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Roma. Chiesto rinvio a giudizio per Raggi. Ma l’attenzione è sul dito, non sulla Luna

La notizia della richiesta di rinvio a giudizio della sindaca Raggi è piombata sullo scenario politico. Ampiamente previsto, almeno da quello che si è visto e sentito in giornali e telegiornali, è il ricorso sistematico al doppio standard. Non solo. Il connubio micidiale giustizialismo-moralismo, che da troppi anni ipoteca la politica, continua a seminare danni e miopie.

I fatti adesso sono noti a tutti. La magistratura ha ritenuto di aver prove sufficienti per portare a processo la sindaca di Roma per il reato di falso ideologico ma non per abuso d’ufficio. Il reato è legato alla vicenda delle discusse nomine dei dirigenti comunali, in particolare quella del fratello del dominus Raffaele Marra finito in carcere per un’altra inchiesta.

Qualcuno, soprattutto nel mondo M5S, fa notare che due settimane fa anche per il sindaco di Milano, Sala, è stato chiesto il rinvio a giudizio per falso ideologico e materiale relativamente agli atti amministrativi sulle aree dell’Expo, ma che la notizia ha avuto una enfasi incommensurabilmente inferiore a quella della sindaca di Roma. E su questo la denuncia di uno strumentale “doppio standard” ci sta tutta.

Ma ci sta tutta anche l’accusa ai M5S di utilizzare un doppio standard: implacabili sulle vicende giudiziarie degli altri, indulgenti con le proprie, venendo meno ad una narrazione giustizialista sull’onestà sulla quale è stato costruito il progetto e l’immagine stessa del M5S.

Nella giornata di ieri, è stato tutto un incrociarsi di accuse reciproche tra M5S e Pd proprio in base al doppio standard utilizzato. Soprattutto perché nella stessa giornata c’è stata la notizia del rinvio a giudizio di 12 consiglieri regionali del Pd del Lazio per un uso improprio dei fondi del gruppo regionale.

Messa così la vicenda appare una fiera della strumentalità caratteristica dello scontro tra partiti, soprattutto alla vigilia di una campagna elettorale “a tre poli” che lascia aperte tutte le incognite possibili sulla formazione di un nuovo governo.

Ci sembra invece che almeno due dati andrebbero tirati fuori da questa vicenda e collocati sul terreno giusto.

1) E’ tempo che tutti coloro che assumono o intendono assumere responsabilità di governo – soprattutto sul piano locale – siano consapevoli che un “inciampo giudiziario” nell’esercizio delle loro funzione è quantomeno inevitabile, sia per la tortuosità delle leggi vigenti, sia per l’incompetenza soggettiva e oggettiva della “politica” a districarsi nella macchina amministrativa in mano ai dirigenti che ne conoscono tutti i dettagli dove può nascondersi il diavolo. Questo gli assicura una rendita di posizione che solo una forte volontà politica può scalfire o scalzare

2) Se è vero che una amministrazione si deve caratterizzare proprio per l’indirizzo politico delle scelte che intende adottare, è inevitabile – anzi auspicabile – che la macchina amministrativa venga forzata sulla base delle priorità che si è deciso di realizzare. In caso contrario, ci si condanna nel migliore dei casi all’immobilismo, nel peggiore alla perpetuazione delle priorità e dei rapporti pre-esistenti al mandato di governo delle nuove amministrazioni. A Roma, la giunta Raggi è riuscita a impantanarsi in entrambi i casi: immobilismo e subalternità.

Ma l’immobilismo e la subalternità della giunta Raggi sono l’esatto contrario di quanto annunciato in campagna elettorale e delle aspettative generate tra gli abitanti di Roma che l’hanno votata in massa. Il “voto per vendetta” delle periferie della Capitale alla Raggi, invocava una discontinuità con il passato che non c’è stata nella sostanza e, alla luce del rinvio a giudizio, neanche nelle forme. La foglia di fico dell’onestà – alla luce dei dogmi giustizialisti – è caduta anch’essa a fronte degli atti della magistratura.

Ma è soprattutto sulle scelte strategiche su Roma che il deficit politico della giunta Raggi è diventato voragine. La vicenda dell’Atac, sulla quale il Comune si è lavato le mani affidandola ai commissari nominati dal tribunale due giorni fa, è stata l’ultima, manifesta, manifestazione di colpevole inanità di fronte ai verminai costruiti negli anni dai comitati d’affari prosperati nella città amministrata da centro-sinistra e centro-destra.

I “patti della vaccinara” o della “carbonara” con cui è stata spartita e spolpata Roma, non sono stati disdettati ma metabolizzati, come ha dimostrato la vicenda della cementificazione a Tor di Valle per il nuovo stadio della Roma o il nuovo patto stipulato con il boss dei rifiuti Cerroni. Invece di rottura e discontinuità si è ritornati all’urbanistica e alla gestione rifiuti contrattata.

Sullo sfondo c’è poi l’emergenza abitativa e delle periferie sulla quale finora si è balbettato e, quando la giunta Raggi si è dovuta posizionare politicamente, ci si è appiattiti su una logica della legalità del tutto decontestualizzata dalla situazione di impoverimento, disperazione, esigenze materiali di migliaia e migliaia di famiglie che richiede scelte ben diverse e ben più decise, anche forzando le regole e affrontandone le conseguenze. In questo caso non sarebbe per aver dichiarato il falso sulla nomina di un dirigente ma per rispondere a esigenze sociali disattese da troppi anni e che meritano di diventare priorità per Roma. E’ questa la differenza con il passato, ma è proprio questa che è venuta a mancare. Lo sciopero cittadino di oggi – precettato dalla Prefettura, ostacolato dalla Questura, ignorato dalla giunta e dal consiglio comunale – è un grido d’allarme proprio su queste emergenze non più rimovibili.

 

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