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Obama non condanna il sostegno Usa al golpe e alla dittatura in Argentina

Il 24 marzo scorso molte decine di migliaia di persone hanno manifestato a Buenos Aires e nel resto dell’Argentina per ricordare il colpo di stato militare fascista che esattamente 40 anni fa iniziò una stagione di oppressione e terrore nel paese. Quella dei militari argentini fu una delle peggiori, delle più sanguinose e crudeli in America Latina, insieme a quella del generale Pinochet in Cile.
Nella notte del 24 marzo del 1976 una voce solenne e marziale diffondeva dalle radio e dalle tv l’annuncio che una giunta militare guidata dal generale dell’esercito Jorge Rafael Videla, integrata dai capi della Marina e dell’Aviazione, Emilio Eduardo Massera e Orlando Ramon Agosti, aveva destituito la presidente in carica, Isabelita Peron, assumendo pieni poteri. Iniziava così una tragedia collettiva che portò ‘desapariciòn’ e all’omicidio di oltre trentamila persone: oppositori politici di sinistra, studenti, sindacalisti, artisti, giornalisti, gente qualunque. Una capillare opera di repressione che poté contare sulla tolleranza quando non addirittura sulla interessata collaborazione non solo delle oligarchie economiche e politiche locali (gerarchie cattoliche incluse) ma anche di molte potenze occidentali, Stati Uniti in testa.

Il golpe era nell’aria da mesi, forse da anni. Le oligarchie e le destre reazionarie di tutto il continente tramano assieme – il Plan Condor guida e coordina interventi simili in tutta l’America Latina – al Dipartimento di Stato Usa, alla Cia. Al regime fascista spagnolo ma anche a vari paesi ‘democratici’ europei.

In Argentina le condizioni propizie per legittimare agli occhi di una parte dell’opinione pubblica locale e internazionale l’intervento dei militari nella primavera del 1976 sembrano esserci tutte: l’economia é in caduta libera, l’inflazione divora salari e stipendi, la guerriglia di sinistra moltiplica i suoi attacchi. La situazione politica è surreale: alla Casa Rosada siede l’ultima moglie del leggendario Juan Domingo Peròn, l’ex ballerina Isabelita. Dalla morte di Peròn il burattinaio che muove i fili del governo nazionale è l’inquietante José Lope Rega, personaggio oscuro e perverso, fondatore della Triple A, formazione paramilitare di estrema destra dedita all’eliminazione degli oppositori politici. Una parte degli argentini – ‘la maggioranza silenziosa’, le classi medie e alte, i settori popolari impauriti dal caos – se lo aspettano il golpe, in alcuni casi lo implorano. Il 24 marzo vengono accontentati.
Nel comunicato numero uno del governo militare diffuso durante la notte di quel giorno, la Junta annuncia la presa del potere definendola ‘un dovere di fronte alla grave situazione di crisi morale, declino economico e dissoluzione sociale’ che vive il Paese. Inizia quello che i militari chiamano “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. I partiti politici vengono di fatto messi fuori legge, il Parlamento esautorato, le attività sindacali proibite e perseguite, libertà di stampa e di espressione cancellate.

Fin dalle primissime ore che seguono al colpo di stato, arresti, perquisizioni, interrogatori, torture e sparizioni diventano lo strumento attraverso il quale il nuovo regime ‘ripulisce’ la società da quelli che considera nemici, corpi estranei. Studenti, sindacalisti, lavoratori e semplici cittadini accusati di simpatizzare per le ‘forze della sovversione’ vengono perseguitati senza pietà. I garage di Buenos Aires si trasformano in mattatoi e viene inaugurata l’atroce pratica dei ‘voli della morte’ con i torturati che, quando non servono più, vengono gettati in pieno oceano dagli aerei militari, in molti casi vivi.

La famigerata Esma, la scuola superiore di meccanica della Marina, convertita nel 2004 dal governo Kirchner in un museo per la memoria dei crimini della dittatura e la promozione e la difesa dei diritti umani, diventa uno dei luoghi simboli delle atrocità dei militari. E’ la ‘Guerra sucia’, la ‘Guerra sporca’, che il regime mette in atto per reprimere la sovversione marxista e peronista. “L’Argentina é in guerra e la sparizione di alcune persone é una conseguenza non desiderata di questa guerra” si giustifica Videla. Passano mesi prima che le madri degli scomparsi prendano coraggio e vadano di persona a chiedere alle autorità notizie sulla sorte dei loro figli, scontrandosi contro un muro di menzogne, di coperture reciproche, di omertà e di minacce. La loro protesta e il loro dolore si trasformerà nella marcia silenziosa della plaza de Mayo, che ogni giovedì pomeriggio, per molti anni, si trasforma in una enorma ronda colorata di bianco, come i fazzoletti delle madri che camminano per evitare l’accusa di adunata sediziosa e dunque l’arresto.
Videla lascia il comando della giunta nel 1981 e il comando passa a Roberto Viola e poi a Leopoldo Galtieri. Il governo dei militari dura quasi otto anni, fino al tragico epilogo della guerra delle Malvinas (le Falkland per Londra), scatenata proprio da Gualtieri nell’82 per tenere in vita un regime ormai in agonia. La dittatura cade sotto i colpi della sua stessa retorica e delle cannoniere britanniche inviate da Margareth Tatcher nello sperduto territorio d’oltremare, lasciando un paese lacerato e cancellando un’intera generazione politica e intellettuale. A distanza di 40 anni, nei giorni i cui Barack Obama, primo presidente americano, visita il memoriale delle vittime della dittatura e promette di aprire parte degli archivi americani per far luce su quegli anni, il discorso pubblico sulla dittatura divide ancora il popolo argentino e la classe politica del Paese. Le ferite restano aperte. E continuano a sanguinare.
Anche perché la visita a Buenos Aires dell’inquilino della Casa Bianca è servito ad equilibrare a destra il viaggio all’Avana. Obama ha voluto incontrare il nuovo presidente argentino, Mauricio Macri, per rivendicare l’attivo ruolo che gli Stati Uniti stanno giocando nel ridisegno degli equilibri e dei rapporti di forza di quello che una volta era il loro ‘patio trasero’ e che dagli anni ’90 ha visto sfilarsi man mano molti paesi. L’ondata delle rivoluzioni democratiche e progressiste, dal Venezuela alla Bolivia, dall’Ecuador all’Argentina, la resistenza di Cuba, il fallimento dell’Alca bruciano ancora a Washington. Che però negli ultimi anni è tornata a segnare alcuni punti a favore: il golpe in Honduras e poi in Paraguay, la sconfitta del kirchnerismo a Buenos Aires…
Per coincidenza Obama è arrivato in Argentina proprio il 24 marzo, nel quarantesimo anniversario delle feroce dittatura sostenuta apertamente da Washington per bocca del suo presidente dell’epoca, il il repubblicano Gerald Ford.
Più di uno – tra questi il nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel – avevano sperato che Obama riconoscesse finalmente il ruolo giocato dagli Stati Uniti in una stagione buia e tragica le cui conseguenze ancora pesano sulla memoria e sulla realtà dell’intero continente.
Ma Obama non ha voluto incontrare neanche i familiari delle vittime della dittatura militare fascista.  Durante la breve visita al parco della memoria – che si estende di fronte al Río de la Plata, in cui centinaia di vittime della repressione furono gettati vivi dai “voli della morte”, il Nobel per la Pace non è riuscito ad andare oltre le scontate parole di circostanza. Obama ha affermato che il monumento rappresenta “un omaggio all’eroismo” delle vittime della dittatura e poi che “Le democrazie devono avere il coraggio di ammettere quando non sono state all’altezza degli ideali che sostengono, quando hanno indugiato troppo nell’esprimersi a favore dei diritti umani: è stato il caso dell’Argentina”.
Davvero poco per un paese che ha avuto in ruolo chiave nell’orientare le oligarchie latinoamericane verso la dittatura, la repressione, l’uso massiccio della tortura e della distriminazione. Nessuna autocritica esplicita, nessuna condanna. L’unica novità giudicata positiva dagli osservatori è stato l’annuncio da parte di Obama della rimozione del segreto di stato sugli archivi della Cia e del Pentagono risalenti agli anni della giunta militare argentina.
Mentre Obama visitava l’Argentina evitandone accuratamente la capitale, decine di migliaia di persone sfilavano nelle strade di Buenos Aires al grido di ‘Fuera Obama de Argentina’ manifestando contro il terrorismo di stato e a favore della continuazione dei processi che hanno portato (soprattutto nell’era Kirchner) alla condanna di 669 criminali implicati con la stagione più buia che il paese abbia vissuto, soprattutto militari, agenti di polizia e gerarchi del regime. Una manifestazione anche contro il nuovo governo e il nuovo presidente che non fanno mistero di rappresentare quelle stesse oligarchie che negli anni ’70 decisero di far valere i propri interessi eliminando in maniera brutale ogni parvenza di democrazia.

Nei giorni scorsi Macri ha proposto di far scontare ai domiciliari le condanne per crimini contro l’umanità inflitte – solo grazie alla tenace opera dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime della repressione fascista, alle proteste, a interminabili azioni giudiziarie – ai responsabili più diretti del regime che abbiano più di 70 anni. Il dittatore Jorge Videla è morto in carcere, a 87 anni, nel 2013. Il nuovo governo argentino che fa parlare i media occidentali di ‘rinascita democratica’ per il paese sudamericano vuole ora che i propri padrini possano contare su un trattamento di maggior riguardo.

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