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Agricoltura, migranti e sfruttamento: il volto disumano del capitalismo

Pochi giorni fa la Coldiretti (Confederazione nazionale Coltivatori diretti), che rappresenta gli eterogenei interessi di piccole e medie imprese agricole, incluse molte imprese a conduzione puramente familiare, ha pubblicato un comunicato, oltre che un breve tweet, che invita ad una profonda riflessione.

“Il caldo ha anticipato la maturazione dei raccolti che rischiano di rimanere nei campi senza il via libera all’ingresso in Italia dei lavoratori stagionali extracomunitari. È quanto afferma la Coldiretti che chiede l’immediata approvazione del Decreto Flussi 2019 che regola l’arrivo di manodopera dall’estero. Si tratta – sottolinea la Coldiretti – di una esigenza per l’agricoltura italiana dove i dipendenti stranieri offrono oltre ¼ della forza lavoro necessaria al settore.”

Il comunicato esprime in modo esemplare e drammatico il ruolo che il capitalismo, nelle sue varie aberranti sfaccettature, immagina per i lavoratori migranti e quali interessi animano certa retorica, in un estenuante gioco delle parti in cui approcci apparentemente diversi nascondono la medesima volontà di sfruttamento.

La Coldiretti afferma una semplice verità fattuale che svela la struttura del sistema economico di un paese a capitalismo avanzato come l’Italia: l’agricoltura, specie per far fronte ai picchi stagionali, ricorre a lavoro precario e discontinuo. Un fenomeno che non risparmia i lavoratori italiani ma che si avvale, spesso, di lavoratori stranieri a cui viene permesso di arrivare al solo scopo di essere sfruttati nella catena produttiva agricola.

Date le pessime condizioni offerte ai lavoratori del settore, caratterizzate da salari da fame (per i lavori a tempo determinato, 5.34 euro orari per i migranti, 5.80 per i lavoratori italiani) e dall’esasperata precarietà del lavoro stagionale, non c’è da stupirsi se i padroni, non interessati a modificare al rialzo queste condizioni, si affannino per aumentare la manodopera disposta a svolgere queste mansioni. Si obietterà: ma un aumento dei salari e stabilizzazione dei contratti, tale da rendere il lavoro agricolo giustamente remunerato, sarebbe sostenibile in un settore a basso valore aggiunto ed esposto alla concorrenza internazionale di prodotti lavorati in paesi a bassissimo costo della manodopera?

La risposta passa per due ordini essenziali di argomentazioni.

1 – Un aumento dei salari è sempre sostenibile fino all’azzeramento dei profitti. Infatti, essendo il prezzo pari ai costi di produzione (che in agricoltura sono rappresentati essenzialmente dal salario) a cui viene applicato un tasso di profitto, non vi è nessuna ragione immediata e meccanica per cui a fronte di un aumento dei salari i prezzi debbano aumentare, o debbano farlo nella stessa proporzione dell’aumento dei salari stessi. Ciò accadrebbe qualora il profitto rimanesse invariato, ma se la forza contrattuale dei lavoratori fosse tale da riuscire ad eroderlo, l’aumento dei prezzi potrebbe non verificarsi, andando ad intaccare invece il profitto. Si potrebbe obiettare, con buone ragioni, che la piccola e media impresa agricola, ai prezzi di mercato odierni dei prodotti alimentari, vive già una crisi profonda, dovuta alla concorrenza internazionale e ai meccanismi della grande distribuzione che spostano la parte più massiccia di profitti sulla componente a valle del processo produttivo (trasformazione industriale e commercializzazione). Pertanto, oltre il livello della quota contendibile ai profitti, un aumento del salario rischierebbe di richiedere prezzi decisamente più alti, insostenibili per i consumatori e non competitivi su mercati aperti alla concorrenza estera. Del resto, è ben noto come, fuori dal mondo dei piccoli e medi imprenditori in senso stretto, nel settore agricolo e dell’allevamento esista anche una pletora vasta di produttori diretti che vivono soltanto del proprio lavoro e di quello familiare (emblematica, di recente, la vicenda dei pastori sardi). Tutti soggetti che, agli attuali prezzi di mercato, sono ridotti ad una condizione di grave precarietà, spesso ai limiti della sopravvivenza economica.

Entra qui in gioco la seconda argomentazione.

2 – Pomodori o patate a 4 euro al chilo sono sostenibili per il consumatore medio e competitivi con la concorrenza? Certamente no, se si ragiona a salario dato e se si ragiona a politica commerciale e industriale data. Gli epigoni della globalizzazione spesso amano mostrare quanto sia bello e utile esporsi al libero commercio internazionale, adducendo tra i vari risultati la possibilità di comprare merci a prezzi stracciati prodotte all’estero o, in alternativa, prodotte in Italia pagando salari da fame. Dovremmo allora ringraziare tutti il libero mercato, che ci permette di non morire di fame aumentando di fatto i nostri salari reali. Vorreste forse tornare a mercati chiusi e regolamentati? E chi ve la darebbe la maglietta a 5 euro prodotta in Cina e le arance a 80 centesimi?

Per alimentare questa odiosa catena, fatta di precarietà e sfruttamento generalizzati, il capitalismo deve disinnescare le tensioni sociali che queste stesse condizioni creano. Una maniera per farlo consiste nella spasmodica ricerca di lavoratori da sfruttare in giro per il mondo. In questa maniera, infatti, è possibile avere dei prezzi di vendita talmente contenuti da poter permettere a lavoratori e sottoccupati di soddisfare alcuni bisogni primari, pur con i miserevoli salari pagati.

Il nocciolo della questione dunque è, ancora una volta, la lotta tra capitale e lavoro per la distribuzione del reddito, che si esplica su scala mondiale e non solo nazionale.

Torniamo quindi al punto iniziale e al comunicato della Coldiretti: tutto apparirà più chiaro. L’orribile reificazione del lavoratore immigrato, che diventa oggetto di necessità per il funzionamento dell’economia, al punto tale da far richiedere ad un’associazione come la Coldiretti un’accelerazione dell’approvazione del decreto flussi degli stagionali, si manifesta allora come la tessera di un puzzle generale: lo sfruttamento capitalistico. In questo puzzle ogni pezzo è incastrato in modo spaventosamente perfetto per garantire l’esistenza di enormi profitti a discapito del lavoro salariato sfruttato dai padroni e del lavoro dei piccoli produttori indipendenti sfruttato dalle leggi spietate del mercato.

In questo drammatico circolo vizioso, i cui ingranaggi stritolano il lavoro salariato su scala globale, lo sfruttamento del lavoratore migrante diventa lo strumento necessario per far quadrare il sistema di accumulazione di profitto. Lo stesso sistema di accumulazione per cui pomodori e arance a prezzi stracciati sembrano una condizione necessaria per permettere la sopravvivenza di tutti, mentre in verità permettono l’accumulazione di un odioso privilegio per pochissimi.

Del resto, è proprio sulle incongruenze logiche e morali di questo meccanismo che i peggiori razzisti hanno ottimo gioco nel far leva su paure alimentate ad arte, additando come nemici del popolo non gli accumulatori di privilegi e profitti sparsi in tutta la catena del sistema economico internazionale a vari livelli, ma gli ultimi della terra nell’eterna reiterazione della guerra tra diseredati.

Il comunicato della Coldiretti, così come le esternazioni di un Tito Boeri che ci ricorda quanto siano fondamentali gli immigrati per i conti pensionistici, sono lo specchio riflesso del razzismo leghista che urla contro lo straniero al solo fine di segregarlo, renderlo ricattabile e sempre più al servizio della macchina di sfruttamento del capitalismo.

L’utilitarismo travestito talvolta da peloso e falso spirito di accoglienza di chi afferma che “gli immigrati ci servono” e il razzismo di chi afferma che “gli immigrati sono la causa di ogni male” si muovono sempre insieme. L’uno ispira l’altro, l’uno ha bisogno dell’altro. Ed entrambi concorrono ad alimentare quel sistema di sfruttamento pauroso dove un chilo di pomodori deve costare 1 euro e i salari devono essere salari da fame.

 

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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