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Perché le Regioni rappresentano il “vincolo interno” del capitalismo italiano

La magistratura ligure, sollevando la pietra sotto la quale si nascondevano i meccanismi corruttivi che permettevano ogni sorta di malversazioni a quella tribù di roditori delle finanze regionali che comprende autorità pubbliche, imprenditori privati e organizzazioni mafiose, ha messo a nudo, come era già accaduto nel 2015 con l’amministrazione di centro-sinistra presieduta da Burlando, ma ora su scala ben maggiore, quel verminaio di corrotti e di corruttori che si è formato, sotto le due presidenze di Toti, con l’attuale amministrazione di destra.

Sennonché occorre riconoscere che uno degli errori più grossolani che ha commesso il blocco dominante negli ultimi vent’anni è stato la riforma del Titolo V della Costituzione.

Le conseguenze sono state micidiali: la politica energetica, industriale e delle infrastrutture, nonché le sovvenzioni alle imprese sono passate sotto le Regioni, non solo dando spazio a quei meccanismi ma provocando anche una frammentazione deleteria. A ciò si aggiunga la formazione professionale, la spesa sanitaria e la politica agraria, che sono state anch’esse regionalizzate.

Basti pensare all’esiguità del bilancio dell’Enit, ente di promozione all’estero del turismo italiano, e alle difficoltà incontrate dal governo nel sostenere le spese di promozione delle aziende manifatturiere all’estero, difficoltà che traggono origine dalla soppressione dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero, voluta – è bene ricordarlo – da Berlusconi.

Occorre, dunque, denaro sonante. Dove trovarlo? Lo si trova in quello spazio intermedio tra profitti e salari che è composto da milioni di persone che in parte vivono della intermediazione parassitaria sulla spesa pubblica, alimentata in questi decenni da tutti i partiti, e in parte hanno trovato una comoda nicchia nello spazio del capitale commerciale.

Nello specifico, il settore edile – sia diretto che indotto – con il mezzo milione di persone che vi lavorano, costituisce un serbatoio importante per quella mostruosa sanguisuga che è la rendita immobiliare, destinata nei prossimi anni a subire un drastico sgonfiamento, cioè un poderoso processo di svalorizzazione del capitale.

Basti pensare, in ordine all’intreccio perverso tra la rendita e il profitto, che nel nostro paese 2/3 dei profitti industriali si sono trasformati in rendita immobiliare, mentre una quantità minima è stata investita in macchinari e ammodernamento di impianti.

Accade così che, nel quadro di un conflitto sempre più aspro tra le frazioni del capitale industriale e le frazioni del capitale commerciale, ossia tra i profitti e la rendita (conflitto acuito dalla crisi di sovrapproduzione e dalla caduta del saggio medio di profitto), viene spazzato via, senza tanti complimenti, un bel gruppo di industriali e banchieri che in questi anni hanno giocato d’azzardo nella gestione del capitale commerciale.

Si tratta di un chiaro esempio di lotta di classe all’interno del mondo capitalistico. Affinché questa lotta sia portata avanti occorre però che una parte della popolazione sia proletarizzata e, soprattutto, che diminuisca fortemente la spesa per il mantenimento di strutture improduttive e parassitarie, dal punto di vista capitalistico, quali possono essere, e sono in molti casi, le Regioni.

Del resto, uno degli scopi (se non lo scopo fondamentale) a cui deve servire la legge sull’autonomia differenziata è proprio questo: diminuire quelle che Marx definiva le “faux frais” della circolazione capitalistica, ossia le spese accessorie impreviste in cui rientrano anche i “costi della corruzione”, e rilanciare l’accumulazione capitalistica ristagnante per via degli eventi bellici, della contesa mondiale in corso e di un debito pubblico gigantesco.

Le banche e le imprese sono quindi i vettori di un poderoso processo di centralizzazione capitalistica finalizzato a spostare masse enormi di capitale utili al rilancio dei processi di accumulazione capitalistica.

Queste forze capitalistiche hanno già ottenuto l’abbattimento dei costi di riproduzione della forza-lavoro e il ristabilimento dell’esercito industriale di riserva, ma adesso occorre una centralizzazione dei processi decisionali e delle risorse pubbliche, finalizzata all’abbattimento degli oneri fiscali e a spese in conto capitale per aumentare la produttività totale dei fattori produttivi, oltre che masse di capitali necessarie per la penetrazione nei mercati mondiali (si pensi al divario fra ambizioni espansioniste e risorse disponibili, che caratterizza il cosiddetto “piano Mattei” tanto pubblicizzato dal governo Meloni).

In sostanza, è la fine del progetto di Bassanini, un ‘socialista’ il cui ruolo storico è stato quello di favorire (non il capitale industriale ma) il capitale commerciale.

Fare, pertanto, 20 politiche industriali e 20 politiche di promozione del turismo all’estero è un cortocircuito che ha mandato in tilt molti operatori economici italiani per il semplice motivo che la crisi di sovrapproduzione avanza sempre di più e non dà tregua. Si assiste in tal modo allo svilupparsi della lotta di classe entro il blocco economico del potere capitalistico. Chi vincerà, deciderà le sorti del paese per i prossimi decenni.

E il proletariato italiano che atteggiamento deve assumere? È molto semplice: attrezzarsi, dopo decenni di subalternità, con una propria strategia e adottare linee tattiche che facciano esplodere le contraddizioni e rendano palese la lotta di classe che si svolge nel blocco dominante. Non è forse vero che è quando il gioco si fa duro che i duri cominciano a giocare?

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