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La guerra dei Mari si combatte anche sui fondali

Ad agosto sono circolate due interessanti analisi su quella che ormai si configura come “la guerra degli Oceani”, in particolare tra Stati Uniti e Cina.

La prima è il documento elaborato da un think thank australiano – lo United States Studies Center (USCS) – secondo cui “Gli Stati Uniti non sono più la potenza egemone nell’area Indo-Pacifico, a fronte di una Cina sempre più assertiva ed efficiente, e per mantenere un grip sulla regione dovrebbe incrementare le capacità di difesa collettiva con i suoi alleati regionali, a partire dal Giappone e dall’Australia”.

Secondo l’Uscs, “La Forza congiunta Usa – cioè la forza combinata dei suoi cinque servizi militari – non ha più le risorse, la struttura, la leva tecnologica o i contatti operativi per assolvere pienamente i suoi impegni globali”, si legge nel rapporto. “La sua capacità di trovare equilibri regionali di potere favorevoli – continua – che disincentivino le grandi potenze sfidanti è sempre più in dubbio”.  Il rapporto prosegue sottolineando come “Pechino ha talmente rafforzato i suoi sistemi anti-intervento Usa, da essere in grado di utilizzare una forza limitata per imporre dei fatti compiuti prima che gli Usa possano rispondere. Questa situazione potrebbe essere “devastante” per l’equilibrio di poteri nell’Indo-Pacifico e “per la stabilità della rete di alleanze americana”. In particolare, la politica di proiezione cinese, che punta a costruire una catena insulare di difesa, in una crisi, potrebbe portare Pechino a occupare le isole Ryukyu, che sono territorio giapponese, che darebbe alle forze cinesi un enorme vantaggio, da un punto di vista militare”.

La seconda analisi è il ponderoso volume di Limes n.7 del 2019, dedicato alla “Gerarchia delle onde” e nel quale si esamina, dal punto di vista storico e strategico, lo stato del controllo e della competizione negli Oceani. Secondo gli analisti di Limes, gli Stati Uniti avrebbero ancora la supremazia sui mari, ma essa sarebbe sempre più rimessa in discussione, soprattutto dalla Cina.

Oggi come ieri, il controllo dei mari è stata la cifra dell’imperialismo. Dopo il declino dell’imperialismo britannico, dal dopoguerra in poi l’egemonia mondiale è passata nelle mani degli Stati Uniti attraverso le loro flotte dislocate in tutti i mari, incluso il Mediterraneo.

Ma in questa competizione strategica sui Mari, un fattore decisivo non è solo quanto avviene in superficie ma anche quanto accade sui fondali, dove ormai passano centinaia di cavi sottomarini strategici per il sistema internazionale delle comunicazioni.

Sul fondo degli oceani e dei mari sono in funzione circa 378 cavi sottomarini per le comunicazioni che raggiungono una lunghezza complessiva di oltre 1,2 milioni di chilometri. Il Sole 24 Ore in un ampio servizio ricostruisce la “guerra” che si va combattendo, in particolare tra Usa e Cina, sulle infrastrutture strategiche sui fondali marini.

L’Information Technology & Innovation fundation (Itif) sottolinea come il 99% del traffico internazionale di dati e voce passi, proprio attraverso le fibre ottiche sottomarine. Tra il 2019 e il 2021 sono previsti più di 50 progetti di nuovi cavi; ma la domanda sta crescendo a causa della digitalizzazione dell’economia. Il mercato dei “submarine cable” dovrebbe raggiungere il valore di 30,8 miliardi di dollari nel 2026 (contro i 10,3 miliardi del 2017).

Ma in quali quadranti si combatte la nuova guerra fredda? Asia e Pacifico innanzitutto. E qui le indicazioni dello Stato (Usa) vanno spesso in contrasto con gli interessi delle multinazionali. Il Wall Street Journal, riferisce un comitato guidato dal Dipartimento della Giustizia statunitense ha chiesto di bloccare il Pacific Light Cable Network. Si tratta di un cavo sottomarino di circa 12.900 chilometri, che coinvolge Google, Facebook e un partner cinese, e che dovrebbe collegare direttamente Los Angeles ad Hong Kong. La motivazione avanzata degli apparati Usa è la tutela della sicurezza nazionale. Eppure in passato lo stesso comitato aveva approvato diversi cavi sotterranei, sia in collegamento diretto con la Cina sia con operatori delle comunicazioni controllati da Pechino. Se si arrivasse a fermare questa infrastruttura per ragioni di sicurezza, secondo il Wall Street Journal, sarebbe la prima volta che, con questa motivazione, viene negata una licenza per un cavo sottomarino. Un segnale, secondo il Sole 24 Ore, che “oltre alla concorrenza sempre più serrata tra i diversi attori, lo scontro tra Usa e Cina aumenta d’intensità”.

Non sarebbe però la prima volta. Nel 2018 era stato bloccato un progetto di Huawei Marine per un collegamento sottomarino tra Sydney e le Isole Salomone. L’intesa tra il Governo di quest’ultime e Huawei Marine risaliva al 2016. Ma il governo australiano – alleato di ferro degli Usa e inserito nel Blocco dei Cinque, ha fermato l’operazione assumendosene gli oneri. L’Australia fa parte infatti dei “Five eyes”, ossia il coordinamento di intelligence sulla sicurezza che ha realizzato il sistema Echelon e che comprende anche Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda ma soprattutto gli Usa.

L’altro progetto di cavo sottomarino strategico in cantiere è il Pakistan & East Africa connecting Europe, che compone un significativo acrostico “Peace”. L’entrata in funzione di questo cavo è prevista per il prossimo anno, coinvolgendo società cinesi come Huawei Marine ed altre realtà della galassia di Hengton, e sarebbe un asse strategico per il progetto della “Via della Seta”. La fibra infatti parte dal Pakistan e, dopo vari punti d’approdo in Kenya, Gibuti ed Egitto, tramite il Canale di Suez entrerebbe nel Mediterraneo per arrivare a Marsiglia.

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