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Con le bombe su Belgrado moriva l’Europa e nasceva l’Unione Europea

Ieri a Bologna si è tenuto il convegno nazionale: “Le bombe sulla Jugoslavia venti anni dopo”, organizzato dal Coordinamento nazionale Jugoslavia presso il centro “Katia Bertasi”.

Particolarmente interessanti gli interventi della delegazione dei lavoratori della Zastava di Kragujevac sulla situazione sociale della Serbia e le condizioni capestro degli operai della grande fabbrica “acquisita” dalla Fiat, di Sergio Bellavita (Usb), del presidente del Forum di Belgrado Zivadin Jovanovic, dello studioso Michael Chossudovski, del responsabile esteri del Partito Socialista dei Lavoratori della Croazia, di Carlo Pona e Alberto Tarozzi attivi nel gruppo degli Scienziati contro la guerra.

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Pubblichiamo qui di seguito il contributo di Sergio Cararo al convegno a nome della redazione di Contropiano:

I bombardamenti delle potenze della Nato su Belgrado e la Federazione Jugoslava venti anni fa sono stati uno spartiacque nella storia europea più recente. La velocità con cui è stata rimossa quella guerra e il silenzio sul ventesimo anniversario,  confermano oggi quanta falsa coscienza e quanti scheletri ci siano nell’armadio delle forze liberali e progressiste europee che vorrebbero rappresentare l’alternativa alle forze reazionarie che vengono crescendo in Europa.

Con i bombardamenti  su Belgrado, una capitale europea, possiamo affermare con le parole dello scrittore Peter Handke, che “è morta l’Europa ed è nata l’Unione Europea”.

Ma quale è stata la colpa della Federazione Jugoslava alla quale per 78 giorni sono stati bombardate le città, le fabbriche come a Kraugujevac e Pancevo, i ponti sul Danubio, le ferrovie mentre transitavano i treni, con centinaia di morti, di feriti, di profughi che nessuno ha voluto vedere?

La residua Federazione Jugoslava agli occhi delle potenze imperialiste della Nato, tutte e nessuna esclusa, aveva la colpa di essersi opposta al processo di disgregazione e frammentazione che Germania e Usa avevano scatenato nei paesi dell’Europa dell’Est dopo la dissoluzione dell’Urss, e aveva la colpa di trovarsi in mezzo al “Grande Gioco” sui corridoi strategici tra Est e Ovest su cui si è combattuta una più di una guerra e su cui ancora oggi è in corso una durissima competizione globale.

Per avere una idea di come è stata brutalmente ridefinita la mappa del mondo in quell’area che i geopolitici chiamano Eurasia, dobbiamo sapere che fino al 1989 in quell’area a est di Gorizia per intenderci, c’erano solo 10 Stati riconosciuti dall’Onu. Oggi ce ne sono 32, quasi tutti riconosciuti dall’Onu e solo 11 hanno più di dieci milioni di abitanti. Ad eccezione della Russia si tratta in gran parte di piccoli Stati con scarso peso negoziale, con forza lavoro a basso costo ma istruita e qualificata (vedi il caso emblematico della Zastava denunciato in questo convegno), in condizioni di dipendenza economica dalle delocalizzazioni produttive e dagli investimenti esteri e, lì dove ce ne sono, sullo sfruttamento delle loro materie prime.

E’ noto come dopo la dissoluzione dell’Urss, soprattutto intorno al 1993 si sono riscatenati gli appetiti degli imperialismi, soprattutto da parte dagli Stati Uniti usciti vittoriosi dalla Guerra Fredda – ma in parte anche dalla Germania ormai riunificata – in tutta l’area che va dai Balcani all’Asia.

Gli obiettivi dichiarati erano:

  • Ridisegnare la mappa geopolitica
  • Mettere mano sulle risorse naturali (in particolare gas e petrolio) delle repubbliche ex sovietiche
  • Controllare i corridoi strategici, ossia una rete infrastrutturale fatta di pipelines, strade, porti, infrastrutture, che consentissero di far pervenire rapidamente queste risorse sui mercati più ricchi come l’Europa.
  • Tagliare fuori da questi corridoi Stati come la Russia e l’Iran, ma anche condizionare i partner europei sull’accesso alle risorse che si sono venute a trovare a disposizione.

In qualche modo questa strategia era stata indicata come vitale per il mantenimento dell’egemonia statunitense già nel 1992 con primo documento dei neocons statunitensi reso noto dal Washington Post (ripreso e ampliato nel 2000 con il Pnac, Project for New American Centuries) nel quale, dopo la sconfitta dell’Urss, si puntava a usare ogni mezzo affinchè in questa area non sorgesse mai più una potenza rivale capace di competere con gli Usa.

Questa strategia è stata definita ancora più nei dettagli da Zbignwew Brzezinski a metà degli anni Novanta con il suo libro “The Great Chessboard” (La Grande Scacchiera).

E’ emblematico che esattamente nello stesso periodo e con l’amministrazione Clinton, il Congresso Usa avesse discusso nel 1997 e approvato nel 1999 il “Silk Road Strategy Act”, ossia il Documento Strategico per la Via della Seta, ma in senso completamente opposto a quello perseguito oggi dalla Cina.

La Federazione Jugoslava è venuta a trovarsi proprio nel mezzo di tale ridefinizione e spartizione di questa parte del mondo. L’essersi opposta alla disgregazione, in una fase in cui la disgregazione degli Stati nell’Est veniva perseguita con determinazione da potenze imperialiste come Stati Uniti e Germania, l’ha resa colpevole e l’ha trasformata in un “Target” da abbattere, dividere ulteriormente, criminalizzare  e bombardare.

Alcuni articoli di Alberto Negri sui corridoi strategici nei Balcani, pubblicati sul quotidiano economico Il Sole 24 Ore, usciti durante le vacanze natalizie tra il 1998 e il 1999,  restano su questo aspetto illuminanti per capire le motivazioni dell’aggressione alla Jugoslavia.

E’ importante, anche se non c’è il tempo per approfondire, segnalare come tutto questo abbia influito sulla Russia allora soggetta ad una pesantissima crisi economica, sociale e perfino demografica (è stato l’unico paese a perdere popolazione non in tempo di guerra ma a causa di malattie, miseria etc.).

La Russia di Eltsin è stata uno zerbino e una terra di saccheggio per le multinazionali, gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Ma proprio l’aggressione alla Federazione Jugoslava nel 1999 ha funzionato da acceleratore per una controtendenza che portò ad un cambiamento di leadership.

La Russia non solo aveva subito le pesantissime conseguenze interne della dissoluzione dell’Urss, ma aveva visto esplodere gli orrori della guerra anche ai propri confini, ad esempio in Cecenia, una delle zone in cui transitano proprio quegli oleodotti diventati oggetto del Grande Gioco che doveva tagliare fuori la Russia dai corridoi strategici. Le due guerre in Cecenia sono state orrende, sia per i russi che per i ceceni. Dietro il secessionismo ceceno, così come quello kosovaro o bosniaco, abbiamo visto la longa manu non solo degli Usa ma anche quelle dell’Arabia Saudita e della Turchia che hanno agito in Bosnia, nel Kosovo, in Macedonia.

L’obiettivo dichiarato era quello di mettere fuori gioco i terminali petroliferi che convergevano nel porto russo di Novorossik sul Mar Nero, e imporre un tracciato per le nuove pipelines che doveva invece sfociare nel porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo. Inutile dire che quel tracciato passava anche sui territori abitati dai kurdi in Turchia e che quindi andavano “neutralizzati” con ogni mezzo.

L’onda lunga di quel conflitto ai confini della Russia è arrivato fino al 2008 ed ancora nel Caucaso (zona di passaggio delle pipelines provenienti dalle repubbliche asiatiche ex sovietiche), quando la Georgia si era sentita talmente forte e sostenuta dagli Stati Uniti da muovere guerra contro le due piccole repubbliche della Ossezia e dell’Abkhazia legate a Mosca. L’entrata in campo delle forze armate russe portò alla sconfitta della Georgia, la quale temendo per il suo futuro invocò l’art.5 della Nato in quanto partner e chiedendo alle potenze Nato di intervenire al suo fianco. Gli Usa si dissero disponibili, ma le potenze europee opposero un secco rifiuto evidenziando quella crisi della Nato diventata sempre più leggibile negli anni successivi. In sostanza le camere di compensazione degli interessi tra le varie potenze euroatlantiche, e con gli Stati Uniti come primus inter pares, cominciavano a non funzionare più come prima.

La dimostrazione che il mondo e i rapporti di forza sono cambiati venti anni dopo una guerra strategica come quella in Jugoslavia, sono leggibili da fatti che dimostrano come i peggiori incubi dei neconservatori statunitensi si stiano avverando: la non riuscita destabilizzazione della Siria, lo stallo della situazione in Ucraina, la tenuta del Venezuela ed infine il progetto della Via della Seta cinese tra l’Asia e l’Europa, in direzione e con interessi esattamente contrari a quelli del Silk Road Strategy Act degli Stati Uniti, sono lì a dimostrarlo. Gli Stati Uniti vivono una crisi della loro egemonia globale. Ciò li rende più deboli ma non per questo meno pericolosi.

Ma dobbiamo anche dirci che la disgregazione della Jugoslavia prima e l’aggressione NATO alla Federazione Jugoslava poi, non è un crimine che possiamo addossare solo agli Stati Uniti.

Per molti aspetti, come dicevamo all’inizio, i bombardamenti sulla Serbia del 1999 sono stati quasi un atto costitutivo della nuova fase dell’Unione Europea del XXI Secolo, esattamente come lo era stata la richiesta tedesca di riconoscimento unilaterale della secessione di Slovenia e Croazia mentre si discuteva l’approvazione del Trattato di Maastricht nel 1992.

Sappiamo tutti che i bombardamenti su Belgrado erano in preparazione almeno dal 1998 (la strage del Cermis è lì a testimoniare l’addestramento degli aerei militari statunitensi della base di Aviano ai voli a bassa quota). In Italia il primo ministro Prodi aveva dato l’activaction order nelle basi Nato presenti nel nostro paese già ad ottobre del 1998.

La farsa del Gruppo di Contatto e del negoziato di Rambouillet sul Kosovo,  ha visto pienamente coprotagonisti anche Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna e non solo gli Usa. Quando si è capito che Washington avrebbe dato via all’escalation, nessuna potenza europea si è chiamata fuori, anche se gli Stati europei coinvolti erano tutti governati da forze progressiste, socialdemocratiche e di centro-sinistra: Blair, Jospin, Schroeder, D’Alema. Sono state proprio queste forze ad aver elaborato e gestito nelle proprie società e tra i  militanti della sinistra la tesi della “guerra umanitaria”, della guerra come “dolorosa necessità”, ad aver alimentato e gestito la manipolazione mediatica e la disinformazione consapevole, finanche le operazioni di aiuto umanitario che hanno portato più benefici economici alle Ong e alle associazioni impegnate nella Missione Arcobaleno che alle popolazioni della Jugoslavia. Sono stati aiuti umanitari che hanno esplicitamente discriminato i più 600.000 profughi serbi fuggiti dalle Krajine e dalla Bosnia prima e dal Kosovo poi e presi in carico da un paese – la Serbia – sottoposta già a sanzioni economiche e poi ai bombardamenti.

Non c’è stato solo l’uso delle basi militari ma anche i bombardieri inglesi, francesi, italiani e tedeschi (per la prima volta dalla seconda guerra mondiale) hanno partecipato attivamente agli attacchi sulla Serbia e il Kosovo insieme a quelli statunitensi.

Sono state scelte gravissime che non dobbiamo e non vogliamo dimenticare, sono state, appunto, uno spartiacque politico, storico, strategico e se volete, anche morale che rimane valido tutt’oggi.

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