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La crisi di governo c’è, la soluzione no

La politica italiana è ormai un gioco a somma zero. Leader provvisori salgono e scendono a velocità folle, bruciando come cerini in un paio d’anni. E’ andata così per Renzi, poi per Di Maio, ora è il momento top di Salvini.

Ma non è detto che duri molto. Chi osserva il gioco della politica con occhiali solo nazionali è destinato a rimanere sorpreso di continuo.

Vediamo le ultime novità. Il Senato ha bocciato la mozione dei Cinque Stelle sul Tav in Val Susa, e approvato tutte quelle “sì Tav” (presentate da Lega, Pd, meloniani e – fu – berlusconiani). Il governo si è dunque clamorosamente spaccato, è emersa una diversa “maggioranza di scopo”, che non si tradurrà per ora in una alleanza esplicita solo perché i rispettivi elettorati potrebbero avere qualche stranguglione di troppo nel vedere insieme leghisti e piddini, fratellini italici e frattaglie del Cavaliere.

Ma basta sapere che in caso di problemi, queste forze potrebbero far fronte comune “sulle cose da fare”.

I Cinque Stelle si sono ritrovati per un giorno nel vecchio ruolo “anti-sistema”, soli contro tutti. Ma è stata una recita disperata che precede di poco la capitolazione. Se questa avverrà davanti a Salvini o nelle urne, è solo questione di tempo.

Presentare una mozione No Tav, dopo che il presidente del consiglio da loro scelto aveva garantito la realizzazione della “grande opera inutile”, era una via di fuga per cercare di mantenere un qualche coerenza agli occhi di un elettorato in fuga (durissimo il Movimento No Tav, che pure aveva dato qualche credito al M5S). Salvare la faccia, insomma, senza rischiare la tenuta del governo.

Fatalmente, è stato l’esatto opposto. Tutti i partiti politici che si contendono il favore del “partito degli affari” hanno colto l’occasione per affossare definitivamente l’unica opzione sedicente “alternativa” presente in Parlamento.

Per la Lega si trattava solo di tradurre l’occasione in guadagno. E così Salvini ha visto Conte (non Di Maio) per pretendere – secondo voci piuttosto unanimi – un rimpasto radicale, defenestrando Toninelli, Tria e Trenta. Ovvero il ministro delle infrastrutture, quello dell’economia e il titolare della Difesa. In pratica, il rovesciamento dei rapporti di forza interni al governo per adeguarli alla differenze “pesistica” sancita dalle elezioni europee, dove Lega e Cinque Stelle si sono scambiati i ruoli rispetto al marzo 2018 (vi ricordate il 4 marzo? Pare passato un secolo…).

Il governo Conte è dunque finito, in ogni caso. Restano in campo solo due ipotesi. a) Un Conte 2, dove sarebbe la Lega a dettare l’agenda di governo e scegliere i ministri-chiave; a) le dimissioni dell’esecutivo.

La crisi è insomma aperta, si tratta di vedere se e chi riuscirà a pilotarla verso un esito non devastante.

In teoria a Salvini servirebbero elezioni anticipate per incassare e tradurre in parlamentari quel consenso garantito dai sondaggi, prima che cominci a calare (ci vuol poco, ripetiamo, da qualche anno a questa parte). E i Cinque Stelle vedono una simile soluzione come la fine del movimento, non solo delle “carriere” di quasi tutto il gruppo dirigente (a cominciare ovviamente da Di Maio, rivelatosi un dilettante traffichino, alla ricerca costante della mediazione al ribasso, più che un “generale” adatto alla battaglia).

Ma nessuno può giurare che le elezioni siano effettivamente possibili. La cabina di pilotaggio è infatti costituzionalmente nelle mani di Sergio Mattarella. E le scadenze di fine anno – una legge di stabilità da stilare sotto il controllo diretto e non benevolo dell’Unione Europea, con tanto di “lacrime e sangue” conteggiabili in almeno 40miliardi di euro – richiedono che a Palazzo Chigi ci sia un esecutivo nel pieno delle sue funzioni.

Dunque, o questo governo va avanti “rimpastando” poltrone, pesi specifici, priorità di programma, oppure le sue dimissioni potrebbero tradursi in un classico governo tecnico incaricato di traghettare il paese oltre le colonne d’Ercole del capodanno (data di scadenza per approvare la manovra, evitando così l’”esercizio provvisorio” e l’aumento automatico di tute le aliquote Iva).

Una eventualità che toglierebbe a Salvini il megafono propagandistico del ministero degli interni e del vice-premierato, riportandolo al ruolo di un oppositore sbraitante con pochi parlamentari da manovrare.

Per questo, nonostante gli sia stata servita la crisi di governo su un piatto d’argento, preferisce una classica “trattativa da Prima Repubblica”, evitando il rischio di restare col grido di vittoria strozzato in gola. Esperienza che potrebbe fare a breve sul tavolo europeo, se il suo candidato a Commissario per l’agricoltura – l’attuale ministro Centinaio – dovesse essere impallinato dal Parlamento di Strasburgo.

D’altra parte, questa settimana è in pratica a disposizione l’ultima per decidere cosa fare. E c’è la non piccola complicazione che le Camere sono da ieri ufficialmente chiuse per vacanza. Dunque non sarebbe possibile – o facile – “formalizzare” la crisi con un voto parlamentare di sfiducia. E anche se Conte consegnasse spontaneamente le dimissioni al Presidente della Repubblica, resterebbe comunque in carica fino a settembre per l’”ordinaria amministrazione”.

A quel punto, però, i tempi per andare al voto anticipato sarebbe scaduti, perché almeno un paio di mesi sarebbero necessari (anche tralasciando altre piccole complicazioni come l’ultimo passaggio parlamentare della riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari – cadrebbe nel dimenticatoio, così come il conseguente “ridisegno dei collegi elettorali”), e il nuovo governo si insedierebbe a Palazzo Chigi come minimo in dicembre.

Dunque senza il tempo di fare la legge di stabilità.

Più logico, dunque, “rimpastare e comandare”.

Il pallino, in apparenza, è ora in mano ai Cinque Stelle, che devono decidere se mollare tutto e comportarsi d’ora in poi come semplici votanti delle leggi che la Lega propone, mettendo fine alla propria breve storia. Oppure far saltare il governo con un grido di battaglia, sperando che effettivamente Mattarella piloti la crisi verso un esecutivo “tecnico” sostenuto da tutto il Parlamento (meno la Lega e Fratelli d’Italia, forse).

Un gioco a somma zero, come detto all’inizio. Del resto, da quasi 30 anni a questa parte, la normale attività politica interna ai singoli paesi del Vecchio Continente si svolge dentro la cornice (o la gabbia) della governance europea. Senza alcuna autonomia di scelte per quanto riguarda le “questioni vere” (economia, fisco, gestione della spesa pubblica, regole di mercato, mercato del lavoro, ecc), e briglie invece quasi sciolte per la minutaglia (ordine pubblico, gestione dell’immigrazione, libertà civili, ecc).

Mentre la condizione di vita della stragrande maggioranza della popolazione peggiora costantemente (al massimo con qualche palliativo temporaneo, come reddito di cittadinanza e quota 100), gli aspiranti “leader” sono costretti a una campagna elettorale permanente condotta a suon di promesse mirabolanti e “costruzione del nemico” su cui far convergere lo scontento popolare.

I Cinque Stelle avevano trovato il nemico nei “costi della politica” e la corruzione dilagante (non solo nella politica). La Lega l’ha fatta ancora più facile, criminalizzando migranti, “zingari”, Ong vere e “zecche dei centri sociali”.

E il nemico vero dei popoli, intanto, se la ride dall’alto dei grattacieli di Bruxelles, Francoforte o New York…

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1 Commento


  • Paolo De Marco

    Il ciclo neoliberale monetarista della interdipendenza asimmetrica con la sua public policy di tagli alle spese pubbliche ed ai redditi dei lavoratori è ormai conclusa come segnalato dalla guerra commerciale-monetaria di Trump. Rimane la pericolosa narrazione monetarista ora spostata da Blanchard-Summers et al. (2019), verso la disastrosa politica di tassi di interessi bassi (vedi http://rivincitasociale.altervista.org/notes-de-lecture-dun-rapport-sur-la-productivite-et-la-competitivite-entendues-de-maniere-marginaliste-28-29-juillet-2019/ ) Questa scelta apparentemente flessibile consiste solo a dare più corda ai paesi mal ridotti come il nostro per privatizzare tutto quello che rimane da privatizzare continuando a rispettare il sentiero di consolidazione fiscale.

    Questi cambiamenti sono ignorati dal mondo politico peninsulare. Manca una alternativa politica centrata sulla riabilitazione del « reddito globale netto » dei focolari – incluso dunque il salario differito – e sopra una nuova definizione dell’anti-dumping (Vedi Appello in http://rivincitasociale.altervista.org )

    Salvini-Bannon credono di potere spaccare la-zona euro – 22 % delle riserve mondiali che riducono la supremazia del dollaro US. Perciò aprono la crisi di governo per rafforzarsi cancellando la destra del M5S. Il PD è ancorato su i suoi vecchi tradimenti di classe neoliberali monetaristi e sopratutto spinelliani atlantisti. A sinistra non si fa nemmeno più la differenza tra autonomie amministrative e devolution federale. Questa ultima distrugge le norme nazionali – in particolari i LEP – e la fiscalità nazionale – residuo fiscale ecc – senza nemmeno badare che la privatizzazione della raccolta dell’entrate fiscali ci costa attorno a 7 miliardi di euro annui. La sinistra non sa nemmeno precisare quali siano le grandi opere utili al Paese. Cioè ,quelle necessarie per assicurare l’inserzione di alto livello dell’Italia nei flussi di produzione e di scambio, nel rispetto dell’ecomarismo. E quelli necessari per collegare il Meridione al resto della UE come il Corridoi 1 o il collegamento ferroviario di Gioia Tauro.

    Con una tale confusione, il meglio sarebbe di disinnescare la strategia Bannon and Cie con un governo tecnico di 6 mesi per dare il tempo al mondo politico di riorganizzarsi per presentare reali alternative adatte ai mutamenti nazionali, europei e globali attuali. Altrimenti, si perpetuerà la confusione con la conseguenza del nostro inesorabile declino, incluso demografico. Altro che sovranità …
    Paolo De Marco

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