Quando andiamo in giro per capire cosa sta accadendo, ormai stiamo bene attenti a non presentarci come “giornalisti”. Lo siamo, naturalmente, e facciamo questo mestiere da decenni. Ma non siamo mai entrati nel mainstream, in quel “sentirsi classe privilegiata”, a suo agio soltanto con imprenditori e governanti.
Non ci è dunque mai venuto in mente di sventolare un microfono sotto il naso di un coatto o di un fascista – insomma di gente che “non sa stare a tavola” – ma neanche di operai incazzati, disoccupati nervosi, commesse imbufalite al lavoro di domenica… Sappiamo infatti fin troppo bene che i giornalisti sono visti come una delle tante “caste”, per di più servili verso qualunque potere.
Sul “colpo di testa” di Ostia scorrono in queste ore fiumi di inchiostro e di video. Ma nessuno sembra chiedersi quanto abbia contribuito il giornalismo mainstream a creare il mostro che poi l’ha preso a “capocciate”. Anzi, la conferenza stampa proclamata da Casapound per dichiararsi vittima, ha avuto l’onore della copertura di Rainews e altre decine di testate, come fosse un “evento” da rispettare, invece che una piazzata finto vittimista da ridicolizzare.
https://youtu.be/r9531xF9lew
Tutto il contrario, invece, per una contemporanea conferenza stampa indetta da sindacati di base, Eurostop, Pci, comitati e formazioni varie, per spiegare ragioni e obiettivi dello sciopero generale di oggi e della manifestazione nazionale di domani. Anzi, solo la “diffida” formale comunicata dall’Usb – i media sono obbligati a dare notizia degli scioperi che coinvolgono la normale vita della cittadinanza, a partire dai trasporti e dalla scuola – li ha costretti a striminziti notiziari incentrati come sempre sui “disagi per la circolazione”. Insomma, le ragioni del conflitto e del malcontento sociale non interessano affatto, anzi vanno nascoste accuratamente; ci si eccita solo per una capocciata….
Verrebbe da dire che i giornalisti mainstream capiscono la realtà sociale solo quando questa arriva loro in faccia… Ma sarebbe una battuta inutile, benché facile e meritata.
Preferiamo dunque riprendere questa precisa analisi elaborata dai compagni del Collettivo Militant, che decostruisce nei dettagli le modalità con cui un fenomeno politico di dimensioni limitate, apertamente fascista e dunque da perseguire “a norma di legge”, anti-costituzionale e violento, sia stato invece coccolato, blandito, riconosciuto come “soggetto sociale”, insignito di meriti anche quando pratica il racket delle case popolari insieme ai clan del litorale.
E’ stato scritto pochi giorni prima della capocciata, quando l’idillio tra il giornalismo “né di destra, né di sinistra” e picchiatori fascisti era nella fase “appassionata”. Ma il finale nasochista era già nelle cose…
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Della normalizzazione, e della conseguente ri-legittimazione, del neofascismo abbiamo scritto varie volte. Superati i clamori dell’ennesima polemica ad usum media – stavolta è toccata ad Anna Frank – si tornerà a considerare normale la partecipazione neofascista alla spartizione mediatico-culturale del paese.
Lo sdoganamento passa soprattutto attraverso l’attivazione di determinati frame narrativi falsamente obiettivi, in realtà volti alla costruzione di un ambito di legittimità sociale del neofascismo che ne rilancia il ruolo politico.
In questi giorni sono andati in onda due “servizi” “giornalistici” sul neofascismo romano. Il primo apparso su Nemo – nessuno escluso del 12 ottobre, riguardante Forza nuova; il secondo pubblicato sul sito del Corriere della Sera il 25 ottobre, focalizzato su Casapound e le elezioni di Ostia del prossimo 5 novembre.
Nonostante parlassero di territori ed organizzazioni differenti, i due servizi utilizzavano lo stesso linguaggio narrativo, il medesimo schema giornalistico. Primo: scorrono immagini della periferia socialmente degradata, abbandonata dalle istituzioni e dalla politica; secondo: si accavallano brevi estratti di interviste ad alcuni residenti locali eletti a simbolo del suddetto degrado, con ampia drammatizzazione estetica (immagini tragiche, tappeto musicale ansiogeno, microfono aperto); terzo: arrivano loro, i fascisti, sempre e comunque presentati come unica presenza politica nel degrado appena raccontato.
Poco importano, a questo punto, le parole, i cori, le interviste ai militanti e dirigenti, le contraddizioni evidenti che esprimono, il falso ruolo dell’accusatore personificato dal giornalista: il gioco è ormai fatto. Qualsiasi cosa dicano, pensino, esprimano, qualsiasi contraddizione può rilevare il telespettatore, qualsiasi “sagace” domanda del giornalista, il messaggio forte (e unico) che rimane impresso è che i fascisti saranno pure “strani”, “estremisti”, “nostalgici” o “razzisti” ma rappresentano comunque l’unica alternativa politica al degrado della periferia.
D’altronde il montaggio delle interviste ai vari residenti lascia pochi dubbi: nessuno si dice fascista (e quando mai…), ma tutti simpatizzano per i militanti neofascisti, bravi ragazzi, in fondo e, tutto sommato, neanche così fascisti. Maledizione, se così stessero davvero le cose verrebbe anche a noi il dubbio se votarli o meno. Il problema è che decostruire l’artificio ideologico su cui si fondano servizi del genere è sempre più impervio, visto che nel frattempo non solo si è divaricato il rapporto tra realtà e verità, ma è anche venuta meno la differenza tra realtà e racconto mediatico della stessa.
Partiamo dal principio. Le immagini del degrado, dell’abbrutimento sociale, della devastazione umana che regna in periferia, non hanno mai un responsabile. Il degrado esiste in quanto tale, non è il prodotto di determinate politiche, di particolari scelte economiche e sociali. Al più, è “la politica” – fumosamente e indistintamente intesa – ad essere l’unica controparte sul banco degli accusati. Una politica, attenzione, intesa unicamente come “ceto politico”, e questo descritto unicamente nei termini della “casta”.
E’ la casta, si scorge nei servizi giornalistici, la colpevole unica, additata al pubblico ludibrio come fonte di ogni male. Una casta indistinta, senza differenza politiche al proprio interno, oscura e rinchiusa nel “palazzo”. Non c’è apparente traccia ideologica, ed è proprio questo il livello ideologico di servizi giornalistici costruiti in questa determinata maniera. La “casta” serve a depoliticizzare le responsabilità politiche del degrado, rendendole indistinte, distanti, impercettibili.
Meno che mai appaiono i responsabili economici del degrado raccontato. Nessuna relazione riusciremmo a scovare tra la penuria di case popolari, l’aumento degli affitti, l’emergenza abitativa e il ruolo dei palazzinari; nessun rapporto è dato rilevarsi tra l’abbandono economico della periferia, l’impoverimento del tessuto produttivo e l’apertura sconsiderata dei centri commerciali, cattedrali del commercio che desertificano la produzione territoriale e aumentano la disoccupazione nella periferia; nessun collegamento potremmo stabilire tra il traffico, l’impossibile mobilità e la privatizzazione del trasporto pubblico urbano; inutile tentare di legare la scarsa pulizia urbana ai tagli del personale pubblico.
Come detto in precedenza: il degrado sociale presente in periferia non ha responsabili puntuali, ma solo feticci da agitare utili alla contrapposizione populista (la “casta” contro il “popolo”). Impossibile, poi, mettere in relazione i responsabili politici di cui sopra con le scelte economiche appena ricordate: il tutto verrebbe presentato come “ideologia”, “parlar d’altro”, “fare politica”, esattamente ciò che vorrebbe essere espunto dalla cornice narrativa così sapientemente costruita.
Punto secondo, i fascisti. Come abbiamo poc’anzi detto, questi vengono presentati sempre e comunque come unica presenza politica nella periferia, ruolo questo che mette oggettivamente in secondo piano qualsiasi altra loro presunta contraddizione successivamente rilevata dal giornalista. Tralasciamo per un momento il tentativo (riuscitissimo) di de-ideologizzare il contenuto politico del neofascismo, presentandolo sempre e comunque come “organizzazione dal basso” della “gente del quartiere”. I neofascisti così presentati non si caratterizzano per il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia, la violenza, eccetera, ma come Ong del sociale, poco politica e molto pratica, pochissimo teorica e molto pragmatica.
Come detto, tralasciamo l’argomento per concentrarci sulle “contraddizioni” rilevate di volta in volta dal giornalista di turno. Queste costituiscono in realtà delle false contraddizioni, contraddizioni cioè che rafforzano – piuttosto che indebolire – la vittima.
In primo luogo, in realtà quello meno importante: stiamo parlando di poche decine di persone (nel caso di Forza nuova, una decina in tutta Roma). Eppure, attraverso il travisamento-bombardamento mediatico a cui sono/siamo sottoposti, sembrano migliaia di militanti sociali presenti nei quartieri. E’ il tipico caso di frattura narrativa tra realtà e sua rappresentazione mediatica: a forza di parlarne la gente crederà davvero che questi neofascisti siano tantissimi, quindi si produrrà l’effetto assuefazione che contribuisce fortemente alla loro legittimazione: se sono tanti significa che il loro messaggio politico è convincente. E invece non è così: sono dieci stronzi. Ma chi lo sa? Persino i compagni cadono nel difficile discernimento tra realtà e rappresentazione, credendosi accerchiati da orde fasciste che però sono tali solo in televisione (e nella virtualità online).
Secondo poi, le contraddizioni secondarie rilevate dal giornalista servono a nascondere le contraddizioni principali del neofascismo nei quartieri popolari. Prendiamo il caso di Ostia, cioè di Casapound. Il clan Spada, insieme ad altri (Fasciani, Senese, ecc) gestisce il racket degli stabilimenti balneari, che è uno dei principali problemi lavorativi, economici, ambientali e turistici del litorale. Ostia, un litorale dalle straordinarie potenzialità turistico-ricettive, è da anni abbandonato al degrado proprio per la presenza abusiva di stabilimenti che impediscono il libero accesso al mare da parte di turisti e residenti.
Ecco, tutta la campagna elettorale di Casapound a Ostia è fondata sul rapporto tra neofascismo e stabilimenti balneari. Il motivo è d’altronde immediato: la relazione, accertata, esistente tra Casapound e gli Spada. Questo il primo caso di degrado che ha una precisa responsabilità politica: il neofascismo. Tanto quello sociale, che si manifesta nelle relazioni territoriali nel quartiere, quanto quello politico che tira le fila di queste relazioni. Casapound, presentata come “soluzione” al degrado, fa al contrario ampiamente parte del problema.
Rimaniamo a Ostia. I suddetti clan mafiosi gestiscono anche il racket delle case popolari. In questo caso utilizzare la parola racket è adeguato, perché non si tratta delle occupazioni popolari e collettive portate avanti dai movimenti di lotta per la casa o da singoli occupanti in condizione di disagio abitativo, come ce ne sono a migliaia in tutto il territorio romano, ma della compravendita truffaldina e sottobanco di case appartenenti al Comune e rivendute a privati dietro compenso monetario.
Uno dei motivi (certo non l’unico) per cui a Ostia mancano le case popolari è che queste sono sottratte alla redistribuzione prevista nelle (pessime) graduatorie comunali, ma privatizzate di fatto dai clan mafiosi. Torniamo così alla relazione tra Casapound e gli Spada: perché i responsabili dell’emergenza abitativa di Ostia vengono presentati come possibile soluzione ai problemi del territorio? Perché invece di lasciare il microfono aperto ai selezionati residenti di Ostia non gli viene preventivamente spiegata la natura e i responsabili della loro condizione abitativa?
Questi e altri esempi potrebbero accavallarsi a non finire, l’importante è però cogliere il senso di questa operazione di legittimazione mediatica che sorregge lo sdoganamento politico del neofascismo. Al “potere”, tanto mediatico quanto politico, non interessa il neofascismo in quanto tale. Non siamo nella fase storica in cui c’è necessità di governare le relazioni sociali attraverso lo strumento del fascismo: siamo nella più perfetta pace sociale.
La legittimazione del neofascismo serve alla delegittimazione dell’antifascismo, o meglio: all’espulsione dei caratteri antiliberali dell’antifascismo sociale. La posta in gioco è l’impermeabilità della democrazia liberale, la chiusura dello spazio politico per chi non riconosce le fondamenta liberali/liberiste della rappresentanza politica, tanto nazionale quanto europea. Il neofascismo è il grimaldello, ma utilizzato in forma diversa da come è stato utilizzato nel Novecento. Se nel primo Novecento è servito alla repressione delle classi popolari, e nel secondo Novecento alla repressione delle avanguardie politiche comuniste, nel XXI secolo questo serve alla legittimazione retrospettiva della democrazia liberale quale unico ambito politico della ragionevolezza.
Anche gli argomenti per combatterlo vanno dunque calibrati in tal senso (gli arnesi, invece, rimangono sempre quelli).
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