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50 anni dopo, anche il liberismo ha finito il suo tempo

La sensazione insiste da tempo. Lo stallo generale in cui siamo immersi – incrinato parzialmente ora dalla “paura globale” per un virus di limitata pericolosità – dura da anni. Uno scivolamento lento verso una condizione peggiore ma non ancora intollerabile, o forse tollerato solo perché lento e graduale. Una evidente incapacità-impossibilità per le classi dirigenti globali di trovare una “soluzione” alla crisi, per via del suo carattere mondiale e dei limitati strumenti – nazionali, o al più continentali – in mano ai decisori pubblici.

Però ogni stallo è una marcescenza. I problemi si accumulano, per quanto silenziati o rinviati. E le possibili soluzioni diventano sempre meno applicabili, perché si moltiplicano le connessioni tra un problema e l’altro.

Per esempio, chi vede l’immigrazione come un problema gravissimo non vede, in genere, l’emigrazione dei suoi connazionali – specie giovani, istruiti, preparati – verso luoghi in teoria più promettenti. E soprattutto non vede le ragioni strutturali che spingono così tante persone ad affrontare l’ignoto in un altro paese o continente, in diversi contesti culturali e linguistici.

Chi vede le ragioni strutturali (economiche o ambientali) spesso non coglie la complessità delle reazioni in popolazioni sottoposte contemporaneamente a uno stress economico-sociale (perdita di salario, status, sicurezza economica, speranza nel futuro) e a uno “epidermico-culturale” (“lo straniero in casa”).

Dovunque ci si giri non si incontra nulla di stabile, se non l’incrudimento delle reazioni repressive da parte di centri si potere che dappertutto sentono salire il malessere sociale.

E’ quasi paradossale che questa situazione abbia portato in Italia alla dissoluzione della “sinistra”, mentre nel mondo anglosassone, per esempio, c’è una clamorosa ed evidente crisi della destra. Sia davanti al cosa fare per l’economia, sia in merito a quale orizzonte indicare per società allo sbando.

Cinquanta anni di neoliberismo sono un’epoca. E sta finendo. Le forze che ne hanno beneficiato resistono, ovviamente. Ma non sanno più in quale direzione andare. Le figure sociali che ne sono state annientate fanno una altrettanto ovvia fatica a riprendersi, prive come sono delle istituzioni (partiti politici, organizzazioni sindacali, “intellettuali organici”, ecc) che in altri tempi ne traducevano i bisogni in progetti di società, rivendicazioni politiche, utopie con i piedi piantati per terra.

Un doppio vuoto che non viene riempito – non può esserlo – da slogan magari fortunati, ma senza contenuto (Lega e M5S abbondano, in questo campo). Nè da una ripetizione stolida delle identiche ricette (se ascoltate Cottarelli, Fornero, Gianni, Pd vari, ne avrete un campionario mostruoso). Ma nemmeno da ideuzze “di sinistra”, che colgono singole storture o infamie, ma non la crisi di sistema che le genera. E che dunque sono l’equivalente dei cerottini sulle ferite di guerra…

Per fare ameno l’occhio alle dimensioni ciclopiche dei problemi che l’umanità ha ora davanti vi consigliamo questo editoriale di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza. Non tocca neppure le tematiche della crisi ambientale… Forse per non spaventare troppo i lettori della sua testata, già shoccati duramente con la dichiarazione di (prossima) morte del liberismo. E da quel tombale “dal ‘non ci sono pasti gratis’” (mantra liberista classico) “al ‘non c’è pasto per nessuno'”.

Quello che verrà dopo sarà il risultato di un conflitto, non la “naturale evoluzione pacifica” del sistema attuale.

Buona lettura.

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50 anni dopo, anche il liberismo ha finito il suo tempo

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Esiste uno spirito del tempo. Aleggia irresistibile, talora violento, mentre la narrazione consueta è incapace di opporvisi: non è ai continui record di Wall Street che bisogna guardare, e neppure ai blandi tassi di interesse decisi dalle banche centrali. Non ancora sanati dopo la crisi del 2008, vanno corretti gli squilibri economici, finanziari e soprattutto sociali che si sono accumulati in questi ultimi cinquant’anni.

La distorsione strutturale nei flussi di merci, capitali e persone che riguarda i rapporti degli Usa e della Gran Bretagna con il resto del mondo ha determinato una reazione popolare imprevedibile solo per chi non ha voluto cogliere per tempo la portata ciclopica, via via accumulatasi, di queste tensioni.

Ne sono stati stravolti gli assetti tradizionali dei partiti della destra americana e britannica, con l’abbandono, ancora non appieno compreso, della stagione neoliberista che fu inaugurata da Margareth Thatcher e da Ronald Reagan all’inizio degli anni Ottanta: allora, l’apertura incondizionata delle frontiere sembrava irreversibile.

La “morte dello Stato”, garante dei diritti individuali e collettivi attraverso le leggi ed il potere attribuito agli accordi sindacali, avrebbe finalmente liberato gli animal spirits del mercato, portando benessere e crescita.

Si intravvedono le prime, serie fratture, all’interno di questo modello mercatista, che è stato incapace di contemperare la libertà delle relazioni salariali e degli scambi internazionali con l’esigenza di un equilibrio strutturale: per le merci, si va dai dazi americani sulle importazioni dal resto del mondo alla frammentazione della catena globale del valore indotta dalla competizione geopolitica nei confronti della Cina; per le persone, dalla preannunciata nuova regolamentazione degli ingressi per lavoro in Gran Bretagna ai recenti Accordi tra Usa e Messico in materia di controllo dell’immigrazione clandestina e di salari minimi nelle imprese esportatrici.

I movimenti di capitale, di per sé, sono silenziosamente frenati dai rischi sottesi dagli squilibri commerciali e finanziari crescenti. I contratti derivati sono cupe nuvole di tempesta. mondiale

La liberalizzazione dei commerci mediante accordi multilaterali, che era stata messa in moto dagli Usa sin dalla fine della Guerra con il GATT, sembrava un processo irreversibile: dall’Accordo tra Usa e Canada del 1989 al Nafta esteso al Messico nel 1994; dall’ingresso della Cina nel Wto voluto da Bill Clinton nel 2000, fino al Partenariato Trans Pacifico (TPP) progettato da Barak Obama ed addirittura firmato nel febbraio 2016.

Tutto si è bloccato con l’arrivo di Donald Trump alla Presidenza: il 27 gennaio del 2017, appena due settimane dopo essersi insediato, ne annunciò il ritiro da parte degli Usa, prima di partire per un lungo viaggio in Asia per mettere in mora i governi di Corea del Sud, Giappone, Cina, Vietnam e Filippine. Ognuno doveva compiere ogni sforzo per riequilibrare il saldo strutturale commerciale nei confronti degli Usa, che già allora mostrava un rosso sempre più profondo: -490 miliardi di dollari nel 2014, -500 miliardi nel 2015, -505 miliardi nel 2016. La posizione finanziaria internazionale netta peggiorava anch’essa a vista d’occhio, passando dai -1.279 miliardi di dollari nel 2007, ai -5.372 miliardi nel 2013, ai -8.318 miliardi nel 2016.

Da allora, nonostante ogni sforzo, praticamente nulla è cambiato: pur imponendo dazi a destra ed a manca, e minacciandone sempre di nuovi, Trump ha sconvolto un assetto di libero commercio senza riuscire a frenare il baratro commerciale e finanziario statunitense, che si è aperto cinquant’anni fa.

Fra il gennaio del 1981 ed il gennaio del 1989, tanto durò la Presidenza di Ronald Reagan, si verificò il grande ribaltamento nei conti esteri americani: la posizione finanziaria netta, che all’inizio del suo primo mandato segnava un attivo di 297 miliardi di dollari, peggiorò continuamente cambiando di segno nell’89, quando fu di -33 miliardi di dollari.

Sembrava poca cosa, ma da allora il tracollo è stato inarrestabile, trascinato dal passivo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti: decennio dopo decennio, è sprofondato, passando dai -9.555 miliardi del 2018 ai -10.979 miliardi di dollari del terzo trimestre 2019.

Gli Usa, da tempo compratori di ultima istanza nel mercato globale nel tripudio degli esportatori, sono diventati anche il primo debitore del resto del mondo, con 39 mila miliardi di asset detenuti da non residenti: di questi, 21 mila miliardi sono investimenti di portafoglio. Il debito a lungo termine verso l’estero ammonta complessivamente a 11,2 trilioni di dollari, di cui 6 trilioni sono titoli del Tesoro. E’ un debito che costa caro, visto che i tassi americani sono ben più alti di quelli sui titoli europei o giapponesi.

Fra il 2008 ed il 2020, il pil americano è cresciuto in termini nominali di 51,7% ed in termini reali del 22,3%: solo l’alta inflazione ha consentito di tenere a freno l’aumento del rapporto debito/pil che è passato dal 73,6% al 108%, accumulando ben 34,4 punti. In termini nominali, il debito è più che raddoppiato, passando da 10,8 a 24,1 trilioni di dollari. Ancora quest’anno, il deficit federale statunitense sarà pari al 5,5% del pil, mentre il saldo primario continua ad essere negativo per il 3,6% del pil.

Impossibile fare un confronto con le disciplina europea del Fiscal Compact e con la severità cui è costretta da decenni la finanza pubblica italiana. La stabilità americana, che alimenta l’export di mezzo mondo, è una questione di enorme criticità.

La situazione della Gran Bretagna è maggiormente sotto controllo dal punto di vista dei conti pubblici. Il suo deficit pubblico è stato messo tempestivamente sotto controllo, dopo essere arrivato al 10% del pil nel 2009, riducendolo al 5,3% nel 2014 ed all’1,4% nel 2018. Quest’anno dovrebbe essere pari all’1,5% del pil. Il debito è cresciuto di quasi 35 punti tra il 2008 ed il 2020, passando dal 49,7% all’84,4% del pil, ma si è già ridotto rispetto al picco dell’87,9% raggiunto nel 2016.

Rimangono pesantemente squilibrati i conti con l’estero, con un saldo negativo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti, da anni sempre superiore al 3% del pil. Negli anni compresi tra il 2008 ed il 2020, il deficit cumulato ha superato il 51% del pil. La posizione netta sull’estero, che risente molto delle transazioni finanziarie, è tornata negativa dopo il riequilibrio raggiunto nel 2017: a settembre scorso segnava -418 miliardi di sterline.

I conti commerciali richiedono dunque una drastica messa a regime: chi si illude che la Gran Bretagna lascerà ancora spalancate le sue frontiere alle merci europee dovrebbe farsi meglio i conti. La stretta ci sarà, e dura.

Se, dunque, Usa e GB sono accomunati da un disavanzo strutturale del commercio con l’estero, dopo aver rispettivamente preferito le tecnologie ICT ed i servizi finanziari ed assicurativi alla tradizionale manifattura, la Gran Bretagna soffre particolarmente per il collasso sociale determinato dalla forte immigrazione.

La questione è stata sottovalutata: il Regno Unito, già a partire dai primi anni Novanta, è stato mèta di un afflusso crescente ed incontrollabile di persone da tutto il mondo, non solo dai cittadini dell’Unione europea, ma soprattutto da quelli del Commonwealth. Il saldo netto complessivo tra immigrati ed emigrati, che era stato positivo per appena 44 mila unità nel 1989, è arrivato a 260 mila persone nel 2018, dopo aver toccato il culmine 332 mila unità nel 2015.

Guarda caso, è l’anno che precede il referendum sulla Brexit, il cui primo esito, ancor prima della definizione dei nuovi rapporti commerciali, è stato l’annuncio di una normativa estremamente severa nei confronti dei nuovi migranti.

Nel periodo 1989-2018, il saldo tra immigrati ed emigrati è stato attivo per 4,9 milioni di persone, con 12,4 milioni di immigrati. Il saldo relativo ai movimenti di cittadini europei, che considera anche l’emigrazione britannica nei Paesi dell’Unione, è stato attivo per 1 milione e 387 mila persone, con un picco di immigrazione dopo la crisi. Tra il 2008 ed il 2018, gli arrivi hanno superato i 2 milioni. Sempre in questo periodo, l’immigrazione netta di persone con cittadinanza non europea è stata altrettanto imponente, superando anche in questo caso i 2 milioni di persone.

Nel solo 2018, i cinque principali flussi di arrivo sono provenuti dall’India con 58 mila persone, dalla Cina con 52 mila, dall’Italia con 27 mila, dagli Usa e dalla Polonia entrambe con 26 mila immigrati.

Per il mercato del lavoro, in Gran Bretagna si starebbe per cambiare pagina, mettendo fine alla concorrenza tra poveri, perché gli inglesi e gli immigrati pari sono, contendendosi i posti di lavoro al salario più basso, salvo poi ricorrere ai sussidi pubblici per non morire di fame.

La competizione e la deflazione salariale hanno comportato una estensione inusitata della insicurezza economica e della stessa povertà, visto che lavora addirittura un terzo di coloro che chiedono di usufruire dell’Universal Credit, le 73 sterline a settimana di cui beneficiano oltre 2,3 milioni di persone.

Si preannuncia ora un sistema di immigrazione “a punti”, che consentirà l’ingresso solo a chi ha già un’offerta di lavoro con un salario minimo di 25.600 sterline: niente più laureati italiani a fare i lavapiatti a Londra.

A casa nostra non va certo meglio, ma almeno si cerca di porre fine ad una mondializzazione di cui avremmo fatto volentieri a meno: siamo partiti dal “There is no free lunch” per arrivare al “No lunch at all”.

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1 Commento


  • Mario Galati

    C’è qualcosa che non torna in questa lettura. Si trattano Gran Bretagna e Stati Uniti come sistemi portatori di interessi al loro interno omogenei, con settori capitalistici che non conoscono interessi contrastanti e conflittuali tra loro (capitale transnazionale e capitale ancora nazionale) e anche nei confronti dei lavoratori. Mi spiego: gli stessi capitalisti che puntano alla produzione e al consumo interno puntano a limitare l’immigrazione e la conseguente crescita dell’esercito industriale di riserva che tiene bassi i salari e tiene a bada i lavoratori? Immagino i padroni che vogliono limitare la concorrenza tra lavoratori per innalzare i salari e farli consumare di più, senza che, dall’altro lato, non aumenti da qualche parte il tasso di sfruttamento che abbassi il costo delle merci con l’aumento della produttività. In passato è stato lo sfruttamento del terzo mondo a tenere in piedi la ripresa keynesiana avviata sulle ceneri della distruzione bellica. Il compromesso socialdemocratico e il welfare non sono stati solo conquiste delle lotte dei lavoratori, ma anche il prezzo della loro collaborazione corporativa alla continuità neocoloniale.
    Ma accettiamo pure questa ipotesi come ipotesi di politica neokeynesiana dei padroni. A questo punto, però, occorre chiedersi: a spese di chi viene siglato questo patto neocorporativo? Non dimentichiamo che nel passato il compromesso socialdemocratico corporativo keynesiano si è attuato nella continuità della logica coloniale, a spese del mondo sottosviluppato. Se oggi i padroni americani e britannici propongono questo patto ai loro lavoratori, bisogna chiedersi contro chi chiederanno di fare fronte comune ai loro lavoratori. Sono la Cina e altri paesi emergenti il loro obiettivo (e, conseguenza inevitabile, anche i paesi capitalistici imperialisti concorrenti)?
    Se, invece, questo patto neocorporativo fallisce il suo obiettivo di frenare la Cina e i paesi emergenti e di garantire la supremazia e lo sfruttamento dei paesi imperialisti, allora queste misure risulteranno puro protezionismo. E, come Marx e Gramsci insegnano, il protezionismo è una scelta dei capitalisti per i loro interessi nella concorrenza con i capitalisti di altri paesi, non certo dei lavoratori, che sempre viene fatta pagare ai lavoratori, per es. con l’aumento del prezzo delle merci.
    Le analisi e i dati di Guido Salerno Aletta sono sempre interessanti, ma non prendiamo per oro colato la sua impostazione.

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