È sbagliato però estendere lo stesso ragionamento al debito statale perché esso si rapporta all’insieme dell’economia. Partendo da un rapporto iniziale tra debito pubblico (numeratore) e reddito nazionale (denominatore), il rientro dal debito dipende dall’espansione del denominatore rispetto al numeratore, una volta noto il saggio di interesse. Per tutto il 2010 Grecia e Irlanda hanno effettuato tagli mostruosi al bilancio pubblico ritrovandosi con un debito accresciuto. I tagli alla spesa, alle pensioni e i licenziamenti nel pubblico impiego hanno fatto crollare il reddito nazionale. La caduta del Pil (il denominatore) ha pertanto impedito di ottenere un aumento delle entrate fiscali compatibile con la manovra di rientro dal debito. Man mano che l’operazione falliva aumentava il saggio di interesse di rischio (spread) sui buoni pubblici greci aggravando sia il debito che il bilancio corrente. Ne consegue una verità lapalissiana: ridurre il numeratore, il debito, riduce anche e maggiormente il reddito nazionale, cioè il denominatore.
A prescindere dall’uscita dalla stagnazione in corso, può un’economia con un alto debito pubblico evitare il ciclo infernale del marasma finanziario causato dell’aumento del saggio di interesse di rischio sui titoli cui si risponde con dosi crescenti di austerità?
Prendiamo il caso del Giappone. Tokyo è in stagnazione da due decenni e ha accumulato enormi capacità produttive eccedentarie. Dal 1993 il governo ha fatto di tutto per sostenere le varie componenti del capitale nipponico senza riuscire a rilanciare l’economia. Anche per il Giappone i conti esteri, sebbene siano positivi, non costituiscono più una soluzione. Tuttavia il fatto che il debito pubblico giapponese abbia raggiunto il 210% del Pil (l’Italia è al 120%) non si accompagna ad impennate nel saggio di interesse sui bond di Tokyo.
L’anno scorso le agenzie di rating emisero un avviso di rischio senza che vi fosse alcun effetto sui tassi applicati ai titoli giapponesi che continuano a essere fissati a un livello minimo rapportato allo 0,3% della Bank of Japan. Esaurite le spinte dei rilanci varati nel 2009/10 quest’anno il Pil scenderà nuovamente di circa l’1% mentre il deficit è al 9%. I mercati dovrebbero essere pieni di adrenalina nipponica. Invece si sostiene che la calma del mercato dei titoli di Tokyo è dovuta al fatto che essi sono per il 95% detenuti da entità giapponesi.
Anche l’85% dei titoli italiani è in mani italiane. In Giappone però la Bank of Japan e il Tesoro operano di concerto. Il primo emette buoni a basso tasso di interesse e la seconda li compera. Inoltre, dato il sistema feudal-capitalistico del Giappone, Tokyo «consiglia» alle banche private di acquistare i titoli pubblici a rendimenti effimeri. La chiusura del circuito finanziario tramite l’alleanza tra Bank of Japan e Tesoro neutralizza la volatilità dei prodotti derivati (CDS) abbinati ai titoli pubblici. In Italia invece gli spread aumentano perché i mercati sanno che il sistema dell’euro conferisce ai mercati privati il rifinanziamento del debito. Anche se l’85% dei titoli è in mani italiane il circuito si spezza in rapporto ai CDS ubicati ovunque che entrano in fibrillazione. Quindi la differenza cruciale tra l’Italia e il Giappone, e anche tra l’Italia e gli Usa se innalzano il tetto del debito, sta nella separazione totale tra le due braccia della politica economica, quella fiscale del Tesoro e quella monetaria della Banca Centrale con il dominio della seconda sulla prima.
La separazione è solo apparentemente vincolante. È il prodotto dei rapporti tra la Germania e la Francia e l’esperienza del 2003-4 e del 2008-9 ha dimostrato che quando non conviene sia Berlino che Parigi sono pronte a liberarsi dei vincoli. In teoria potrebbe farlo anche l’Italia. Però nell’assetto attuale, perfetto per le politiche di deflazione sociale, pensionistica e salariale, non esiste la possibilità di trovare una soluzione se non attraverso un deciso scontro sociale che cambi i termini e le priorità di riferimento.
Tempo scaduto per l’Occidente
Mario Margiocco
L’Italia non è la Grecia e gli Stati Uniti non sono l’Italia, e il credito sui mercati è molto diverso. Detto questo, il debito pubblico pro capite è 34mila dollari in Grecia, 39mila in Italia e vicino ai 50mila negli Stati Uniti.
Questo se per gli Stati Uniti si prende la misura ormai di riferimento, ma sempre benevola, dell’intero debito federale, e non altre più benevole ancora. Se poi si guarda tutto il debito già maturato, e garantito, con Stati ed enti locali e il disastrato sistema finanziario/immobiliare pubblico (Fannie, Freddie e altro), si arriva a circa 70mila euro pro capite. Il doppio di Atene. Dietro c’è l’America e non i monti della Grecia, certo. Con famiglie imprese e sistema finanziario si arriverebbe in America a un debito totale interno di oltre 160mila dollari pro capite.
Per una serie di fattori, storico-istituzionali, economici, tecnologici, e altro, la situazione americana è sul lungo periodo migliore di quella europea. C’è per incominciare un solo Governo e un solo Parlamento, e non 17 come nell’area euro. Ma sul breve-medio periodo il confronto non è così chiaro.
Nel 2008 molti colsero subito la dimensione epocale della crisi e alcuni, come Roger C. Altman, ascoltato finanziere di Wall Street, dichiararono che il tutto avrebbe messo a dura prova il prestigio dell’Occidente, America ed Europa. Siamo a questa prova.
Nell’area euro la crisi ha almeno cinque componenti, quattro economiche e una istituzionale. I costi della débâcle finanziaria, diretti e indiretti, assai minori di quelli americani, ma ingenti. Il credito facile del dopo euro, con il rischio-Paese diminuito si pensava, da qui la generosità bancaria verso Atene. La realtà di Paesi a forte debito pubblico, Italia in testa, pur in un’area euro che come ieri ricordava Il Sole 24 Ore è assai meno indebitata degli Usa. Quarto, gli squilibri interni alla zona euro, tra paesi forti e non. E infine la mancanza di un assetto istituzionale adeguato alla moneta unica. La conseguenza è che il convoglio dell’euro rischia di perdere pezzi.
Le componenti-chiave della crisi americana sono tre, due economiche e una politica. I costi della crisi che, nonostante i dinieghi della Washington ufficiale, sono altissimi, circa doppi rispetto all’Europa quelli diretti e molto più alti gli indiretti. Secondo, i livelli di debito totale interno, già abnormi (nel 29 era, sul Pil, meno della metà rispetto al 2008). E infine, la politica: la tenace convinzione che comunque le tasse devono essere basse e che ogni dollaro dato a Washington è tolto a un’America che invece saprebbe farlo fruttare meravigliosamente. Era più vero in passato, lo è assai meno oggi, ma è un mito rilanciato dal reaganismo e duro a morire. Così si rinuncia allo spazio di manovra fiscale che in America, con un prelievo totale sotto il 30% del Pil, è notevole, a fronte del 45% europeo.
Molti americani pensano che lo “statalismo” europeo sia una minaccia, invocano il libero mercato e ignorano quanto dicono gli ultimi dati della Federal reserve (Flow of Funds): per la prima volta il sistema del credito – mutui, finanziamento dei consumi e altro – è da poche settimane più affidato alle garanzie di Washington che non alla libera offerta privata.
All’insufficienza istituzionale europea e alle stridenti disparità di efficienza sotto il tetto dell’euro si oppone in America una grossa confusione di idee, tra mito e realtà.
L’autunno dell’Occidente è alle porte.
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