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Banca d’Italia, Mes e la Sindrome di Stoccolma

Due giorni fa si è consumato a Montecitorio e a Palazzo Madama il tanto agognato “passaggio democratico” sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, con il premier Conte che ha raccolto due esiti favorevoli alla linea della maggioranza, ossia di approvazione della risoluzione in oggetto alle camere.

Tuttavia, nelle ultime settimane questa riforma ha sollecitato moltissimi dubbi (eufemismo) anche in alcune figure istituzionali che fino a oggi si erano espresse sempre in favore degli interessi legati al processo di integrazione europeo.

Come dire, se anche il “fedelissimo di turno” storce il naso rispetto alle scelte del “capo”, qualche magagna ci deve pur essere, magari il capo la sta sparando troppo grossa, anche rispetto alle solite – e non che riforme come il Fiscal compact, il Six e il Two pack, o il Trattato di Maastricht stesso ci fossero andati cauti rispetto all’ingerenza sul quadro nazionale.

Così non è stato però per la Banca d’Italia. Infatti, proprio nella giornata dell’informativa di Conte al Parlamento e al Senato, Palazzo Koch ha inviato ai suoi follower un link che rimandava alla spiegazione, secondo l’istituto, di cosa effettivamente fosse la riforma del Mes. Per dovere di cronaca, non sappiamo se la pagina fosse già online nei giorni precedenti, in quanto la data di upload non è indicata; ma se anche fosse, sarebbe comunque interessante la scelta di quella mattina per la sua divulgazione tramite Rss.

Cosa ci dice la Banca d’Italia? Sostanzialmente, fa opera di moderazione degli animi dinanzi alle crescenti preoccupazioni che la riforma sta suscitando nel paese. Lo fa, come sempre, con spirito accademico e grande chiarezza nell’esposizione, sintomo di perfetta padronanza dell’ambito in cui si inscrive il fenomeno – ebbene sì, la ricerca italiana produce ancora grandi eccellenze, spesso però o subordinate all’ideologia dominante, o emigrate per vedere remunerate le loro competenze.

Sembra addirittura una candida ricostruzione quando, a distanza di poche righe, afferma che il Mes è stato istituito «al di fuori del quadro giuridico della Ue» e che il suo Consiglio «può operare a maggioranza qualificata dell’85 per cento del capitale qualora, in caso di minaccia per la stabilità finanziaria ed economica dell’area dell’euro, la Commissione europea e la Bce richiedano l’assunzione di decisioni urgenti in materia di assistenza finanziaria». Ossia, in caso di “minaccia alla stabilità finanziaria ed economica” (nostro malgrado, il vero spettro di questo inizio millennio), un Consiglio non direttamente eletto svolgerà un ruolo decisivo per le sorti del paese, e perciò della sua popolazione, interessato dalla richiesta di prestito.

Tuttavia, la funzione politica apparentemente celata dietro la sapienza “tecnica” emerge nelle nove risposte ad altrettante domande che seguono l’informativa della pagina, singolarmente inserita nella sezione “È vero che?”. Le domande sono, per esempio, «È vero che il Mes non serve all’Italia e che anzi addirittura la danneggia?», oppure «È vero che la riforma del Mes implicherebbe una ristrutturazione automatica del debito (…)?», «È vero che la riforma del Mes aumenta la probabilità di un default sovrano?», ecc.

Non entreremo nello specifico di tutte le risposte, ma vorremmo fornirvi una “guida generale” alla lettura: di base, se la Banca d’Italia risponde «No», l’effetto negato non è direttamente imputabile alla riforma, ma la riforma ne innesta la logica, lasciando ai mercati il compito di fare il loro mestiere, ossia accumulare ricchezza a discapito (da qui non se ne esce) di qualcun’altro. Quando invece propone una risposta più articolata, la Banca mira a sottostimare l’impatto della riforma rispetto al già esistente. Come a dire, se il problema esiste, non è certo una novità di oggi.

Esempio: «È vero che il Governatore Visco ha definito un “enorme rischio” la riforma? No, il Governatore ha sostenuto che l’introduzione di un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano (Debt Restructuring Mechanism) comporterebbe un rischio enorme». Ma se il Mes, sulla scia del modus operandi del Fmi, prevede delle riforme strutturali all’economia di quel paese che, irrispettoso del famigerato parametro del 60% nel rapporto debito pubblico/Pil, facesse richiesta di un prestito finanziario senza superare l’esame di sostenibilità del debito, allora queste riforme sarebbero la conseguenza della logica prevista nel Meccanismo stesso. Un «enorme rischio»? Ebbene sì, stavolta per il sistema-paese tutto, non solo per lavoratori, studenti, pensionati, ecc.

Moderazione a parte, non si capisce per quale “dovere istituzionale” la Banca d’Italia fa opera di mascheramento di una realtà che potrebbe davvero, crediamo senza spiriti apocalittici, rivelarsi una pietra tombale per le future generazioni di questo paese. Non che la ricchezza generata dall’espropriazione capitalistica altrui sia una bandiera da difendere, ma non è attraverso un salto indietro nella storia dello sviluppo di un paese che si garantisce la transizione verso una società senza diseguaglianze (con questo, non pensiamo che ciò sia un obiettivo dell’attuale dirigenza).

Che sia allora affetta dalla Sindrome di Stoccolma, quello stato psicologico secondo cui la vittima sviluppa un rapporto di complicità con il suo carnefice (rapitore, nello specifico)?

Provocazioni a parte, i dati dell’Istat sulla produzione di ottobre (-2,4% su ottobre 2018, stima di una flessione dello 0,3 sul mese precedente) e quelli di Unioncamere e Anpal sulla domanda di lavoro delle imprese (18mila i contratti in meno previsti rispetto a dicembre dello scorso anno, -5,7%, oltre 47mila in meno rispetto al mese precedente, -13,7%), curiosamente resi pubblici nella stesso giorno, sono invece l’ennesima testimonianza del piano inclinato su cui sta lentamente scivolando il nostro sistema.

Un’ultima curiosità: la domanda numero 7 recita: «È vero che con la riforma l’Italia dovrà versare al Mes ulteriori fondi? No, il capitale del Mes è invariato, così come le regole che ne governano l’eventuale versamento».

L’Italia ha sottoscritto il capitale del Meccanismo per 125 miliardi su 704 totali (ad oggi, ne ha versati 14). Il diritto di voto di ogni membro del Consiglio è proporzionato al capitale sottoscritto dai rispettive paesi. Così, Germania, Francia e Italia partecipano per una quota superiore al 15 per cento del capitale totale, e potrebbero quindi porre il loro veto sulle decisioni prese in condizioni di urgenza (che devono raggiungere, come detto in apertura, l’85% della maggioranza).

Se sentissimo in futuro delle proposte di riforma su questo punto del Mes, sapremmo probabilmente a cosa mirerebbero. Se invece un giorno il governo italiano votasse a favore “contro di sé” per l’attuazione del Meccanismo, saremmo alla capitolazione totale, non solo economica, ma ideologica. Com’era la storia della Sindrome?

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