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I costi dell’emigrazione dei giovani dall’Italia. Miopia della Confindustria

La crescente emigrazione dei giovani italiani all’estero, dovuta alla mancanza di lavoro e alle bassissime retribuzioni, costa all’Italia un punto di Pil all’anno, circa 14 miliardi di euro. Il dato le evidenzia il Centro Studi di Confindustria che ha avvertito: “la bassa occupazione giovanile è il vero tallone d’Achille del sistema economico e sociale italiano”. Non solo. Negli utlimi sette anni il fenomeno ha subito un’accelerazione impressionante: si è passati dai 21 mila emigrati sotto i 40 anni di età del 2008 ai 51mila del 2015. “I flussi crescenti di emigrazione producono una perdita di capitale umano stimata – ha calcolato il Csc – in un punto di Pil all’anno, abbassando così il potenziale di sviluppo”. Questo “rappresenta una vera e propria emergenza”.

La diagnosi di Confindustria però è assai incompleta. Ritiene infatti che l’inadeguato livello dell’occupazione giovanile stia producendo “gravi conseguenze permanenti sulla società e sull’economia dell’Italia, sotto forma di depauperamento del capitale sociale e del capitale umano del Paese”, ma non c’è alcuna riflessione sul fatto che le retribuzioni offerte dalle imprese ai giovani siano sempre più spesso ridicole. Non solo nel sistema delle imprese private ma anche nelle istituzioni pubbliche, soprattutto nel sistema della ricerca.

Secondo le ultime rilevazioni dell’Istat e dell’Inps riprese dal Csc, l’Italia ha tassi di occupazione giovanili molto ridotti, specie per gli under 30. Nel 2016 un sesto dei 15-24enni era occupato (16,6%), contro il 45,7% in Germania, praticamente un terzo nella media dell’Eurozona (31,2%). Tra i 25-29enni il tasso di occupazione italiano sale al 53,7%, ma anche in questo caso il divario rispetto agli altri paesi dell’eurozona si amplia, da 14,6 a 17,1 punti percentuali. La posizione relativa dell’Italia comincia a migliorare nella fascia di età immediatamente successiva (30-34 anni), con il tasso di occupazione al 66,3%, comunque ben 10 punti sotto alla media dell’Eurozona.

Dal 2008 al 2015, periodo in cui il tasso di disoccupazione in Italia è passato dal 6,7% all’11,9% (dal 9,8% al 18,9% per gli under 40), hanno spostato la residenza all’estero 509mila italiani: di questi, circa 260mila avevano tra i 15 e i 39 anni, il 51,0% del totale degli emigrati, un’incidenza quasi doppia rispetto a quella della stessa classe di età sulla popolazione (28,3%).

Considerando che la spesa familiare per la crescita e l’educazione di un figlio, dalla nascita ai 25 anni, può essere stimata attorno ai 165 mila euro, è come se l’Italia, con l’emigrazione dei giovani, in questi anni avesse perso 42,8 miliardi di euro di investimenti in quello che viene definito “capitale umano”. Per il solo 2015, con un picco di oltre 51mila emigrati sotto i 40 anni (dai 21mila del 2008), la perdita si aggira sugli 8,4 miliardi. A questi va aggiunta la perdita associata alla spesa sostenuta dallo Stato per la formazione di quei giovani che hanno lasciato il Paese: 5,6 miliardi se si considera la spesa media per studente dalla scuola primaria fino all’università. In totale 14 miliardi nel 2015.

Lasciando da parte percentuali e tabelle, la sintesi che se ne ricava è che sul nostro paese è in corso, esattamente dal 2008, un processo di spoliazione di risorse a tutto campo e di concentrazione delle stesse nel “nucleo centrale” dell’Eurozona (Germania, paesi del Nord Europa), lo stesso che è avvenuto in Grecia e in Spagna. Tra queste sottrazioni di risorse c’è anche quel “capitale umano” rappresentato da decine di migliaia di giovani, spesso altamente scolarizzati, che di fronte alla miseria delle prospettive messe a disposizione da imprese private e istituzioni pubbliche, trovano condizioni migliori nei paesi forti dell’Eurozona. Il risultato è una concentrazione di risorse giovani, formate e disponibili per i processi di accumulazione e innovazione capitalistica in paesi diversi da quello di provenienza. Il risultato non è solo la deindustrializzazione e la regressione economico/sociale/civile dell’Italia ma è l’escalation di uno sviluppo disuguale interno (ad esempio tra il polo Lombardia/Emilia/Veneto e il resto del paese) e della subalternità ai diktat della Troika europea. Ma di tutto questo, nella logica e nei parametri della Confindustria, non troverete traccia.

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1 Commento


  • Gianmaria Italia

    Chiaro e ben articolato l’articolo mentre, leggendo il titolo, più che la Confindustria, la miopia la troverei nell’apparato politico. Prima di tutto l’elevazione dell’età pensionabile a oltre 65 anni sta precludendo la possibilità di un ricambio, l’ accesso ai giovani.
    Si aggiunga che i loro titoli di studio sono spesso più elevati di quelli conseguiti da chi dovrebbero o vorrebbero sostituire, ecco perchè si aggiunge disappunto alla mortificazione di un non impiego.
    E poi quali indirizzi di studio hanno intrapreso? Chi ha detto loro quali sono i veri sbocchi professionali? Non stupiamoci, per esempio, se laureati in materie umanistiche languono e debbono adattarsi a lavori umili e sottopagati (quando li trovano). Stringe il cuore vedere schiere di migliaia di candidati a concorsi per pochi posti di lavoro pubblici. Per contro non possiamo tacere la nostra irritazione quando si legge di presunti favoritismi o nepotismi in certe assunzioni nell’apparato pubblico.
    Purtroppo la immensa domanda permette a datori di lavoro (privati) di tenere bassi gli stipendi.
    Impariamo a leggere le offerte di lavoro da parte di aziende all’estero e scopriremo che quei 90-100mila Italiani che emigrano ogni anno sono dei talenti in fuga. Ho letto l’intervista rilasciata da una nostra laureata con lode che si è affermata in un paese dell’UE, conclude con una frase che fa riflettere: “Ho riempito la valigia di speranze, ora la trovo piena di certezze”.

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