Il mondo sta cambiando rapidamente. Questo lo intuiscono tutti, ma quando si tratta di indicare quali siano i cambiamenti “strutturali” – quelli che determinano a cascata, o molecolarmente, tutti gli altri – si arriva facilmente alla fiera della chiacchiera.
Per vederne alcuni bisogna tener d’occhio i mercati finanziari e gli spostamenti di alleanze sul terreno economico, lasciando al circuito mainstream il triste compito di seguire le dichiarazioni di uomini politici che non contano quasi nulla, a partire dal presidente degli Stati Uniti. Nel senso stretto del termine: non decidono dei cambiamenti, sono solo costretti ad assecondarli gestendone le conseguenze.
Le mosse più importanti vengono dalla Cina, molto attenta a non provocare reazioni incontrollabili ma altrettanto decisa a erodere la rendita di posizione mantenuta da sette decenni dai capitali basati negli Stati Uniti e quindi da quello stesso paese.
Qualche notizia sparsa, a distanza di pochi giorni, aiuta a tracciare un quadro dotato di senso e direzione.
Prima notizia. Pechino starebbe preparando un suo benchmark di prezzo per il greggio, in grado di competere sul piano internazionale con il Brent, il Wti e il Dubai-Oman, attuale riferimento prevalente in Asia; da usare per contrattare e scambiare sulle borse di Hong Kong e Shangai (o una delle due).
Attualmente i benchmark principali sono tre: il Wti basato a Wall Street, il Brent dominante a Londra e il il Dubai-Oman, attuale riferimento prevalente in Asia. Tutti e tre prezzano il greggio in dollari, costringendo il mercato globale del petrolio ad usare soltanto la moneta americana. Con ovvi vantaggi per gli Usa, che possono “sovranamente” (ossia nazionalisticamente) gestire una moneta che è al tempo stesso moneta interna, moneta di riserva internazionale e unità di misura dei prezzi delle materie prime. Le migliaia di miliardi di dollari “stampati” dalla Federal Reserve in questi anni di quantitative easing non hanno ottenuto l’obiettivo di abbassare il valore del dollaro e far ripartire un po’ di inflazione “sana” (da crescita economica, insomma), anche per questo motivo. Del resto è dal 1971 – quando Nixon abolì la parità fissa tra oro e dollaro e il sistema dei cambi mondiali fissi – che gli Usa giocano con la loro moneta stampandone a volontà per pagare importazioni sempre crescenti, in barba a qualsiasi “legge” macroeconomica scritta sui manuali (secondo cui avrebbero dovuto essere seppelliti da un’inflazione da repubblica di Weimar).
Che qualcuno cominci seriamente a commerciare petrolio usando altre monete (lo yuan, in questo caso) implica una erosione significativa del potere globale del dollaro: c’è un’alternativa per la misura dei prezzi (al contrario dell’euro).
Ancora più rilevante è che questo benchmark farà da base a un future sul petrolio convertibile in oro. Il che lascia intuire una domanda assai più alta per il metallo giallo, fin qui confinato a “bene rifugio” quando crescono i rischi di guerra, ma di fatto sostituito dal dollaro come mezzo di scambio. Dunque yuan e oro al posto di una certa quantità di dollari e uno spazio di movimento commerciale importante per quei paesi – Iran e Venezuela su tutti – che si trovano spesso strozzati su un mercato globale “ostile” perché totalmente dollarizzato.
Come si vede, una mossa apparentemente solo economico-finanziaria ha un’immediato risvolto geopolitico.
Seconda notizia. Cefc (China Energy Corporation), conglomerato in rapida ascesa nel mondo cinese dell’oil & gas, acquisirà una quota del 14,16% di Rosneft – primo gruppo petrolifero al mondo tra le compagnie quotate – pagando 9,1 miliardi di dollari. La maggioranza resta saldamente in mano allo Stato russo, ma in questo modo viene sancita un’alleanza strategica molto concreta, che garantirà alla Cina – ora primo importatore mondiale di greggio, con più di 8 milioni di barili al giorno – una corsia privilegiata nell’approvviggionamento dalla Russia.
Conseguenza immediata: meno petrolio russo verso l’Europa (che paga così un altro prezzo alla sudditanza agli Stati Uniti nel supportare l’Ucraina neonazista e le sanzioni a Mosca), esclusione del dollaro da questi scambi.
Terza notizia. Sia la Cina che la Russia, negli ultimi anni, hanno acquistato enormi volumi d’oro sfruttando il lungo periodo di bassi prezzi per il metallo giallo. Lo hanno usato in gran parte per aumentare le riserve valutarie delle rispettive banche centrali, liberandosi di dollari e euro.
La Cina, in particolare, sembra lo abbia immagazzinato in un grande (e ben difeso…) centro di stoccaggio nella Qianhai Free Trade Zone, nella zona speciale di Shenzhen. La società chiamata a gestirlo, la Gold and Silver Exchange, fa parte di un progetto congiunto con ICBC, la più grande banca cinese, nonché la più grande importatrice d’oro nel Celeste Impero.
Con questo tris – inevitabilmente molto carente, ma già rilevante – si comprende meglio la potenza trasformatrice della Belt Road Initiative (BRI), la cosiddetta “nuova via della seta” che punta a collegare Asia e Europa tramite ferrovie, autostrade, hub, offrendo tra l’altro una straordinaria occasione di crescita e modernizzazione per i paesi che be verranno attraversati. Tra i quali abbondano i rogue state (l’Iran, la stessa Russia) e i paesi “diffidenti” degli Stati Uniti (praticamente tutti).
Riassumendo: da un lato si erode – delicatamente – la forza del dollaro e il controllo american-saudita sul petrolio (uniti da sempre nei “petrodollari”), dall’altro si investe per moltiplicare il potenziale di crescita industriale e commerciale di metà del pianeta (l’India è già nei Brics, insieme alla Russia, e l’Iran ha chiesto lo status di osservatore).
Sul fronte opposto gli Usa fanno i conti con la desertificazione industriale perseguita allegramente negli ultimi 45 anni (sostituendo la centralità della manifattura con quella dei mercati finanziari dollarizzati) e con una bomba sociale interna costituita da quasi 100 milioni di senza lavoro (tra disoccupati ufficiali e “scoraggiati”).
In mezzo l’Unione Europea avviata su un percorso assai simile, a colpi di “austerità” che hanno distrutto interi sistemi-paese ridisegnando le filiere produttive in funzione dei capataz germanici e (in misura assai minore) francesi.
Il “vento dell’Est” non ha più il volto del socialismo, ma della competizione intercapitalistica. Sarà per questo inquadrato come meno “ostile” dal capitale occidentale? C’è da dubitarne…
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