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Ucraina: nazismo e neonazismi

Nei giorni scorsi, nei distretti della Repubblica popolare di Lugansk occupati da Kiev, l’esercito ucraino ha compiuto esercitazioni per gettare ponti mobili di portata superiore alle 60 tonnellate attraverso l’Ajdar, su cui far transitare mezzi corazzati. Obiettivo delle manovre, secondo i comandi ucraini: provare l’assalto di posizioni nemiche sulla riva destra del fiume.

Nello stesso periodo, forze ucraine hanno bersagliato la periferia occidentale di Donetsk e, tra il 23 e il 26 novembre, hanno colpito con lanciagranate le zone di Kominternovo, Leninskij e della miniera Gagarin, mentre hanno dislocato blindati e sistemi reattivi all’interno del villaggio di Kalinovo.

Kiev starebbe ammassando anche mezzi corazzati, in violazione degli accordi di Minsk: osservatori della DNR hanno riferito di 21 carri armati fermi alla stazione di Konstantinovka e 4 batterie BM-21 “Grad” alla stazione di Družkovka.

Una decina di giorni fa, canali-telegram ucraini avevano dato notizia di 6 droni d’attacco di produzione turca “Bayraktar TB 2”, come quelli usati nel conflitto nel Karabakh, dislocati all’aerodromo di Kramatorsk.

Secondo Dmitrij Pavlenko, che ne dà notizia su i, Kiev aveva acquistato i sei droni a inizio 2019, insieme a due stazioni di pilotaggio e 200 razzi, per 70 milioni di dollari: il loro impiego, afferma Pavlenko, significherebbe il ritiro definitivo di Kiev dagli accordi di Minsk.

È in questo quadro, che i comandi ucraini parlano della possibilità di conquista del Donbass: si tratta solo di attendere il momento opportuno, avrebbe dichiarato, secondo Novorosinform, il Comandante delle Forze riunite (il nuovo nome del ATO in Donbass), Ruslan Khomčak. Così, assolto dal tribunale di Milano, Vitalij Markiv può vantarsi di esser “stato reintegrato. Ho intenzione di andare in vacanza con mia moglie”, ha detto, dopodiché “tornerò alla mia vecchia posizione di vice comandante del battaglione Kul’čitskij, in servizio nel Donbass“. I giornalisti sono avvisati!

Sul fronte interno ucraino, l’ex Presidente a interim ed ex segretario del Consiglio di sicurezza, Aleksandr Turčinov, ha espresso preoccupazione per la situazione economica: “Va tutto a rotoli sotto i nostri occhi” ha detto; “quando al timone c’è ignoranza e mediocrità, è pericoloso” per il paese; come se il dilettantismo di Zelenskij differisse dal corso criminale di Porošenko, o come se la politica ucraina fosse decisa a Kiev!

In ogni caso, per quella politica, pensionati ridotti alla fame devono ricorrere ai pasti gratuiti offerti dai volontari. L’ex deputato della Rada Alexei Žuravko ha pubblicato un video della distribuzione di cibo a Kherson, commentando che l’impoverimento dei pensionati è direttamente legato ai risultati di “majdan”. Dunque, ha detto Žuravko, in testa a quella fila per il cibo dovremmo porci Janukovič, Porošenko, Zelenskij, Turčinov, Kličkò, i leader della UE e i loro partner d’oltreoceano.

I quali, per varare e sostenere tutt’oggi quella politica, continuano a servirsi di bande neo-naziste di varie denominazioni.

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Nei giorni scorsi, in occasione del voto all’ONU contro la eroicizzazione del nazismo, anche su questo giornale è stato ricordato il ruolo dei battaglioni neo-nazisti ucraini, addestrati in USA e in alcuni paesi europei quale forza d’urto del majdan e tuttora sponsorizzati e infoltiti per l’aggressione armata al Donbass.

Si è parlato del nazista Andrej Biletskij e del battaglione “Azov”. Ma in cosa si distingue il nazismo di tali personaggi e organizzazioni nella stessa Ucraina? Un esempio, che ricalca pari pari il modello hitleriano di novant’anni fa, lo ha fornito in questi giorni un altro di quegli esemplari della razza superiore.

L’ex leader dei nazisti di UNA-UNSO (Assemblea Nazionale Ucraina-Autodifesa popolare ucraina) Dmitrij Korčinskij, in diretta su “canale 4”, ha dichiarato che “se vogliamo riprenderci il nostro territorio, allora tutte quelle persone che parlano di nostri rapporti fraterni, che dicono che la Russia è un fratello, che è impossibile vincere e che dobbiamo fare la pace prima di poter riconquistare il nostro territorio, tutte queste persone devono essere represse e gettate negli scantinati dei Servizi di sicurezza. Il fatto che ancora non stiano in quegli scantinati, è una grande disgrazia per il nostro paese“.

Su “Magnolia TV”, ha detto invece che i giornalisti ucraini con opinioni filo-russe, devono essere fatti fuori, alla pari dei “separatisti” nelle trincee del Donbass. Qualche mese prima, Korčinskij aveva dichiarato che alle persone con capacità linguistiche limitate, che non sono in grado di esprimersi in ucraino, dovrebbero essere assegnati posti speciali sugli autobus, medicine gratuite, assistenza psicologica e simili. Il problema della lingua russa in Ucraina sarà completamente risolto non appena il 10% della popolazione smetterà di COMPRENDERE la lingua di Mosca. Il restante 90% sarà costretto ad adeguarsi“.

Ecco: “posti speciali sugli autobus”. Dopo di che… dopo di che, gli “eroi” dei battaglioni potranno farsi fotografare sullo sfondo di mucchi di cadaveri, come i loro modelli di ottant’anni fa e come racconta questo abitante di Lugansk, Grigorij Žuravlëv, testimone oculare di una di quelle “imprese eroiche”.

Non dimentichiamo, non perdoniamo

Viktorija Drozdova

Non molto tempo fa, in un noto video hosting, mi sono imbattuta in una registrazione in cui un ragazzino ucraino, con un gruppo di nazionalisti, urlava slogan nazisti e tendeva il braccio, imitando i fascisti. Una visione inquietante. E, però, non ci sorprendono più simili reportage. Mi riesce però difficile capirlo e accettarlo. Soprattutto quando scopro tali storie, una delle quali voglio raccontare.

Grazie ai nostri colleghi della città di Lugansk, la nostra redazione ha potuto realizzare un’intervista con un abitante della città, Grigorij Nikiforovič Žuravlëv. Uno dei milioni alla cui porta bussò la Grande guerra patriottica. Uno dei tantissimi che dovette superare tutti gli orrori della guerra. Ragazzo, fu testimone dei bestiali crimini dei fascisti. È riuscito a conservare nella memoria, per raccontarli oggi, gli avvenimenti di quei lontani giorni. Perché non si dimentichino e non si perdonino. Ecco il suo racconto.

Sono nato nel 1929. Prima della guerra vivevo a Vorošilovgrad, oggi Lugansk. Nel 1941 frequentavo la scuola N°17; l’avevano costruita poco prima della guerra.

Avevo 13 anni. Quando scoppiò la guerra, mio padre partì per il fronte. In famiglia eravamo quattro bambini: tre fratelli e una sorella; io ero il secondo più grande. Pascolavo la nostra mucca e quelle dei vicini. Prima dell’arrivo dei tedeschi, le scuole erano state trasformate in ospedali; i nostri banchi erano stati trasferiti nei vecchi scantinati dell’epoca di Caterina: là facevamo lezione. Questo, fino al ’42, fino a che in città non arrivarono i tedeschi.

Nel novembre del ’42 i tedeschi cominciarono a deportare i bambini in Germania. Organizzavano retate. Io e mio fratello finimmo in quegli elenchi: lui era del ’27 e io del ’29. Allora, mi contraffecero i documenti e scrissero che ero del ’30; così da evitare la deportazione. Tuttora, nei documenti, risulto nato nel ’30.

Mio fratello, invece, si nascose in campagna, a 25 km dalla città. La notte del 2 novembre 1942 venne a chiamarmi, per andare insieme al bosco a far scorta di legna. Uscimmo prima dell’alba, con il carretto per la legna. Nella nostra strada, quattro case oltre la nostra, viveva una famiglia ebrea, i Sobolev; padre e figlio erano stati evacuati, mentre madre e figlia erano rimaste.

Procedevamo con cautela sulla strada; all’improvviso, dal cancelletto dei Sobolev, uscirono madre e figlia, con zaino e vanga. Ci chiesero dove andassimo. Rispondemmo che andavamo per legna. Loro dissero che andavano nella terra promessa.

Nella notte, avevano portato loro i moduli, dicendo che il punto di raccolta per la partenza verso la Palestina era allo stadio. Mi fecero vedere il foglio. Lo lessi; c’era scritto che raccogliessero tutte le cose di valore, non più di tre chili, e viveri per tre giorni per il viaggio in aereo. La vanga doveva servire per delimitare gli appezzamenti di terreno.

Dato che eravamo di strada, discorremmo. La madre era preoccupata, perché marito e figlio erano stati evacuati; ma si erano messi d’accordo che il marito le avrebbe scritto. Dal momento che loro andavano in Palestina, la Soboleva mi pregò che la nostra famiglia facesse da anello di contatto, quando lei ci avrebbe scritto dalla Palestina, per dire dove dovessero andare il marito e il figlio. Accettai di aiutarli. Non sospettavamo di nulla.

Lo stadio si trovava alla periferia della città. Oggi, là ci sono le tribune, ma allora c’erano solo spalti di terra e solo sul lato ovest c’erano panchine di legno. Quando arrivammo allo stadio, c’era già molta gente e, tutt’intorno, tedeschi con mitra e cani. Dato che il luogo era aperto, vedemmo subito come i tedeschi spingessero gli ebrei verso lo stadio e come, proprio sul campo di gioco, la gente si accalcasse, dietro i sorveglianti e l’abbaiare dei cani.

Ci fermammo a guardare. Fui preso da un brutto presentimento e dissi alla Soboleva che c’era qualcosa che non andava. Le dissi di non andare là, di ripensarci. Ma la Soboleva si mise a piangere e a dire che se ne sarebbe comunque andata via. Allora cominciai a chiederle di lasciare la figlia Lilja con noi.

Eravamo quattro ragazzi e, insieme a Lilja, ce l’avremmo fatta; ma la Soboleva si rifiutò di lasciare sua figlia e io non riuscii a convincerla. Penso che poche persone credessero alla storia della Palestina. Probabilmente non avevano scelta, ma, in cuor loro, speravano che non li avrebbero ingannati.

Intanto, erano sopraggiunti quattro veicoli militari e, sotto scorta, cominciarono a caricarvi le persone, che presero a opporre resistenza, gridare e correre di qua e di là. Cominciò la sparatoria. Agguantavano le persone e le caricavano a forza sui camion. La Soboleva e la figlia andarono là; io e mio fratello prendemmo il carretto e proseguimmo.

Lungo la strada, ci sorpassarono i camion con le persone. In cabina sedevano l’autista tedesco e un ufficiale. Sul pianale, con le persone, sedevano i soldati. La gente, dai camion, urlava che li portavano alla fucilazione. Gridavano i loro nomi. Le strade erano deserte, dato che era ancora presto.

I tedeschi, astuti: a un certo punto sentimmo rombo di aerei, come se scaldassero i motori. Quando col fratello arrivammo alla stazione dei bus, vedemmo i camion che tornavano indietro, vuoti. Guardai in alto e dissi a mio fratello che i camion tornavano indietro vuoti e in cielo non c’era un solo aereo.

Arrivammo alla biforcazione della strada. C’erano due tedeschi e, accanto, sedeva una coppia di vecchietti. I tedeschi ci fermarono e ci ordinarono di sedere. Da una parte, si udirono spari e poi comparve del fumo. Sapevo bene il tedesco e mi rivolsi al soldato, chiedendogli che lasciasse andare me e mio fratello; gli indicai il carretto e l’ascia, dicendo che dovevamo andar per legna. Ci lasciarono andare; così proseguimmo.

Allora non c’erano piante boschive: era nuda steppa con collinette. Andammo avanti ancora un po’, la strada portava a un’altura. Ci fermammo per vedere cosa stesse accadendo. Era tutto ben visibile. I tedeschi ci notarono e ci riversarono addosso una raffica di mitragliatrici pesanti. Ci sdraiammo per terra e scivolammo giù. Così non ci colpirono.

Corremmo giù dalla collinetta verso il limite del bosco e poi verso il cimitero. Là, gettammo in fretta sulla carriola la legna già accatastata; ma avevamo paura a tornare indietro: ci avevano scorto. Così, decidemmo di aspettare. Gli spari continuavano.

All’epoca, attorno alla città crescevano cespugli spinosi. Nascondendoci dietro di quelli, ci avvicinammo a meno di un centinaio di metri dal luogo della fucileria, là dove erano già stati scavati i fossati per la difesa della città. Tutta la città aveva partecipato a scavare le trincee; anche io e mio fratello, quando ancora erano presenti i nostri soldati, vi avevamo preso parte, dato che la mamma era prossima al parto.

Ricordo come fosse ora quello che vedemmo. I tedeschi avevano avvicinato i camion e ordinavano a tutti di scendere, ma le persone non ne volevano sapere. Allora i tedeschi sciolsero i cani che, a comando, saltavano sui pianali e si avventavano sulle persone. Per la paura, le persone saltavano giù dai camion. I tedeschi obbligavano tutti a denudarsi completamente.

Tra gli ufficiali tedeschi c’erano anche delle donne, che si occupavano di scegliere le cose migliori, le sistemavano in casse che caricavano in automobili, mentre accatastavano in un mucchio i panni inutili, li cospargevano di benzina e li bruciavano.

Le persone, nude, venivano quindi fatte passare attraverso una fila di soldati, che strappavano loro i gioielli preziosi. Quelli che facevano resistenza, venivano gettati a terra, picchiati; strappavano loro gli orecchini, cavavano i denti. Quindi, li obbligavano a sotterrare le persone già fucilate.

I bambini, dai neonati fino ai 12 anni, venivano strappati ai genitori e portati da un tedesco in camice bianco, a un lato del fossato. Quello spalmava loro qualcosa sul viso. Non potevamo vedere cosa fosse. I bambini erano perquisiti, rovesciavano i pannolini e tasche e poi li gettavano nel fossato.

Molti cercavano di scappare, ma venivano tutti raggiunti dai colpi di mitra, anche se ci fu qualcuno che riuscì a fuggire. I bambini che non erano stati sottratti ai genitori, erano rimasti in piedi con quelli. I genitori se li tenevano stretti e vennero uccisi insieme. Molti tedeschi si facevano fotografare sullo scenario dell’esecuzione e posavano sullo sfondo degli uccisi.

Io e mio fratello guardavamo con orrore a tutto questo. Dovemmo rimanere tutto il giorno, fino alla sera, dietro a quel cespuglio, per non farci scoprire. Avevamo i capelli ritti in testa; era terribile.

Quel giorno, l’alba era rosso sangue. E anche il tramonto fu altrettanto sanguinoso. Penso che Dio ce lo mostrasse così. Rimanemmo in quella posizione finché non se fu andato anche l’ultimo camion tedesco. Aspettammo ancora un po’; ci assicurammo che non ci fosse nessuno e corremmo ai fossati.

La prima cosa che vedemmo furono gli indumenti dei bambini: ciabattine, magliette, berretti. Avevano spogliato anche i bambini. Andammo più avanti verso i fossati e vedemmo i corpi dei bambini gettati alla rinfusa. I fossati erano un metro e ottanta di profondità e trenta metri di lunghezza. I corpi dei bambini giacevano fino alla superficie; avevano sotto il naso una striscia gialla, quella che il medico aveva spalmato. Era veleno: i fascisti gettavano nei fossati i corpi già privi di sensi.

Poi, accanto ai bambini, vedemmo il corpo di un vecchio e, vicino alla sua testa, giaceva una bambina con dei nastri rosa tra i capelli. Non capimmo perché il vecchio non fosse nudo e, soprattutto, perché non avesse una sola ferita o una traccia di sangue; era anche ben vestito. Lo guardammo e proseguimmo verso altre trincee. Vi giacevano persone con ferite di proiettili, tutti coperti di sangue; molti erano ancora vivi. Gemevano, cercavano di strisciare. Dall’altra parte del fossato, dal lato verso cui avevano tentato di scappare, giacevano più di trecento persone, che i tedeschi avevano fucilato mentre tentavano di fuggire.

Eravamo terrorizzati. Prendemmo il nostro carretto e tornammo a casa. Il giorno seguente, pascolando le mucche, passai non lontano dal luogo del massacro. I corpi erano ancora là, senza esser stati sepolti. I tedeschi poi misero delle guardie e, il giorno successivo, vi condussero nostri soldati prigionieri, perché seppellissero i corpi. Quando i fucilati furono sepolti, anche i prigionieri vennero fucilati.

Passavano i giorni; si faceva sempre più freddo; arrivarono le gelate. Pascolavo le mucche e cominciai a passare più spesso vicino a quel luogo. Distante dal fossato, tra i cespugli spinosi, cominciai a trovare persone che erano riuscite a scappare. C’erano dei morti; ma qualcuno era ancora vivo. Alcuni sedevano a coppie, coperti di fogliame per non gelare: erano nudi. Portai loro un po’ del cibo che avevamo a casa. Lo raccontai alla mamma e lei preparò del latte, pane, quel che poteva. Le persone aspettavano e poi se ne andavano.

Nella nostra strada viveva anche un’altra famiglia ebrea, i Budinets. Anche da loro, padre e figlio erano stati evacuati, mentre la madre e la figlia erano rimaste. E anch’esse erano state condotte alla fucilazione. La figlia era sopravvissuta. La trovai nel bosco. La sfamai. Riacquistò le forze e riuscì a raggiungere la città. Trovò rifugio da dei nostri parenti; visse un mese lì con loro, poi se ne andò. Tornò quando i nostri liberarono la città. Portava sempre gli stivali di feltro, anche in estate. Si era congelata i piedi, quando si era nascosta nel bosco. Non visse a lungo: circa otto anni; poi morì.

Era stato tutto così terribile: avevano fucilato quasi 4.000 persone. I tedeschi cominciarono anche a fare propaganda, stampavano volantini con “Morte ai giudei” e “Indicate dove si nascondono i giudei”. Facevano irruzioni, perquisizioni.

Quando la città fu liberata dall’occupazione tedesca e arrivarono i nostri, si cominciò a ripristinare le case, le strade.

All’inizio, calcinacci e detriti venivano scaricati in quegli stessi fossati in cui erano stati fucilati gli ebrei. Indignato, con uno stampino scrissi dei cartelli “Divieto di scarico. Multa”. I camion cominciarono a scaricare da un’altra parte. Tra i detriti, trovai dei travetti e li piantai tutt’intorno al fossato, per delimitare il luogo. Nel ’45, sul luogo della fucilazione, venne eretto un monumento.

Un giorno, vidi che vicino al monumento si era fermata una macchina. Scesero persone ben vestite. Presero a camminare attorno al tumulo e a osservare il posto. Mi avvicinai. Mi chiesero di dove fossi. Dissi che ero del luogo e avevo visto tutto quanto era successo. Allora mi chiesero se non avessi visto, tra i corpi, anche quello di un vecchio.

Mi mostrarono la foto e riconobbi quel vecchio che giaceva insieme ai bambini. Risultò essere il chirurgo capo dell’ospedale N° 4. Si chiamava Kats. Lo avevano spinto fin là insieme alla nipotina. Era morto di crepacuore alla vista della morte della piccola. Ecco perché il suo corpo non presentava alcuna ferita e nemmeno la striscia gialla sotto il naso. Più avanti, vicino al monumento, posero una targa di marmo con l’incisione: “Qui fu brutalmente ucciso il celebre chirurgo Kats dell’ospedale di Vorošilovgrad”.

Oggi il monumento è grande. Anch’io ho preso parte alla realizzazione dell’arco con la scritta “Non dimentichiamo Non perdoniamo!”. A lungo avevo cercato di raccontare questa storia in diverse istanze, ma non mi volevano ascoltare. Ma le persone devono sapere.

Il vecchio parlò ancora a lungo della propria vita, su tanti temi; voleva dire che tutto ciò non deve ripetersi. Oggi, a Lugansk, c’è anche un nuovo monumento, con le stesse parole: “Non dimentichiamo! Non perdoniamo!”. È il monumento alle vittime dell’aggressione ucraina; esso rimarrà a ricordo dei morti il cui sangue fu versato nel 2014.

Quanti altri monumenti simili dovranno apparire, perché nel cuore delle persone compaia la luce? Affinché il ragazzo, che vuole così tanto somigliare a una bestia, senza esitazioni e in posa per il video, pensi invece alla storia di un altro ragazzo che fu testimone involontario di odio e crudeltà negli anni della Grande Guerra Patriottica.

Cosa deve accadere? Non lo so. Ma una cosa la so: questo deve essere ricordato e raccontato ai nostri figli e nipoti tra 100 anni, tra 200… Essi non devono dimenticare. Non devono perdonare.

(premessa e traduzione fp)

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