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Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il Mes

Viviamo in un mondo folle. Mentre si pongono le basi del disastro definitivo di questo paese, il dibattito mainstream si occupa di cose irrilevanti. Per fortuna, però, non esistono solo Repubblica e il Corriere (non nominiamo neanche le tv, ormai sprofondate nell’abisso dell’intrattenimento anche all’interno dei tg).

Un merito fondamentale l’ha avuto la “riforma del Mes”, quel Meccanismo europeo di stabilità che i governi del 2019 (prima quello gialloverde, ora quello giallorosa) hanno accettato senza capir bene di cosa si trattava. Poi qualche voce critica ha cominciato ad alzarsi persino dalle fila degli europeisti ad oltranza (Giampaolo Galli, ex parlamentare Pd, per esempio) ed ora gli occhi esperti puntati su quel dispositivo sparano a zero, scoprendo – e dicendo – quel che prima era indicibile o non correct dire.

Avendo fatto da modesti anticipatori di queste critiche, ed essendo stato ampiamente confermato il nostro giudizio (“piano Scholz” e “riforma del Mes” sono un assalto tedesco agli asset degli altri partner europei, Italia in testa), possiamo ora provare a vedere come lavora la contraddizione all’interno delle classi dirigenti, e quali conseguenze politiche produce.

Due articoli usciti oggi ci forniscono piste davvero interessanti. Ve li proponiamo entrambi, qui di seguito.

Il primo, di Francesco Russo, per l’agenzia Agi (di proprietà dell’Eni, dettaglio da non sottovalutare…), è una lunga ricostruzione della carriera di Klaus Regling. Personaggio sconosciuto ai più, ma ormai assurto al rango di tecnocrate più potente d’Europa. E’ infatti lui l’amministratore delegato del Mes.

Il che significa: a) il Mes, con la “riforma”, diventa di fatti l’equivalente del Fmi per i soli paesi europei: b) questo organismo funziona come un’azienda, non come un vertice di mediazione politica tra interessi dei vari paesi, e infatti ha al vertice un amministratore, non un ufficio di presidenza.

In secondo luogo, come ben spiega l’Agi, poiché Regling è il “silente burocrate che, dietro le quinte, è stato sin dal principio il vero regista dell’unione monetaria”, ossia dell’introduzione dell’euro, gli interessi tedeschi continuano ad essere prevalenti. Anzi, lo saranno ancora di più perché il “nuovo Mes” avrà un ruolo e una potenza di fuoco competitiva con quella della Bce, ma senza i condizionamenti politici di cui soffre – secondo la Germania – l’istituto di Francoforte, dotato di un board composto di rappresentanti delle banche centrali dei vari paesi.

Terzo dettaglio, ma decisamente importante, siccome la Bce non è un vera banca centrale – manca del potere di fare da “prestatore di ultima istanza” – il ruolo del “nuovo Mes” sarà prevalente per quanto riguarda il rapporto con gli Stati.

Un combinato disposto complicato, che rischia di oscurare l’obiettivo di tanto “cospirare”. Ed anche quello è detto chiaro e tondo dall’Agi (ossia dall’Eni, principale multinazionale italiana partecipata dallo Stato come “azionista di riferimento”): spezzare il legame tra banche e debito sovrano. Ossia tra le banche e i titoli di Stato. Se ciò avvenisse (e avverrà di certo se il “nuovo Mes” prende corpo, come ha anticipato Patuelli, presidente dell’Abi) salterebbe in un colpo solo sia la stabilità del sistema bancario nazionale – pieno di titoli di Stato italiani – sia la sostenibilità del debito pubblico (la speculazione finanziaria avrebbe campo completamente libero).

Anche il secondo articolo, pubblicato da Milano Finanza a firma di Roberto Sommella (“I tedeschi vogliono salvare soltanto se stessi”), affronta gli stessi problemi con gli stessi argomenti.

Dunque, visti gli interessi societari dietro le due fonti di informazione, dobbiamo prendere atto che una fetta rilevante della borghesia finanziaria e imprenditoriale italiana è oggi assolutamente convinta che la governance europea e europeista, per quanto neoliberista, è ormai un danno per i propri affari e i propri asset.

Diciamola semplice: questa “fetta” è stata assolutamente d’accordo con le politiche di austerità fin quando queste colpivano soltanto il mondo del lavoro, il welfare (pensioni, sanità, istruzione, servizi pubblici, ecc). Avere dipendenti con contratti precari e con salari da fame andava ovviamente bene, per loro.

Ma ora che il modello export oriented imposto dall’ordoliberismo tedesco “batte in testa” – la Germania è in recessione, il suo sistema bancario è in buona parte sull’orlo del fallimentola ricerca del profitto si riversa all’interno del sistema continentale. E’ insomma partito da tempo un processo che abbiamo chiamato di cannibalizzazione, in cui “i fratelli europei” si azzannano l’un l’altro cercando di sopravvivere.

A questo punto, insomma, per una parte rilevante della borghesia finanziaria e industriale italiana, l’Unione Europea e le sue regole hanno smesso di essere un buon affare. La classe politica “europeista” che fin qui ha diretto il paese (dal Pd fino ai Monti e alle Fornero), accettando trattati che si sono rivelati cappi intorno al collo, non è più considerata in grado di difendere quegli interessi.

Serve qualcuno in grado di convogliare “consenso popolare” su una linea di maggiore capacità contrattuale con i poteri di Bruxelles, altrimenti “ci si mangiano”. Non per “spaccare l’Europa”, ma per ottenere regole meno squilibrate a favore dei tedeschi (dei “padroni” tedeschi, ovviamente).

La straordinaria avanzata della Lega salviniana negli ultimi tre-quattro anni ha questo propellente alle spalle, oltre che qualche spicciolo russo o statunitense (ala Bannon-Trump…). Ovvio che serviva una retorica interclassista per cercare di tenere figure sociali che fin qui avevano perduto tantissimo dall’“austerità europeista” sotto il comando di quelle che invece ne avevano beneficiato. E altrettanto ovvio che questa retorica, non avendo nulla di concretamente materiale da offrire, si dovesse nutrire di fake news, razzismo, capri espiatori, cazzate “laqualunque”, ecc.

Il problema è comunque molto serio, perché anche chi vuole rivoluzionare il mondo (i rapporti di proprietà, il modello produttivo, ecc.) deve fare i conti con la materialità delle cose: si cambia la realtà che c’è, con gli strumenti che ci sono e quelli che si possono creare.

Un paese completamente saccheggiato, svuotato della sua “migliore gioventù” (costretta ad emigrare all’estero per trovare un lavoro all’altezza delle proprie competenze), deprivato delle parti strategiche del suo sistema industriale (acciaio, auto, telecomunicazioni, ecc.), azzerato come capacità di risposta alle sfide, è un paese senza futuro.

Per questo l’Unione Europea va combattuta ora, qui, davvero.

*****

Klaus Regling, l’uomo più potente d’Europa

Francesco Russo – Agenzia Agi

Quando il ministro delle Finanze di Berlino, Olaf Scholz, illustrò la sua proposta per il completamento dell’unione bancaria, il collega di Roma, Roberto Gualtieri, fu critico, sottolineando i rischi per il nostro Paese di uno schema che penalizzerebbe istituti, come quelli italiani, che detengono forti quote di debito pubblico nazionale. Il governo non è stato però altrettanto critico con il disegno di riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), che alla proposta di Scholz è fortemente intrecciato e persegue un analogo obiettivo: limitare lo spazio di manovra della nuova presidente della Bce Christine Lagarde, che intende proseguire la politica accomodante di Mario Draghi ma non ha lo stesso capitale di credibilità, e mettere al riparo una Germania sull’orlo della recessione dalle possibili conseguenze di un tracollo di Deutsche Bank.

Non è però facile per nessuno dire no a Klaus Regling, il numero uno del Mes, che nel 2017 è stato confermato per altri cinque anni alla guida del “fondo salva-Stati” europeo, i cui poteri – se la riforma in discussione in questi giorni passerà – si estenderanno a un punto tale da sovrapporsi in parte a quelli della stessa Banca Centrale Europea

Con un’Angela Merkel appannata e contestata all’interno del suo stesso partito, è tutto in mano ai burocrati l’onere di difendere la dottrina dell’austerità sulla quale si fonda, sovente a scapito dei partner comunitari, la competitività del modello tedesco. Perso l’ex segretario generale della Commissione Europea Martin Selmayr, che a Bruxelles fu il baluardo degli interessi del Reichstag, questo compito è ora tutto in mano a Regling: già burocrate più potente del vecchio continente, con la riforma del Mes lo diventerà ancora di più. 

Una carriera in costante ascesa

Il volto di questo economista di Lubecca, classe 1950, sposato con due figli, non appare spesso sulle prime pagine dei giornali e la rete scarseggia di profili a lui dedicati. Uno dei pochi è quello tracciato da Politico, che lo descrive come una persona affabile e riservata, nei modi più accostabile a un Draghi che alle asprezze di altri cavalieri teutonici dell’austerity, come l’ex ministro delle Finanze Wolfgang Schauble o il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. La fonte più ricca di notizie su di lui è il sito stesso del Mes, che raccoglie puntualmente le sue non frequenti interviste e i suoi interventi presso le più prestigiose istituzioni economiche internazionali, le stesse che lo hanno visto accumulare un curriculum impressionante.

Figlio di un falegname, Regling studia Economia all’università di Amburgo, la stessa frequentata qualche anno dopo da Scholz, e nel 1975 completa gli studi a Ratisbona. Subito dopo inizia la sua carriera al Fondo Monetario Internazionale, dove lavora cinque anni nel dipartimento Ricerca e si occupa dei programmi dedicati all’Africa. Non male come scuola di austerità: nella seconda metà degli anni ’70 triplicano i prestiti del Fmi al continente nero, prestiti condizionati a duri tagli alla spesa e drastiche privatizzazioni, non sempre nell’interesse del Paese che ne era oggetto. Le stesse ricette che vedremo applicate decenni dopo in Grecia, il cui piano di “salvataggio” ebbe, soprattutto nelle sue ultime fasi, Regling come supervisore e regista. 

Ritorno in Germania

Nel 1980, appena trentenne, Regling torna in patria e lavora al dipartimento economico dell’Associazione Bancaria Tedesca. Il ragazzo ha talento e si fa notare subito. Tempo un anno e viene assunto presso la Divisione Affari Monetari europei del ministero delle Finanze, allora retto da Hans Matthofer, un socialista vecchia scuola che si era fatto le ossa nel sindacato dei metalmeccanici. Era l’epoca in cui il progetto dell’euro stava prendendo forma e Regling la vive in prima linea. Il Sistema Monetario Europeo era nato nel ’79 e il compito degli economisti di quel dipartimento era studiare come il solido marco si sarebbe fuso con la lira e la peseta, a quale tasso di cambio e a quali condizioni. Arriva l’82, il terzo governo Schmidt va in crisi, dopo tredici anni i democristiani riconquistano la cancelleria con Helmut Kohl. Regling rimane là fino all’85. Lo vogliono di nuovo a Washington. 

In quattro anni Regling passa dal rango di economista a quello di senior economist fino a diventare vicedirettore della divisione Mercato dei Capitali del Fondo Monetario Internazionale. Le sue competenze in campo economico sono ormai variegate e poliedriche. Conosce il mondo delle banche, conosce la finanza pubblica, conosce le istituzioni internazionali, e nel 1999, come direttore esecutivo del Moore Capital Strategy Group, avrebbe conosciuto anche il settore privato. La sua unica lacuna è il fisco. Alla fine degli anni ’80 è rappresentante del Fmi in Indonesia, ruolo prestigioso. Ma nel 1991 la patria chiama di nuovo.

Al cuore del progetto dell’euro

Regling torna al ministero delle Finanze e si guadagna la fiducia personale del cancelliere, che lo invia come rappresentante economico della Germania nei consessi internazionali più disparati, dal G7 allo stesso Fmi, con il quale manterrà un rapporto stretto. Nel ruolo di capo della divisione Affari Economici Internazionali, Regling è anche uno dei protagonisti della stesura dei trattati di Maastricht. Insieme al futuro presidente Horst Kohler e all’allora presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, fa parte del team di negoziatori tedeschi al tavolo che porrà le basi per la nascita dell’euro. In tutto questo, trova anche il tempo per il ruolo di lavorare ai vertici dell’Asian Development Bank e dell’Inter-American Development Bank e di sedere nel board di Hermès Credit Insurance.

Nel 1998 i socialisti tornano al potere. Regling, ormai in quota Cdu, lascia. La sua carriera nel settore privato dura però appena tre anni. Nel 2001 il Manuale Cencelli europeo assegna a Berlino la struttura burocratica della Commissione Europea più importante di tutte: la direzione generale per gli Affari Economici e Finanziari. Gerard Schroeder ha bisogno di un cavallo di razza per guidarla. E chiama Regling, che ci resterà fino al 2008. Per quasi trent’anni, questo funzionario affabile e riservato ha vissuto di ogni fase di sviluppo del progetto dell’euro, nel ruolo di protagonista e di garante degli interessi tedeschi. Il coronamento di una carriera così spettacolare non poteva che essere la presidenza della Bce. O almeno così sembrava.

Gli anni della grande crisi<span style=”font-family: Liberation Serif, serif; color: #000000;”><span style=”font-size: large;”>

La presidenza del francese Jean-Claude Trichet è la più disastrosa della storia dell’Eurotower: nel mezzo di una crisi del debito vengono alzati i tassi di interesse. Per salvare la moneta unica, Berlino deve fare un passo di lato e consentire alla Bce di allentare i cordoni della borsa, seppure non troppo e pur sempre in enorme ritardo rispetto alla Federal Reserve. Ma Angela Merkel non può certo mettere la faccia su un abbassamento dei tassi che avrebbe eroso i margini di profitto delle banche tedesche, abituate ad offrire ai correntisti rendimenti molto interessanti, né tantomeno su un possibile incremento dell’inflazione (che non avverrà). A Francoforte ci vuole un italiano. Ci vuole Mario Draghi

Regling, dato inizialmente come possibile successore di Trichet, viene così dirottato nel 2010 alla presidenza dell’Efsf, il primo fondo salva-Stati europeo, che si occupa del salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo. Le chiavi della cassaforte rimangono così in mano alla Germania, mentre la Bce rimane quello che è: una banca centrale che non è davvero una banca centrale, mancando del ruolo di prestatore di ultima istanza. Quando, nel 2011, Draghi prende le redini dell’Eurotower, lo spettro del default minaccia l’Italia. L’Efsf non ha abbastanza fondi per salvare un’economia di queste dimensioni. Dopo un duro braccio di ferro con Schaeuble e Weidmann, Draghi lancia il piano Omt (prestiti in cambio di riforme) e poi, finalmente, il ‘quantitative easing’. Nel frattempo all’Efsf si affianca l’Esm, o Mes, un organismo permanente che aumenta la sua dotazione a 700 miliardi e diventa un vero e proprio Fondo Monetario europeo. A cosa serve se c’è il piano Omt?

Un manager per l’Eurozona

Le azioni intraprese da Draghi erano blindate dalla copertura politica fornita da Angela Merkel la cui leadership europea, allora indiscussa, è oggi agli sgoccioli. Christine Lagarde, se uno Stato avesse di nuovo bisogno di aiuti, avrebbe molte difficoltà a far passare un piano Omt. Ciò perché nella Bce le decisioni si prendono per “consenso”, cercando con fatica un compromesso tra le parti. Klaus Regling è invece un “direttore generale”, ha un’autonomia maggiore e la Commissione Europea deve tener conto dei suoi pareri. Il suo ruolo nell’Efsf è quello di “Ceo”, amministratore delegato. Un vero e proprio manager con una “mission”: far sì che l’integrazione dell’Eurozona diventi più stretta solo al patto di seguire un disegno tedesco.

Il progetto di completamento dell’unione bancaria suggerito da Scholz e il piano di riforma del Mef procedono su binari paralleli e sono funzionali l’uno all’altro.

Il primo intende spingere le banche che detengono forti quote di debito pubblico a dismetterle, eliminando il “rischio zero”, scenario che avrebbe effetti devastanti per l’Italia.

Il secondo, oltre a garantire copertura al fondo comune di garanzia per i depositi che ancora manca all’unione bancaria, evoca lo spettro della ristrutturazione del debito per i Paesi, come l’Italia, con i conti troppo in disordine per poter accedere agli aiuti. Ciò significherebbe che, una volta entrata in vigore la riforma, si scatenerebbe subito un attacco speculativo ai danni di Roma e, in assenza degli accantonamenti richiesti dal progetto Scholz, il sistema bancario italiano verrebbe travolto. 

L’obiettivo di Berlino è il solito, quello richiamato più volte da Schaeuble: spezzare il legame tra banche e debito sovrano, per creare un’Eurozona virtuosa dove i rischi saranno diventati abbastanza bassi da rendere accettabile per gli elettori tedeschi condividerli. Un obiettivo che per l’Italia avrebbe costi così alti da apparire irrealizzabili, politicamente improponibili.

La Germania intende comunque provarci e ha un piano molto chiaro. E l’unico che potrebbe riuscire a portarlo a termine è questo silente burocrate che, dietro le quinte, è stato sin dal principio il vero regista dell’unione monetaria. 

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I tedeschi vogliono salvare solo se stessi

Roberto Sommella – Milano Finanza

Gli effetti che si prevedono dalla riforma del Fondo Salva Stati si arricchiscono di una nuova potenziale minaccia: gli aiuti andranno solo a chi non ne ha bisogno. L’assurdità delle regole che sottintendono alla riforma dell’Esm o Mes che dir si voglia, braccio armato per la correzione dei conti pubblici nell’Eurozona, e nuovo argomento di polemica politica tra Agenzia Agichi presumibilmente non ha letto una riga delle oltre 700 che compongono l’intero dossier, è stata messa a nudo da un recente studio del think tank Bruegel che ha scritto nero su bianco come solo 10 dei 19 Paesi della moneta unica potranno accedere al sostegno finanziario.

Gli strumenti messi a disposizione dalla nuova troika formata dal board dell’Esm, dalla Commissione Ue e dalla Bce, rischiano infatti di avere condizioni così stringenti da rendere il meccanismo inefficace. I criteri per accedere alla linea di credito precauzionale condizionata potrebbero addirittura lasciare fuori proprio gli Stati che ne avrebbero maggior bisogno. Come offrire le medicine a chi è sano e negarle invece a chi sta per morire. Al solo pensiero vengono i brividi poi se si considera che la revisione in questione dell’ex Fondo salva banche divenuto ora salva paesi è stato concepito dalla Germania, che ha purtroppo un’antica e tragica esperienza in questo genere di selezione di specie.

L’aspetto da tenere a mente è dunque che la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) rischia di penalizzare eccessivamente i partners più in difficoltà, quando a soffrire in questo momento sono bel altri soggetti. Proprio ieri Moody’s ha tagliato l’outlook della banche tedesche, con Deutsche Bank  che dal 2007 ha perso oltre il 60% di capitalizzazione e Commerzbank  la metà.

La misura prevista dagli sherpa europei, pronta a essere finalizzata a dicembre e che sta appunto scatenando moltissime polemiche in Italia tra Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte, sarà limitata ai Paesi membri la cui situazione economica e finanziaria, pur fondamentalmente solida, potrebbe essere influenzata da uno shock negativo al di fuori del loro controllo. E non si tratta stavolta di un’ipotesi campata in aria ma prevista dagli annessi III e IV alla bozza di Trattato sul Fondo Salva Stati che dovrà essere ratificato da tutti i parlamenti dell’eurozona.

L’insensatezza della misura è palese, perché chi chiede l’accesso agli aiuti dovrà rispettare alcuni parametri quantitativi di bilancio nei due anni precedenti la richiesta di assistenza finanziaria, tra cui un disavanzo inferiore al 3% del pil e un debito pubblico sotto al 60% del pil o una riduzione di questo rapporto di un ventesimo l’anno. Tanto per fare un esempio: in questo momento non potrebbe accedervi l’Italia perché, pur non avendo sforato il parametro di Maastricht sul fabbisogno, non sta rispettando la regola del debito, come gli ha puntualmente ricordato il commissario europeo, Pierre Moscovici, nel dare il via libera sostanziale alla manovra del governo. Non solo.

Il paese alla fame non dovrà neppure essere sotto procedura per disavanzi eccessivi, né avere squilibri esagerati. La revisione delle regole sui salvataggi affida poi allo stesso Mes, alla Commissione europea e alla Bce il compito di valutare la sostenibilità dei debiti sovrani. Insomma sarà la nuova euro burocrazia, che di fatto si sostituisce alla Commissione e oggi guidata, guarda caso, da un tedesco, Klaus Regling, a decidere chi può essere salvato e chi no.

Tempo fa un’analisi sempre del centro Bruegel evidenziava proprio questo aspetto insensato della riforma dell’Esm, che tanto fa discutere, dalla Banca d’Italia al ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, e che impegnerà il premier Conte il prossimo 10 dicembre in Parlamento per le sue comunicazioni sul tema. La modifica che permette agli Stati in difficoltà di chiedere aiuto, limitandosi a fornire una lettera di intenti, rischia, secondo gli studiosi, di tenere fuori circa la metà dei Paesi.

All’epoca sui 19 Stati che adottano la moneta unica, dieci non avrebbero avuto accesso al sostegno in caso di necessità e tra questi anche l’Italia, oltre a Francia, Spagna, Grecia e Portogallo. Lo stesso studio evidenziava anche come alcuni riferimenti al deficit strutturale rendessero tale criterio inadeguato, rischiando di portare a discussioni e negoziati tra Stati, Commissione Ue e Mes e riducendo il grado di trasparenza e prevedibilità del processo di valutazione, andando quindi in direzione opposta agli obiettivi che la revisione si è posta.

C’è ben poco da aggiungere. Fatta l’Unione, mancano ancora dei veri europei che ragionino oltre i tornaconto nazionali.

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1 Commento


  • andrea

    Un po’ di sana concretezza, ora indispensabile: “anche chi vuole rivoluzionare il mondo (i rapporti di proprietà, il modello produttivo, ecc.) deve fare i conti con la materialità delle cose: si cambia la realtà che c’è, con gli strumenti che ci sono e quelli che si possono creare”.
    Non è il momento delle seghe mentali, o di un autocompiacimento erudito quanto teorico.

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