Uno storico dell’arte, Tommaso Montanari, prende parola sul vespaio sollevato da una sentenza del Tar relativa alla nomina di dirigenti stranieri in alcuni importanti musei italiani. Il Tar afferma che quella decisione ha violato la legge esistente e che si è agito con fretta sospetta. L’autore della decisione il ministro Franceschini, insieme al suo sponsor Renzi, evocano l’idea che a questo punto vadano sciolti i Tar e violata la legge piuttosto che “fare brutta figura”. Un rovesciamento di responsabilità che la dice lunga sulla coerenza costituzionale di ministri e dirigenti nel nostro paese. L’unica vera critica al Tar, semmai, è quella di essere stato tardivo nel pronunciarsi. Lo storico dell’arte Tommaso Montanari è sempre stato piuttosto severo con il Ministro dei Beni Culturali. Ma ha ragioni da vendere. E’ sufficiente rammentare il doppio pasticcio sul Colosseo (sia con la generosa concessione ai privati che incassano l’80% degli introiti dei biglietti, sia con lo scippo contro il Comune di Roma), oppure lo scandalo degli “scontrinisti” alla Biblioteca Nazionale, o ancora il generosissimo regime di concessioni ai privati nella gestione dell’immenso, prezioso e pubblico patrimonio museale del nostro paese.
E’ dalla famigerata Legge Ronchey, varata durante il furore privatizzatore e ultraliberista dei governi di metà anni Novanta, che il patrimonio pubblico in materia archeologica, museale e culturale nel nostro paese è stato prima lasciato degradare per poterlo poi privatizzare nei fatti. I benefici che trae il paese si limitano a quelli dei grandi eventi e magari dell’immagine, ma sul piano delle risorse, queste prendono sempre più la strada degli interessi privati piuttosto che distribuirsi nella società.
Sulla questione delle nomine dei direttori dei musei, lasciamo parlare Tommaso Montanari che nel suo blog sull’Huffington Post ha scritto “cose che noi umani dovremmo conoscere”, a fondo.
La sentenza del Tar e l’arroganza della politica
di Tommaso Montanari
“Vorrei ringraziare sinceramente Dario Franceschini, Matteo Renzi e Andrea Orlando. Le loro dichiarazioni di oggi mi hanno ringiovanito, riportandomi come per incanto all’Italia di vent’anni fa. Quando un pugnace Silvio Berlusconi attaccava frontalmente ogni giudice che gli desse torto, minacciando sfracelli e facendo rivoltare nella tomba il povero Montesquieu, che aveva ben spiegato perché il potere giudiziario, quello legislativo e quello esecutivo dovessero stare ben divisi.
E ora siamo daccapo. Il Tar del Lazio boccia impietosamente la “riforma” dei musei di Franceschini? Renzi tuona su facebook: “Non abbiamo sbagliato perché abbiamo provato a cambiare i musei: abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar!”.
Gli fa eco l’alternativa, cioè Orlando: “I Tar andrebbero cambiati“. E Franceschini si scaglia contro i giudici:“Sono preoccupato per la figura che l’Italia fa nel resto del mondo, e per le conseguenze pratiche perché da oggi alcuni musei sono senza direttore”.
Ma possibile che nessuno di costoro senta invece il bisogno di scusarsi? Di dimostrare un po’ di umiltà, invece di sfoderare una simile arroganza?
Il punto è molto semplice: una legge (non fascista: novellata nel 2001) dice che i posti della dirigenza pubblica sono riservati a chi ha la cittadinanza italiana. Si potrà discutere sulla sua bontà. Io non la trovo insensata: dai dirigenti dipendono molti posti di lavoro, sistemi complessi. In molti casi ci sono in gioco settori strategici. Ed è così in tutti i paesi. Franceschini grida che la National Gallery è diretta da un italiano: ma si dimentica di dire che quell’italiano è cittadino britannico.
E in ogni caso: se a un ministro una legge non piace, può chiedere al Parlamento di cambiarla. E Franceschini aveva i numeri per farlo. Se invece firma un atto che la aggira o peggio la vìola, può capitare che un giudice amministrativo annulli quell’atto. È la democrazia, bellezza! E io me ne sento garantito.
Non sarà il caso di cominciare a dire che non basta fare le cose, ma bisogna anche farle bene? La riforma Madia è stata massacrata dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale, la riforma costituzionale è stata respinta dal popolo italiano: ma non sarebbe stato meglio farle bene, quelle riforme, invece che gridare contro chi ha dovuto constatarne il fallimento? Non è che la figuraccia dell’Italia l’ha causata un ministro incompetente circondato da incapaci?
E poi c’è un punto di merito. Il Tar dice che i colloqui per selezionare i direttori sono stati troppo frettolosi, e sono stati celebrati a porte chiuse. E che dunque i diritti dei concorrenti non sono stati rispettati. Se è vero è una cosa grave. E io so che è vero.
Quel concorso è stato condotto malissimo, ai limiti della farsa, per la stessa ragione per cui Franceschini non ha cambiato la legge: per la maledetta fretta mediatica di poter dire che aveva fatto qualcosa.
La commissione ha avuto (nella migliore delle ipotesi) nove minuti per leggere e valutare ogni curriculum e quindici minuti (questo è un dato ufficiale) per il colloquio che ha deciso la sorte degli Uffizi, o di Capodimonte.
Un elemento di comparazione: per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un’intervista preliminare di 2 ore, un colloquio privato col direttore di 2 ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee.
E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario (abbiamo preso direttori che in quasi tutti i casi non erano mai stati tali, ma al massimo conservatori di sezioni di musei secondari) in un quarto d’ora. La commissione contava solo due tecnici (un archeologo e uno storico dell’arte, entrambi professionalmente non italiani), accanto a una manager museale, a un rappresentante diretto del ministro stesso (l’autore materiale della riforma e consigliere giuridico principale del ministro) e a un presidente non proprio terzo rispetto alle volontà ministeriali (perché contestualmente confermato alla guida della Biennale di Venezia con una deroga alla legislazione vigente decisa dal governo).
Franceschini si trincera dietro i dati dell’affluenza ai musei: che però non dipendono certo dalla sua riforma (o pensiamo che gli australiani vadano gli Uffizi per la riforma Franceschini?), ma dalla congiuntura internazionale legata al terrorismo che vede crollare il turismo in Francia e nel Mediterraneo, e lo spinge nel nostro Paese, ritenuto più sicuro.
E poi: siamo sicuri che i musei di misurino solo con i numeri? A Brera moltissime tavole del Rinascimento hanno subito gravi danni a causa della noncuranza del nuovo direttore. Palazzo Pitti è diventato una cava di opere di pregio concesse in prestito per ragioni politiche, e un set da addii al celibato privati di lusso. Al Palazzo Ducale di Mantova si fa la fiera del mobile. E da nessuna parte si fa più ricerca, cioè non si produce più conoscenza. I musei assomigliano ormai a luna park pregiati: e a rimetterci sono i cittadini comuni, che non hanno molte altre occasioni di crescere culturalmente.
Il prossimo ministro per i Beni culturali dovrà smontare la “riforma” Franceschini pietra per pietra, errore per errore. Questa sentenza del Tar può essere un buon inizio.
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