C’è una legge di bilancio, ma non è ancora chiarissimo cosa contenga. Lo stesso presidente Mattarella ha confessato di averla firmata senza leggere (l’ha detto alla democristiana, ma questo ha detto) perché non c’era tempo, ma adesso “vigilerà” su quello che verrà messo in atto con la marea di decreti attuativi. Stessa parola usata da Pierre Moscovici, commissario Ue che non perde occasione per ricordare che Bruxelles ha lasciato un po’ di corda libera al governo gialloverde – nessuno è così matto da volere un tracollo dell’Italia in tempi stretti, da quelle parti – ma giusto intorno al collo. Qualcuno le chiama redini, e forse ha ragione…
Il “pacco” di carta su cui è scritta è il solito elenco telefonico di fine anno, che costringe anche le redazioni meglio attrezzate a dividerne la lettura tra diversi specialisti. Farne un quadro unitario, insomma, richiede tempo, ma qualcosa comincia a essere chiaro.
Intanto il quadro macroeconomico descritto dalla versione “bollinata” dalla Ue presenta numero radicalmente diversi da quelli sottoposti al finto dibattito in Parlamento. E se il quadro è diverso, lo sarà anche il contenuto, perché se hai accettato – e il governo l’ha accettato senza riserve – l’insieme di regole definito dai trattati europei, allora sai già che se la crescita sarà più bassa del previsto (il Pil atteso per il 2019 passa dal +1,5 all’1%) ti cambierà aritmeticamente anche il rapporto tra il deficit e il Pil, così come quello con il debito.
Diciamo che anche questa “crescita ridimensionata” è appesa a una speranza, perché il Pil italiano ed europeo è calato nel terzo trimestre 2018 (-0,1 in Italia, -0,2% in Germania, che ci fa da “traino” specie nel Nordest), e se la tendenza negativa dovesse essere confermata anche nel quarto saremmo ufficialmente in recessione (due trimestri consecutivi), con attese anche peggiori se si guarda allo scenario globale (rallenta persino la Vina, anche se al +6,5%).
Una volta che cambiano quei rapporti numerici (“i numerini”), cambia la quantità di spesa che il governo prometteva di destinare alle misure-simbolo (“quota 100” e “reddito di cittadinanza”). Che già hanno subito sforbiciate paurose dopo “l’esame” condotto da Moscovici e Dombrovskis. Per la precisione, 4,6 miliardi in meno, che costringeranno Salvini e Di Maio ai tempi supplementari della loro rissa per chi potrà intestarsi di aver “fatto!” meglio quel che aveva promesso.
Del resto, il valore nominale della manovra è passato da 38,2 a 31 miliardi, e basta una normale massaia a spiegare che, con 7,2 miliardi in meno, così farai la spesa tagliando su questo e quello.
Gli analisti specializzati stanno perciò rifacendo tutti i conti sulla base del nuovo testo e hanno scoperto, intanto, che non è cambiata soltanto la dimensione finanziaria della manovra, ma anche la sua struttura, ovvero il rapporto tra le diverse voci. Dal punto di vista confindustriale c’è grande allarme sugli investimenti pubblici (quelli provati si erano già fermati prima, con le avvisaglie di recessione), che con la nuova versione vengono drasticamente ridotti. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), 1,1 miliardi in meno dedicati a «investimenti e contributi agli investimenti». E dunque, senza dirlo, si riducono anche gli effetti attesi sulla “crescita”, in una catena di santantonio di effetti negativi a cascata (meo spesa, meno crescita, ma allora anche meno nuove spese e quindi ancor meno crescita, e così all’infinito).
Ci sono altri punti interrogativi pesanti sulle entrate attese da misure che saranno misurabili solo a consuntivo (dopo, insomma), come quelle dalle nuove tasse sui giochi d’azzardo e lotterie, web tax e crediti d’imposta, anch’esse “riformulate” da Bruxelles. Un miliardo e duecento milioni che balleranno per tutto l’anno.
Sullo sfondo resta l’incubo delle “clausole di salvaguardia” – ovvero l’aumento automatico dell’Iva e di altre tasse – che scatterebbero l’anno prossimo se il governo (quale? Questo o il prossimo?) non riuscirà a trovare altre spese da tagliare. Un vero incubo da 23 miliardi complessivi nel 2020 e quasi 29 miliardi nel 2021, con l’aliquota intermedia dell’Iva che passerebbe in quel caso dal 10 al 13% dal 2020, mentre l’aliquota ordinaria dal 22 al 25,2% nel 2020. Facile intuire la dimensione della “gelata sui consumi” che ne deriverebbe, con danni seri alle piccole e medie imprese che producono soprattutto per il mercato interno, all’occupazione e ai salari, già sotto il livello della sopravvivenza in molti coparti e contratti.
Tutto questo è economia. Ma anche sul piano politico e del mantenimento del consenso sociale i problemi si annunciano seri e immediati.
Con tutti quei miliardi in meno “quota 100” e reddito di cittadinanza diventeranno più difficili da presentare come “grandi svolte”; e tantomeno come “abolizione della povertà”, come detto dopo la sceneggiata del “balcone”.
Sulle pensioni, si sa già che si dovrebbe vedere qualcosa di concreto solo il primo aprile (se non è uno scherzo…), risparmiando su un trimestre; che saranno ammessi solo i lavoratori 62enni con 38 anni di contributi, perché questo è il livello minimo per ritirarsi volontariamente dal lavoro; che ne saranno esclusi i lavoratori pubblici, almeno fino ad ottobre; e soprattutto che le penalizzazioni saranno fortissime, tali da scoraggiare l’uscita dal lavoro (perché con un assegno mensile più leggero del 30% non si può campare).
Per la maggioranza assoluta dei potenziali pensionandi, insomma, resta la Fornero. E resta così tanto che è scattato dal primo gennaio anche l’aumento dell’età pensionabile: cinque mesi in più per tutti, portando il limite di vecchiaia a 67 anni. Mentre per l’anzianità contributiva si sale a 43 anni e 3 mesi. In assenza del nuovo decreto sulle pensioni, infatti, la vecchia legge è ancora in vigore e deve essere applicata automaticamente. Dall’Inps, che (non) eroga materialmente gli assegni.
Come dite? Avevano promesso che avrebbero bloccato almeno questo? Beh, erano parole di politici in campagna elettorale, mica ci avevate creduto sul serio, dài…
Non è finita. Il decreto legge su “quota 100”, qualunque cosa ci sarà scritta dentro, non è stato ancora approvato dal Consiglio dei ministri. Forse ne discuteranno la prossima settimana, se non ci sono problemi o divisioni lo voteranno, passerà all’esame del Quirinale – che comincerà così ad applicare la “vigilanza” che ha promesso (ma che ha omesso nel caso del “decreto sicurezza”, non costoso ma egualmente incostituzionale) – e poi passerà in stampa sulla Gazzetta Ufficiale. Tra un mesetto, forse… Anzi, di più, perché come ogni decreto dovrà essere tradotto in circolari applicative da inviare all’Inps, che dovrà rendere edotti tutti i funzionari su come applicare le nuove norme. I più fortunati, insomma, potrebbero vedere la luce solo in estate.
Ma le complicazioni sono una marea. Per bloccare l’aumento dell’età pensionabile – ormai scattato – il decreto dovrà essere modificato in corsa, magari riducendo di 5 mesi l’adeguamento nel frattempo scattato. Così anche per i “precoci”, l’”opzione donna”, l’”Ape social” e tutti gli altri palliativi introdotti dai governi precedenti per alleviare l’insopportabilità della “Fornero” su alcune categorie di lavoratori (ma sempre con perdita per i lavoratori stessi).
Vi sembrano solo dettagli? Beh, provate a pensare al fatto che i lavoratori del settore privato che potrebbero usufruire della “quota 100”, per quanto ridotta a una trappola indegna, neanche possono presentare la domanda di pensionamento (che dovrà poi essere esaminata ed approvata dall’Inps).
Oggi è il primo giorno feriale del nuovo anno, ma per il governo gialloverde è cominciato il conto alla rovescia per il giorno in cui la marea di elettori poveri che hanno fin qui abbindolato con promesse e paure scoprirà che sotto il vestito c’è ben poco. O addirittura niente.
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Rosa Maria
E che dire dell’indicizzazione delle pensioni “lorde!” superiori ai 1500 euro…?