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Se l’Ucraina fallisce, si punta alla Bielorussia?

A tre anni da majdan, l'Ucraina golpista appare ormai pressoché non spendibile quale “vallo europeo”. Sul piano militare, nonostante i ripetuti tentativi di sfondamento e i continui bombardamenti delle città del Donbass (anche negli ultimi due giorni, direttamente sulla periferia di Donetsk) ha dimostrato di esser lontana dal disporre del “più potente esercito europeo”, come proclamato a più riprese da Petro Porošenko: ne sono riprova i continui ammutinamenti, le diserzioni, le sparatorie tra battaglioni neonazisti ed esercito “regolare”.

Dal punto di visto economico, probabilmente, quello che c'era da arraffare di industrie e terre coltivabili, è già stato fagocitato da banche e grossi gruppi occidentali, a parte i beni del più ricco magnate del paese, Renat Akhmetov, parte delle cui imprese sul territorio delle Repubbliche popolari, tra l'altro, rientrano tra quelle ora nazionalizzate da DNR e LNR. Sul piano politico, a parte la diligente applicazione dei dettami del FMI, che hanno ridotto alla fame milioni di ucraini e la “decomunistizzazione” del paese, con le dimostrazioni sempre più plateali dei gruppi nazisti (nei giorni scorsi il battaglione “Azov” del führer Andrej Bilteskij ha marciato direttamente sulla Rada) le voci sempre più insistenti dei preparativi di fuga dello stesso Porošenko rappresentano un'altra prova del suo spessore. I due aerei carichi di soldi e preziosi che, secondo voci del servizio doganale ucraino, riprese dall'ex deputato alla Rada Vladimir Olejnik, il presidente avrebbe spedito in Spagna lo scorso gennaio, dicono qualcosa in merito. Il divieto posto dal Congresso alla fornitura di sistemi razzo, appare come la punta dell'iceberg.

E allora, appare presumibile che si tenti di puntare su un altro cavallo.

A proposito dei recenti battibecchi tra Mosca e Minsk, il deputato alla Duma russa per il PCFR e membro dell'Assemblea Parlamentare Unita di Russia e Bielorussia, Nikolaj Arefev, scrive che “qualche borghese in Russia e in Bielorussia sta creando problemi tra i nostri paesi”. Arefev accenna alle critiche mosse a Mosca da Alaksandr Lukašenko circa presunte violazioni degli accordi economici (per cui Minsk non sarebbe disposta a pagare il prezzo concordato del gas russo) e alle limitazioni poste dalla Russia all'importazione di carne dalla Bielorussia, il che porterebbe a un certo “scollamento” nello Stato unitario Russia-Bielorussia. Secondo Arefev i problemi sono dati dagli “appetiti insaziabili dei borghesi russi di impadronirsi di alcune imprese bielorusse altamente redditizie”; ma, d'altra parte, anche in Bielorussia “ci sono borghesi che vogliono qualcosa. Quella non è la politica dello stato, bensì la politica di alcuni grossi imprenditori”. A proposito delle note affermazioni di Lukašenko sulla “fraterna Ucraina” o sulla “annessione della Crimea”, Arefev nota che Minsk si trova “come stretta tra due fuochi: ha relazioni amichevoli con Kiev e rapporti di alleanza con Mosca. Rimane neutrale: non ha motivo di entrare in conflitto con Kiev”. E' così che Minsk, a differenza di Mosca, non ha riconosciuto l'Ossetia meridionale e l'Abkhazia e lo stesso si è verificato sulla questione della Crimea o dei documenti emessi da DNR e LNR. Ciò, sullo sfondo di rapporti sempre più calorosi con la UE.

Se questa è la posizione del PCFR, da sempre vicino al presidente bielorusso, ecco che Dmitrij Dzygovbrodskij, su rusvesna.su, parla di “Trucchi mortalmente pericolosi di Lukašenko, messosi sulla via di Janukovič”. In sostanza, Minsk, alla maniera dell'ex presidente ucraino, starebbe cercando di spingere Mosca a “pagare” per la russofilia bielorussa, facendo intendere che, in caso contrario, Bruxelles è dispostissima a pagare per la sua russofobia. Ma è tardi, nota Dzygovbrodskij: solo la Polonia era risuscita a guadagnare davvero per la propria russofobia; già i Paesi baltici non avevano ottenuto così tanto e l'Ucraina appena pochi spiccioli.

Se Minsk romperà davvero con Mosca, la sua economia andrà in pezzi; perché questo non accada, scrive Dzygovbrodskij, deve seguire un approccio più pragmatico. L'economia del paese è legata a sussidi governativi e l'industria è strettamente legata a imprese russe, così come il mercato lo è a quello russo. Dunque, è difficile riconvertire e dirottare totalmente lo sbocco dei prodotti dalla Russia verso il mercato europeo. Ed è pericoloso per Minsk, se non vuol cadere nella trappola in cui è finita l'Ucraina di Janukovič, “giocare” sui prezzi di transito dei prodotti energetici, o fornire all'Ucraina prodotti raffinati dal petrolio russo che poi finiscono alle truppe impegnate nel Donbass. Così come è rischioso introdurre in Russia, “di contrabbando”, prodotti occidentali sotto embargo, a proposito dei quali, secondo Moskovskij Komsomolets, Mosca avrebbe trovato un mezzo efficace di far pressione su Minsk. Un progetto di legge del Ministero delle finanze potrebbe vietare l'introduzione in Russia di prodotti provenienti da paesi dell'Unione economica euroasiatica (Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrghyzija e Russia: UEEA) in cui siano stati importati da paesi terzi. In tale “guerra commerciale”, ricadrebbero in primo luogo i prodotti dei paesi UE – formaggi, carni, frutta, posti sotto embargo da Mosca in risposta alle sanzioni occidentali – che oggi transitano liberamente attraverso l'area euroasiatica.

Sulla situazione bielorussa si era soffermato qualche giorno fa anche Die junge Welt, non escludendo, per l'avvenire, un “regime-change”, legato alle manifestazioni di strada delle ultime settimane e alle lusinghe occidentali per un mutamento di alleanze da parte di Minsk. Intervenendo sull'ex organo della Freie Deutsche Jugend della DDR, Reinhard Lauterbach pronostica una ripresa delle manifestazioni contro la cosiddetta “tassa sui parassiti”, il prelievo cioè con cui il governo dice di voler compensare le spese per la previdenza sociale prestata a chi non versa contributi, non ultimi le decine di migliaia di bielorussi che lavorano in Russia – e là pagano le tasse – e un altro 15% (sui 10 milioni di abitanti) occupato in patria nell'economia sommersa.

Non saranno probabilmente queste “tasse evase” a pesare sull'economia bielorussa; in ogni caso, pare che a fronte di un tasso di disoccupazione ufficialmente basso, fonti esterne valutino una disoccupazione nascosta intorno al 15%. Una situazione dovuta anche al fatto che molte imprese statali esistono ormai solo di nome e i lavoratori sono stati messi in congedo non retribuito o a orario ridotto; il tutto, associato a conflitti, come dice Lukašenko, con gli appetiti degli “oligarchi russi”, interessati all'acquisizione di imprese statali bielorusse.

In questa situazione, continua Lauterbach, rialza la testa l'opposizione nazionalista e filo-occidentale, rimasta sinora sotto traccia grazie alla relativa stabilità sociale, nonostante non siano mai cessati i finanziamenti occidentali, in vista di future opportunità che, ora, sembrano manifestarsi. E' così che, la scorsa settimana, in un incontro in Lituania, rappresentanti dei cosiddetti “partiti del divano”, liberali e socialdemocratici bielorussi, hanno chiesto più consistenti aiuti finanziari, che consentano loro di mettersi alla testa delle agitazioni; e dai circoli politici lituani si moltiplicano gli appelli a Lukašenko a svincolarsi dall'alleanza con la Russia. Non è chiaro, scrive Lauterbach, se la Russia sia pronta a sacrificare Lukašenko; ma è chiaro che Mosca non è più disposta a sovvenzionare così generosamente la Bielorussia come negli ultimi due decenni e mezzo, nonostante un occhio di riguardo per “i fratelli bielorussi”. Questo, anche se Vladimir Putin, durante il recente incontro col presidente kyrghyzo Almazbek Atambaeb, ha dichiarato ai giornalisti che Mosca continuerà a sostenere l'economia bielorussa (uno degli ultimi crediti è stato di 6 miliardi di dollari), anche attraverso le forniture di petrolio a prezzi esentasse.

E allora Lukašenko si muove sempre più in cerca di nuove alleanze. Appena tre giorni fa è stato in visita a Minsk il presidente georgiano Georgij Margvelašvili, forse, casualmente, nello stesso periodo in cui Tbilisi ha offerto alla Nato (di cui non è membro ufficiale) la possibilità di costituire una base per una flottiglia di difesa costiera nel porto di Poti, sul mar Nero. Sebbene Lukašenko abbia ribadito che gli stretti rapporti tra i due paesi “non sono diretti contro nessuno” e i canali bielorussi abbiano parlato solo di legami economici, di condizioni favorevoli per investimenti georgiani in Bielorussia e di ”scambi operativi” tra i rispettivi Comitati di sicurezza nazionale, i media di Tbilisi hanno invece posto l'accento sulla gratitudine espressa da Margvelašvili per “l'appoggio bielorusso alla integrità territoriale georgiana, contro l'occupazione russa dell'Abkhazija e della regione di Tskhinvali”. Un appoggio che, in effetti, non è mai mancato e che l'allora presidente georgiano, autore dell'invasione dell'Ossetia meridionale, Mikhail Saakašvili, ricambiava, capovolgendo il precedente atteggiamento di condanna della “Bielorussia sovietica” e tessendone le lodi in giro per l'Europa.

In ogni caso, come scrive Oleg Egorov su rusvesna.su, il pericoloso gioco di Lukašenko sui fondi cercati a oriente e a occidente, potrebbe riservargli il destino dell'ucraino Viktor Janukovič, con l'evocazione degli “spiriti nazionalistici e patriottici” che, alimentati a Bruxelles e Washington, il Faust bielorusso non sarà più in grado di controllare.

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