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ThyssenKrupp. Condanne confermate, nonostante la “clemenza” del pg

Alla fine ha prevalso il buon senso, se non proprio la giustizia. La Cassazione ha confermato le condanne dell’appello bis nei confronti dei sei imputati per il rogo alla Thyssen nel quale, nel dicembre 2007, morirono 7 operai. La pena più alta è di 9 anni e 8 mesi inflitta all’ad Harald Espenhahn, quella più bassa, di 6 anni e 3 mesi per i manager Marco Pucci e Gerald Priegnitz. Condannati inoltre gli altri dirigenti Daniele Moroni a 7 anni e 6 mesi, Raffaele Salerno a 7 anni e 2 mesi e Cosimo Cafueri a 6 anni e 8 mesi. E’ stato così confermato il verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Torino del 29 maggio 2015.

La sentenza è arrivata alla fine di una giornata carica di rabbia, ovviamente da parte dei parenti delle vittime, che avevano assistito increduli alla richiesta dell’accusa – il procuratore generale Paola Filippi, . che aveva chiesto di annullare la sentenza e riviare tutto il processo di nuovo in appello, ritenendo “troppo alte” le condanne comminate in primo grado, già molto più “gentili” rispetto a quelle comminate in primo grado.

I familiari, sbollita la rabbia mattutina, hanno accolto con comprensibile sollievo la conferma del verdetto d’appello. “E’ una vittoria, una vittoria per noi e per tutte le vittime morte sul lavoro. Oggi ascoltando le richieste del pg abbiamo pianto di rabbia. Ora possiamo andare dai nostri ragazzi al cimitero e dire che finalmente c’è stata giustizia e ci sono pene severe, anche se il nostro dolore è per sempre”.

” Prendiamo atto con rispetto del dispositivo della sentenza”. Così la Thyssenkrupp sulla decisione della Cassazione per il rogo di Torino. L’azienda ha fatto conoscere la sua posizione attraverso una nota. “Esprimiamo nuovamente il nostro cordoglio alle vittime e alle loro famiglie. Thyssenkrupp è profondamente addolorata che in uno dei suoi stabilimenti si sia verificato un incidente così tragico. Faremo il possibile affinché tale disgrazia non accada mai più”.

Formule verbali dovute, dopo una condanna definitiva, ma assolutamente ipocrite. Il processo ha dimostrato infatti che l’azienda era perfettamente consapevole dei rischi per i lavoratori in un impianto come quello di Torino, mai più upgraded in attesa di chiudere e trasferire tutte le lavorazioni residue nello stabilimento di Terni.

Qui di seguito le nostre prime consderazioni a caldo e la cronaca ripresa dall’attonito cronista de La Stampa di Torino.

 

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La legge italiana protegge gli assassini. Ma non tutti, certo. Per i miserabili la condanna è certa, quasi quanto l’assoluzione per gli imprenditori che hanno pianificato e messo in conto l’eventuale strage di lavoratori.

È il primo e forse unico commento che si può fare alla clamorosa richiesta del procuratore generale (l’accusa!) davanti alla sezione della Cassazione che deve decidere se confermare o meno la condanna dei vertici della ThyssenKrupp per la strage di Torino, nella note tra il 5 e il 6 dicembre 2007, in cui persero lavita sei operai.

Troppo alte”, secondo il procuratore. E dire che già in sede di appello erano state sostanziosamente ridotte rispetto al primo grado di giudizio, in cui la parte dell’accusa era sostenuta da Raffaele Guariniello.

Qui di seguito la cronaca di questa incredibile giornata, cheha stupito persino il redattore de La Stampa.

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Colpo di scena nel processo Thyssen, proprio nel giorno in cui si attendeva dalla Cassazione la parola definitiva sulle condanne. Il procuratore generale ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza, perché le pene sarebbero troppo alte. I familiari delle vitime sono esplosi in un grido di rabbia: «Venduti».

Doveva essere il giorno della verità per la strage Thyssen: la quarta sezione penale della Cassazione, presieduta da Fausto Izzo, avrebbe dovuto decidere se confermare o meno le condanne ai sei imputati nel processo per il rogo nello stabilimento di corso Regina Margherita a Torino, scoppiato la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Morirono sette operai. Una lunga e straziante agonia: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone se ne andarono nell’arco di venticinque giorni.

Sei dirigenti dell’acciaieria sono stati prima indagati e poi processati a Torino. Si tratta dell’amministratore delegato di Thyssen, Harald Espenhahn, dei dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, il membro del comitato esecutivo dell’azienda Daniele Moroni, l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. I magistrati torinesi Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso hanno contestato l’omicidio volontario, accusa che ha retto in primo grado ma non in appello, dove è stata derubricata a omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente. Il 24 aprile 2014 i giudici della Cassazione hanno confermato la responsabilità degli imputati ma annullato una parte della sentenza di Appello, ordinando ai giudici torinesi di ricalcolare le pene.

Nel processo d’Appello bis, che si è chiuso il 29 maggio 2015, le pene sono state ridotte . Espenhahn è stato condannato a nove anni e otto mesi, con uno “sconto” di due mesi; Pucci e Priegnitz a sei anni e dieci mesi (sette anni), Moroni a sette anni e sei mesi (nove anni), Salerno a otto anni e sei mesi (pena ridotta di due mesi), Cafueri a sei anni e otto mesi (otto anni). La Cassazione doveva decidere se confermare queste pene, e non lo ha fatto. Già chiusa, invece, la contesa che riguarda i risarcimenti: ai famigliari delle vittime ThyssenKrupp ha pagato 13 milioni; altri 4 sono andati alle altre parti civili. L’accaieria di Torino, dopo l’incidente del 6 dicembre 2007, non ha mai più riaperto.

La ThyssenKrupp è un’azienda tedesca, la più importante in Europa nel settore siderurgico. Nel 1994 ha acquistato la Acciai Terni, allora di proprietà pubblica, e con essa gli stabilimenti di Terni e Torino. Lo stabilimento di Torino viene presto ritenuto poco funzionale; ThyssenKrupp decide di concentrare la produzione a Terni e pianifica di chiudere la fabbrica di corso Regina Margherita nel 2005. Il progetto, però slitta anche a causa di una serie di imprevisti. Nel luglio del 2007 i sindacati e l’azienda firmano un accordo che sancisce la chiusura definitiva entro il settembre del 2008. La prima linea di cui si ipotizza la chiusura è la numero 5, quella su cui si verificherà l’incidente.

L’INCIDENTE

La notte tra il 5 e 6 dicembre, prima dell’una, sette operai al lavoro sulla linea 5 vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente, che prende fuoco. I Vigili del fuoco, la cui caserma dista poche centinaia di metri, arrivano quasi subito: è l’1,15. I feriti vengono trasferiti in ospedale. Alle 4 del mattino muore il primo operaio: si chiama Antonio Schiavone, ha 36 anni. Tra il 7 e il 30 dicembre ne muoiono altri sei: Giuseppe Demasi, 26 anni; Angelo Laurino, 43 anni; Roberto Scola, 32 anni; Rocco Marzo, 54 anni; Rosario Rodinò, 26 anni; Bruno Santino, 26 anni. Tra gli operai coinvolti nell’incidente c’è solo un superstite: Antonio Boccuzzi, dipendente Thyssen da 13 anni e sindacalista della Uilm; oggi è deputato del Pd.

L’incendio si sviluppa all’altezza della linea di ricottura e decapaggio. La produzione dell’acciaio sulla linea 5 si svolgeva così: l’acciaio passava attraverso un laminatoio, costituito da alcuni cilindri che lo schiacciavano riducendone l’altezza; poi veniva avvolto in fogli di carta per evitare che si graffiasse e accumulato per poi passare alle fasi di ricottura e decapaggio.

La prima fase – il procedimento definito «a freddo», anche se avviene a più di mille gradi – prevede di far passare l’acciaio in un forno e cuocerlo a una temperatura inferiore a quella di fusione. Nella seconda fase l’acciaio cotto viene fatto passare dentro vasche piene di acido per rimuovere le ultime impurità.

L’intero procedimento è considerato ad alto rischio d’incendio. le misure di sicurezza prevedono estintori, sistemi di spegnimento automatico e un particolare addestramento per il personale. Per mantenere le lastre lubrificate si utilizza olio combustibile altamente infiammabile, che spesso impregna spesso la carta che avvolge le lastre. Prima del processo di ricottura la carta va eliminata. Il problema – si scoprirà dopo l’incidente – è che la manutenzione scarseggia e spesso i residui di carta si accumulano lungo la linea. Basta una scintilla perché la carta prenda fuoco. Senza contare le frequenti perdite d’olio, che formavano pozzanghere sotto i macchinari. Poche ore prima del rogo si verifica un piccolo incidente. La linea viene fermata. Poi l’impianto riparte. Che cosa succede dopo? Probabilmente da una delle linee che trasportano l’acciaio si scatena una serie di scintille che incendiano la carta oleata accumulata sotto la linea e mai rimossa. Si sviluppa un incendio. Gli operai – che si trovano al sicuro in una cabina protetta da cui seguono la lavorazione – escono per spegnerlo.

Uno di loro, Boccuzzi, si allontana per collegare una manichetta all’idrante che i suoi colleghi impugnano. Ma l’incendio si alimenta delle chiazze di olio, le fiamme si alzano, sfiorano uno dei tubi che portano ad altissima pressione l’olio per lubrificare. Il tubo si rompe e l’olio comincia a fuoriuscire. La pressione crea una pioggia di gocce scagliate ad alta velocità che generano una palla di fuoco che investe tutti gli operai. L’effetto è quello di un gigantesco lanciafiamme. Boccuzzi si salva: in quel momento si trova dietro a un muletto. E Boccuzzi oggi parlamentare e deputato Dem ha detto: «Le richieste della procura sono per noi tutti un fulmine a ciel sereno e lo stesso vale per il rischio che i due imputati tedeschi, che sono poi i principali responsabili del rogo alla Thyssen, possano scontare in Germania una pena dimezzata». «Sarebbe paradossale – ha proseguito Boccuzzi – che l’amministratore delegato di Thyssen, che in primo grado era stato condannato per omicidio volontario, adesso possa ottenere in Germania una pena addirittura inferiore a quella degli altri coimputati italiani». «A fronte di questo rischio – ha concluso – è ancora più profonda la nostra delusione per l’annullamento della sentenza di primo grado».

LE INDAGINI

Dopo il rogo, lavoratori e sindacati denunciano una situazione da tempo fuori controllo. Nei giorni precedenti all’incidente la fabbrica si trova a corto di personale perché alcuni operai sono stati licenziati mentre altri già trasferiti a Terni. Quelli rimasti sono costretti a turni pesantissimi e agli straordinari per mantenere continua la produzione. Le testimonianze di Boccuzzi e degli altri operai accorsi sul luogo dell’incidente parlano di estintori scarichi, telefoni isolati, idranti malfunzionanti, assenza di personale specializzato. Non solo: alcuni degli operai coinvolti nell’incidente lavoravano ininterrottamente da dodici ore, avendo accumulato quattro ore di straordinario.

Oltretutto procura e vigili del fuoco scoprono che nei mesi passati si sono verificati alcuni piccoli focolai causati da scintille che incendiavano la carta oleata, gestiti dagli operai senza mai avvertire il 115. Soprattutto scoprono che l’azienda sconsigliava apertamente agli operai di premere il pulsante che avrebbe portato all’arresto della linea: in quel caso, infatti, l’acciaio sui nastri si sarebbe bloccato nel forno per la ricottura o nelle vasche di acido, diventando inutilizzabile. La notte dell’incidente nessuno bloccò la linea, fatto rilevante secondo la procura di Torino, emblematico del clima che si respirava in fabbrica: a febbraio del 2008 la linea 5 sarebbe stata chiusa, le misure di prevenzione e sicurezza erano state abbandonate da tempo.

La ThyssenKrupp nega subito qualsiasi responsabilità. Accusa gli operai morti di avere provocato l’incidente, causato da una serie di distrazioni o omissioni. Poi aggiusta il tiro e parla di «errori dovuti a circostanze sfavorevoli». Durante le indagini la Guardia di Finanza sequestra all’amministratore delegato Espenhahn un documento riservato in cui si ipotizza di avviare azioni legali contro Boccuzzi, ritenuto colpevole di raccontare a giornali e tv la tragedia dei suoi colleghi. Il documento critica pesantemente anche il pm Guariniello e l’allora ministro del Lavoro del governo Prodi, Cesare Damiano, considerato troppo vicino ai lavoratori.

I PROCESSI

Le indagini si chiudono in meno di un anno: il 17 ottobre 2008 la procura chiede il rinvio a giudizio per sei dirigenti dell’azienda. Il 18 novembre il giudice dell’udienza preliminare Francesco Gianfrotta dispone il processo per tutti e accoglie le tesi dell’accusa: il reato contestato è omicidio volontario con dolo eventuale e incendio doloso.

«Pur rappresentadosi la concreta possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza di più fatti e documenti e accettando il rischio del verificarsi di infortuni anche mortali sulla linea 5», scrive Gianfrotta, i dirigenti avrebbero causato la morte dei sette operai omettendo «di adottare misure tecniche, organizzative, procedurali, di prevenzione e protezione contro gli incendi». Il processo comincia nel gennaio del 2009. Sfilano i testimoni: lavoratori, sindacalisti. Emergono nuovi particolari: non solo le misure di sicurezza erano state ridimensionate, non solo le manutenzioni erano pressoché inesistenti ma la fabbrica veniva pulita solo in corrispondenza alle visite dell’Asl. E l’impianto si fermava solo in caso di guasti gravi, altrimenti si interveniva con la linea in movimento.

Il primo luglio del 2008 la ThyssenKrupp versa quasi 13 milioni alle famiglie dei sette operai morti, che non si costituiscono parte civile. Nell’aprile 2011 il Tribunale di Torino condanna in primo grado Espenhahn, a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario. Pucci, Priegnitz, Cafueri e Salerno a 13 anni e 6 mesi. Moroni a 10 anni e 10 mesi. Nel febbraio 2013 la Corte d’Appello ha respinto in secondo grado l’ipotesi di omicidio volontario, condannando gli imputati – stavolta per omicidio colposo – a pene comprese tra 7 e 10 anni. L’anno successivo la Cassazione dichiara accertato il rato ma rinvia gli atti a Torino perché le pene vengano rideterminate. Il 29 maggio 2015 la Corte d’Appello di Torino emette una nuova sentenza, quella che ora è all’esame della Cassazione.

Lo stabilimento di Torino della ThyssenKrupp non esiste più. È stato chiuso nel marzo del 2008 con un accordo tra la ThyssenKrupp, i sindacati, le istituzioni locali e i ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, in anticipo sulla data prevista.


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2 Commenti


  • Gigliola Donadio

    Ho scovato questo articolo pubblicato in tempi non sospetti ovvero nel 2013 che parla (paragrafo titolato Wolters Kluwer e gli altri) del sostituto procuratore di Cassa zione,tal Paola Filippi, che ha inopinatamente richiesto l’annullamento delle condanne per tutti e sei gli imputati, al fine di istruire un terzo processo per rideterminare le pene e per rivalutare il NO alle attenuanti per 4 degli imputati.
    E’ molto illuminante sul soggetto e sugli interessi per cui opera.
    ://www.lanotiziagiornale.it/abbuffata-di-incarichicosi-il-giudice-non-ce-mai/


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