Un giorno a metà anni ’70 arrivò una telefonata al dipartimento di letteratura inglese e americana dove lavoravo. Era l’ambasciata del Canada: c’è un poeta canadese di passaggio a Roma, ci piacerebbe se si potesse organizzare un incontro con i vostri studenti.
Il direttore, Agostino Lombardo, non capì bene il nome e comunque non sapeva chi fosse, ma disse cortesemente di sì. Il giorno designato, scendendo in aula 1 di Lettere, la trovammo ricolma di studenti fino al soffitto. Poi il poeta prese la chitarra e attaccò: «Suzanne takes you down to her place near the river…». Si chiamava Leonard Cohen.
Ci ho ripensato in questi giorni di discussioni e controversie sul Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Penso che abbia ragione Francesca Borrelli: «Il Nobel per la letteratura a una star della musica pop è una ghiotta occasione per fare sfoggio di conformismo, nella certezza di ritrovarsi in buona e qualificata compagnia». Immagino che se invece, come tanti auspicavano, avessero premiato Philip Roth, o il mio adorato Don DeLillo o magari Jonathan Franzen, sarebbe stato un atto di anticonformismo eversivo e spregiudicato. O no?
Il fatto è che il Nobel in quanto tale è sempre una fabbrica di consenso, e quindi di “conformismo”. È una consacrazione, e quindi chiama all’unanimità. Semmai, leggendo le argomentate e plausibili perplessità di Francesca Borrelli o Valerio Magrelli (per non parlare del furore di Alessandro Baricco), vorrei dire che proprio stavolta il premio è controverso e conflittuale. Basta guardare l’inusitata vis polemica dell’editoriale del Corriere della sera per domandarsi di che conformismo stiamo parlando.
Ovviamente, possiamo pensare e dire che Bob Dylan non merita il Nobel perché non riteniamo che sia un grande artista; in questo senso, non faremmo altro che il nostro mestiere di critico. Ma dire invece che non avrebbe dovuto avere il Nobel perché non appartiene al campo della letteratura mi pare più problematico. In fondo, io di corsi accademici di letteratura con dentro Bob Dylan e Robert Johnson, il blues e la popular ballad, ne ho fatti diversi, e non credo di essere stato l’unico. Il punto di cui si discute allora non è la qualità dell’arte di Dylan, ma di che arte si tratta; il punto è, infine, se nel terzo millennio intendiamo per letteratura la stessa cosa che intendevano i tardo-ottocenteschi creatori del premio Nobel.
Almeno dall’inizio del ‘900 – dall’avvento delle nuove tecnologie della parola: cinema, radio, riproduzione della voce – la pagina stampata non è stata più l’unico veicolo al quale affidiamo il lavoro sulla parola, l’immaginazione di visioni, la narrazione di storie – cioè, le funzioni essenziali di quello che chiamiamo letteratura. Peraltro, anche prima, e ancora oggi, una grande parte dell’umanità, non solo in Occidente, continua a raccontarsi a voce le proprie storie e a cantare le proprie poesie (se una cosa si può dire di Bob Dylan è che prima e meglio di chiunque ha fatto da ponte fra gli universi della parola e dell’immaginario, impiantando una sensibilità linguistica e tecnologica modernistica sul sostegno di una secolare oralità).
Ho sentito e letto persone che dicevano: sì, il Nobel lo merita, ma dovevano darglielo per la musica. Mi immagino già, se fosse successo, lo scandalo dei musicisti veri: il Nobel a un canzonettaro? Questa non è vera musica! E così via. Il punto, infatti, non è che per riconoscere figure come Dylan dovremmo aggiungere nuove categorie, ma piuttosto che dobbiamo ripensarne la definizione, la delimitazione dei loro confini, e in ultima analisi l’utilità stessa di suddividere per categorie i saperi e le arti. Le categorie separano le arti e i saperi in sfere incomunicanti; artisti come Dylan le mescolano, le scavalcano, le confondono, ci fanno dubitare e cercare ancora – che poi è la funzione delle arti e della letteratura medesima. Dylan non appartiene alla letteratura perché non ce lo possiamo chiudere dentro. Dovremmo ringraziarlo perché ci induce inaspettatamente a riproporci l’antica domanda di Jean Paul Sartre –«qu’est ce que la littérature?» – e a lasciare la risposta in sospeso («nel vento»?).
Torniamo a Leonard Cohen, altro artista mezzo sangue, un po’ di qua e un po’ di là e da nessuna parte. Nella sua canzone «The Singer Must Die», reo di avere tradito la poesia mischiandola con la musica, il cantante accetta con umile orgoglio la pena di morte comminatagli dal tribunale. «Vi ringrazio, vi ringrazio di avere fatto il vostro dovere, voi detentori del vero, voi guardiani del bello. La vostra visione è giusta, la mia visione è sbagliata. Vi chiedo scusa se ho sporcato la vostra aria con la mia canzone».
da ilmanifesto
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Claudio Ursella
Nel libro di antologia letteraria del mio secondo anno di liceo (1976), c'erano testi di De Andrè…
Grendelica
Nella mia antologia letteraria dell'ultimo anno del liceo (anno 1997) c'era Bob Dylan (e anche Leonard Cohen).
Francisco
Fra qualche anno ci troveremo Fedez, J Ax, Emis Killa, Ligabue, Vasco… insomma, la cultura la farà da padrone 😉