alle riforme strutturali avviate da Hartz e dal “socialdemocratico” Schroeder, che hanno varato a più riprese, all’inizio del nuovo millennio, uno schema di rivoluzionamento del mercato del lavoro da cui hanno perso origine poi i vari Jobs Act, in Italia come in Francia. La precarizzazione totale e la “flessibilità” richiesta a ogni singolo lavoratore del “nuovo tipo” è tale da aver reso quasi impossibile progettare una vita di coppia stabile per le nuove generazioni, quindi di mettere al mondo e crescere dei figli in modo responsabile.

Nei prossimi anni si prevede che, passando a miglior vita la boom generation, il numero di tedeschi-tedeschi si ridurrà in media di mezzo milione l’anno, se non di più. E non è detto che i flussi migranti saranno adeguati a sostituirli, perché moriranno sia gli operai che gli ingegneri, e determinate competenze di alto livello non si improvvisano dalla sera alla mattina.

Si capisce dunque la portata simbolica di un episodio altrimenti marginale. Durante l’ormai famosa marcia dei profughi mediorientali attraverso i Balcani, nel bel mezzo di una sosta a Belgrado, tra i disperati camminatori era stato riconosciuto un noto oncologo siriano. Immediatamente le autorità serbe gli avevano offerto un posto di rilievo in un loro ospedale, e uno stipendio commisurato, ovviamente immediatamente accettato dal chirurgo marciatore.

Felici di poter dare un’immagine della Serbia come paese molto più civile e accogliente dei vicini ungheresi, croati, macedoni e sloveni, ne era stata data notizia con una conferenza stampa. Nemmeno 24 ore dopo un aereo tedesco era atterrato a Belgrado e all’ottimo medico era stato proposto un contratto ovviamente molto più redditizio, in Germania. Se preferite la metafora del calcio alla medicina, si vedranno sempre più Rudiger, Boateng, Ozil e meno Muller, Schweinsteiger o Neuer. Il capitalismo distrugge tutto lungo il suo cammino, istituzioni, credenze, abitudini, ed anche i popoli che lo abbracciano con maggiore e teutonico entusiasmo.

Al punto che il creditore-credente si trasforma obbiettivamente nel peggiore dei miscredenti.

È la Germania il più grande problema dell’Eurozona

di Martin Wolf

Perché in Germania prevale una visione della macroeconomia tanto peculiare? E quanto conta questa diversità di vedute?
La risposta alla seconda domanda è che conta tantissimo. La risposta alla prima domanda, in parte, è che la Germania è un Paese creditore. La crisi finanziaria le ha dato un ruolo predominante negli affari dell’Eurozona. È una questione di potere, non di diritto. Gli interessi dei creditori sono importanti, ma sono interessi parziali, non generali.

Le rimostranze recentemente si sono appuntate sulle politiche monetarie della Banca centrale europea, in particolare i tassi di interesse negativi e l’allentamento quantitativo. Wolfgang Schäuble, il ministro dell’Economia tedesco, è arrivato a sostenere che metà della responsabilità per l’ascesa del partito anti-euro Alternativa per la Germania è da addebitarsi alla Bce. Si tratta di un attacco fuori dal comune.
Le critiche alle politiche della Bce sono ad ampio raggio: vengono accusate di consentire agli Stati membri recalcitranti di non fare le riforme, di non essere riuscite a ridurre l’indebitamento, di mettere a rischio la solvibilità delle compagnie assicurative, dei fondi pensione e delle casse di risparmio, di essere riuscite soltanto a tenere l’inflazione poco sopra lo zero e di alimentare l’ostilità verso il progetto europeo. Insomma, l’Eurotower è diventata una seria minaccia per la stabilità.

È un’idea coerente con una visione che è maggioritaria in Germania. Come dice Peter Bofinger, membro eretico del consiglio di esperti economici del Governo tedesco, questa tradizione risale a Walter Eucken, influente padre dell’ordoliberalismo. In questo approccio, le politiche macroeconomiche ideali si compongono di tre elementi: un bilancio (quasi) sempre in pareggio, la stabilità dei prezzi (con una preferenza asimmetrica per la deflazione) e la flessibilità dei prezzi.
Si tratta di un approccio ragionevole per un’economia piccola e aperta. Può funzionare per un Paese più grande, come la Germania, dotato di settori industriali scambiabili altamente competitivi. Ma non può essere esteso all’economia di un continente, qual è l’Eurozona. Le cose che funzionano per la Germania non possono funzionare per un’economia tre volte più grande e molto più chiusa al commercio estero.

Si noti che nell’ultimo trimestre del 2015 la domanda reale nell’Eurozona era del 2 per cento inferiore a quella del primo trimestre del 2008, mentre negli Stati Uniti era del 10 per cento superiore. Le rimostranze tedesche, nella maggior parte dei casi, non tengono conto di questa grave debolezza della domanda. La Bce sta cercando giustamente di impedire che un’economia affetta da debolezza cronica della domanda precipiti in una spirale deflattiva. Come sottolinea il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi, i tassi di interesse bassi fissati da Francoforte non sono il problema, semmai «il sintomo» di un’insufficiente domanda di investimenti.

La storia dell’economia tedesca dalle riforme del mercato di lavoro di inizio anni 2000 a oggi dimostra che è molto improbabile che le «riforme strutturali» riescano a risolvere questo problema. Il dato macroeconomico più significativo della Germania è che il Paese non riesce ad assorbire quasi un terzo dei suoi risparmi nazionali, nonostante il bassissimo livello dei tassi di interesse. Nel 2000, prima delle riforme – che ridussero il costo del lavoro e i redditi dei lavoratori – le grandi aziende tedesche investivano una quota molto maggiore dei loro utili non distribuiti. Ora è l’inverso. Con le famiglie in eccedenza e il Governo in pareggio, è emersa puntualmente un’enorme eccedenza con l’estero.

Perché altri dovrebbero riuscire a fare un uso produttivo dei risparmi che i tedeschi non riescono a utilizzare? Perché le riforme strutturali in altri Paesi, come raccomandato dalla Germania, dovrebbero generare quell’impennata degli investimenti che manca in patria? E soprattutto perché ci si dovrebbe attendere un calo dell’indebitamento quando la domanda e la crescita complessiva sono così deboli nell’Eurozona in generale?
Quello che è successo è che l’Eurozona si è trasformata in una Germania più debole. Secondo le stime, la bilancia delle partite correnti della zona euro fra il 2008 e il 2016 si è spostata verso il surplus nella misura di quasi il 5 per cento del prodotto interno lordo. Ogni Stato membro, secondo le previsioni, sarà in pareggio o in attivo nel saldo con l’estero. L’Eurozona dipende dalla disponibilità di altri a perseguire quella spesa e quell’indebitamento che l’Eurozona stessa al momento rifugge.

Il problema è che anche il resto del mondo segue la via della prudenza. La Bce ha adottato tassi reali (e nominali) negativi perché il risparmio supplementare al momento vale pochissimo. E anche perché ha imparato la lezione dei disastrosi risultati prodotti dall’aumento dei tassi operato nel 2011. La politica di allentamento adottata a partire dal 2012 ha prodotto quantomeno una ripresa rilevante, anche se inadeguata: la domanda reale è cresciuta del 4 per cento rispetto al minimo toccato nel primo trimestre del 2013, e l’inflazione di fondo, anche se è soltanto all’1 per cento circa, finalmente si è stabilizzata. Questo non è un fallimento, è un successo.

È inevitabile che politiche di questo tipo siano poco apprezzate nei Paesi creditori. Ma sostenere che il pericolo risieda in una politica monetaria eccessivamente accomodante significa non tenere conto dei pericoli rappresentanti da una politica monetaria eccessivamente rigida. Significa dare per scontato che la deflazione non rappresenterebbe un problema, quando invece farebbe aumentare l’indebitamento reale, comprometterebbe la flessibilità dei salari reali e limiterebbe perfino l’efficacia della politica monetaria, perché sarebbe molto più complicato generare tassi di interesse reali negativi, alla bisogna. Una spirale deflattiva rappresenterebbe una minaccia molto più seria dei tassi di interesse negativi.

Soprattutto, l’euro è destinato all’insuccesso se verrà gestito solo nell’interesse dei Paesi creditori. Le politiche dell’Eurozona devono essere equilibrate. La determinazione della Bce a evitare l’inflazione è un elemento importante in tal senso. Un altro è la volontà di raggiungere una domanda più equilibrata a livello nazionale: la presenza di un’enorme carenza di domanda (rispetto all’offerta aggregata) nell’economia più grande dell’Eurozona costituisce un problema serio; la procedura Ue per squilibri eccessivi dovrebbe essere molto più critica verso i surplus tedeschi.
Le idee e gli interessi della Germania hanno un’enorme importanza per la zona euro. Ma non devono decidere qualsiasi cosa. Se i tedeschi pensano che questo sottragga irrimediabilmente legittimità al progetto europeo, dovrebbero esercitare la loro opzione d’uscita. Farlo comporterebbe anche prepararsi a una grande instabilità nel breve termine. Ma fintanto che il Paese rimarrà nell’euro, dovrà accettare il fatto che la Bce ha un compito da svolgere. Se quest’ultima vi riuscirà, non sarà sufficiente a far funzionare bene l’euro, ma darà indubbiamente un contributo fondamentale in tal senso.

Copyright The Financial Times Limited 2016
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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