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Le prigioni del Sahel

Per visitare i detenuti di Marassi a Genova i cancelli telecomandati da varcare erano sette. A Kollo, prigione a una trentina di kilometri da Niamey, le porte da passare sono appena tre. Una recinzione metallica, abbellita da un’artistica porta di ferro appena pitturata, annuncia il primo controllo dell’identità del visitatore. Segue poi un cortile di sabbia che conduce all’ingresso della prigione.

Il secondo controllo è più accurato da quando, tra i detenuti, ci sono centinaia di sospetti militanti o simpatizzanti di Boko Haram da anni in attesa di giudizio. E più ancora da quando la prigione di massima sicurezza di Koutoukalé è stata attaccata da presunti salafiti che volevano liberare alcuni compagni ivi detenuti.

Si raggiungono e passano, infine, le due ultime porte che permettono l’accesso al piccolo cortile interno di forma rettangolare. In alto, per la ronda delle guardie, appare un muretto e uno scampolo di filo spinato arrotolato, sul quale si posa il cielo.

Ma qui e nello spazio del Sahel le peggiori prigioni sono altre. Per esempio quella della violenza disarmata di cui l’ingiustizia costituisce la fonte di approvvigionamento principale. Proprio l’ingiustizia, trasformata in fenomeno naturale o culturale, è alla radice dell’esclusione sociale della maggior parte dei cittadini del Paese. Chi non ha (denaro, beni e dunque potere) non è nessuno e la sparizione forzata di persone nel Sahel rende visibile quanto la società stava già producendo.

La presa in ostaggio dell’educazione statale come luogo di trasmissione creativa e critica del sapere in funzione del bene comune data ormai da alcuni lustri. Il sistema sanitario esprime la stessa radicale selettività: solo chi ha soldi in quantità sufficiente può sperare di essere accolto, visitato e accudito. Ma è il rapimento del futuro alle nuove generazioni a costituire il peggiore reato di cui dovranno rendere conto gli amministratori della politica. Un crimine reso finora impunito.

Invece è la violenza armata quanto, non da oggi, diventa la più visibile, assumendo abusivamente il monopolio della violenza. Quest’ultima costituisce una prigione reale per migliaia di persone. Prima di tutto per quanti continuano a perpetrare atti di morte e di terrore. Prigionieri incatenati ad una logica basata sul tradimento del fattore umano che accomuna gli abitanti di questo strano pianeta chiamato terra, casa comune per tante generazioni. E poi la prigione delle vittime, costrette a fuggire per salvarsi o occupati a seppellire i morti.

Centinaia di migliaia, milioni di esserei umani costretti ad abbandonare le case, i campi e la speranza di una vita differente. Una prigione mentale e ideologica che vede nelle armi sempre più sofisticate e soldati sempre meglio equipaggiati e preparati la chiave della vittoria finale. La prigione del pan-militarismo del Sahel è una trappola a forma di carcere nella quale siamo da tempo caduti.

La prigione della paura è quella che, tra tutte, appare come la più subdola e pericolosa. Si è andata formando col tempo e le traversie post e neo coloniali. Una sorta di contagio che ha infettato gli intellettuali, i militanti più agguerriti, i partiti di opposizione, i sindacati e buona parte della società civile. Si è andata affermando l’autocensura del pensiero, della parola e infine dell’azione. Pochi i mezzi di comunicazione che sono passati indenni da questa triste malattia che ha espunto la verità dal proprio bagaglio di viaggio.

Le complicità autoctone si sono viste confermate da strategie esteriori che sotto la minaccia economica e finanziaria hanno debellato ogni velleità di autonomia politica. Financo la religione, manipolata ad uso e abuso del potere, si è lasciata imbavagliare. Per codardia e interesse, ha venduto l’assoluto del messaggio della misericordia divina che umanizza, per la stabile tranquillità di chi è al potere.

Nel carcere di Kollo un detenuto oggi era contento perché, dopo 15 anni, ha per la prima volta ricevuto la visita di un cugino.

 Niamey, maggio 2019

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