La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.
Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).
Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.
E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).
Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.
Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.
Mentre la geniale “opposizione democratica” (ZingaRenzi-Repubblica-Corriere) critica il governo… chiedendo ancora più austerità! Poi si meraviglia di come vanno le elezioni…
Quello che la narrazione mainstream – “europeista”, insomma – nasconde con tanta cura è che la percentuale con cui viene espresso il debito pubblico risulta da un calcolo presentato come semplice, ma economicamente molto complesso, che deve tener conto di molti fattori e alcune distorsioni statistiche. Per la parte tecnica, come spesso facciamo, rimandiamo alla lettura – qui di seguito – dell’ottima analisi di Guido Salerno Aletta, apparsa su Milano Finanza.
Noi ci limitiamo a sottolineare il dato politico: l’insieme di strumenti imposti dai trattati europei – taglio della spesa pubblica, privatizzazioni, liberalizzazioni, facilitazioni per le imprese, taglio delle pensioni e allungamento dell’età pensionabile, precarietà contrattuale, deflazione salariale, ecc – non è efficace per curare quella malattia (il debito pubblico). Anzi l’aggrava. In primo luogo perché la crescita economica (in larga parte dipendente dal contesto internazionale) viene scientemente depressa: meno spesa uguale meno investimenti e reddito circolante, salari più bassi e precari uguale meno consumi (e meno innovazione tecnologica da parte delle imprese), e via così. Una spirale senza fine verso il basso.
In più, ci ricorda Salerno Aletta, c’è una Banca centrale europea che non riesce neppure – per un deficit statutario gravissimo – a dare un minimo contributo alla risalita dell’inflazione verso l’obbiettivo dichiarato (il 2% annuo); il che contribuisce negativamente.
Poi c’è lo spread. Terribile cerbero gestito direttamente dai “mercati”, che fa salire quasi a piacimento il “servizio del debito”, ossia la quota di interessi da pagare annualmente a chi compra i titoli di stato italiani. Una quota che si mangia sistematicamente quel faticato avanzo primario e anche molto di più.
Qui l’Unione Europea è intervenuta a fissare come trattato una scelta suicida operata “spontaneamente” dal governo italiano del 1981, con al Tesoro Nino Andreatta, quando il debito pubblico era abbondantemente al di sotto del 60% poi imposto come parametro nel trattato di Maastricht. Si tratta della “separazione tra Banca d’Italia e Tesoro” (il ministero che emetteva i titoli di stato, oggi assorbito in quello dell’economia), per cui la banca centrale non può più acquistare i titoli di stato, contribuendo così a tenere alto il prezzo e basso il rendimento (ossia gli interessi da pagare, il “servizio del debito”).
Da allora e fino ad oggi, quindi, lo Stato – ed ora ogni stato dell’Unione – deve cercare soltanto “sui mercati” le risorse finanziarie di cui ha bisogno; ed è quindi obbligato ad offrire i tassi di interesse più “appetibili” oppure – il che è lo stesso, ai fini contabili – a vedersi offrire un prezzo molto inferiore di quello nominale per ogni titolo (100 euro, in genere).
In pratica, gli Stati europei sono tutti sotto botta di strozzini professionali molto ben vestiti, in particolare quelli con un debito pubblico più alto, per cui lo spread (il differenziale rispetto ai rendimenti dei titoli di altri Stati) è più elevato, il che contribuisce non poco ad aumentare il debito stesso e a frenare la crescita.
Da questa trappola, a rigor di trattati, non si può e non si deve uscire. E quindi si è condannati, come paese, a una morte lenta, per consunzione, cedendo un pezzo dopo l’altro dei “gioielli di famiglia”, ossia dei pilastri che avevano reso il paese uno dei sette più industrializzati del mondo.
Naturalmente questa agonia non è uguale per tutti. Banche, assicurazioni e imprese riescono comunque a sopravvivere, magari facendosi assorbire da concorrenti più forti basati in paesi “partner”. La popolazione, comprese larghe fasce dell’antico “ceto medio”, no. Le dinamiche elettorali, come sappiamo, riflettono esattamente questo processo, offrendo a poco prezzo consenso al primo pirla che promette il bengodi domattina.
Del resto questo processo rappresenta nient’altro che un gigantesco trasferimento di ricchezza dalla produzione e dai consumi alla rendita finanziaria, ovvero una tesaurizzazione del patrimonio (per chi ce l’ha…) garantita proprio dalla rendita parassitaria sul debito pubblico.
Comunque una via di fuga o di riduzione del danno – senza mettere in discussione nessun trattato – potrebbe anche esistere. Ed è quella proposta dall’amministratore delegato di Banca Intesa, Carlo Messina, che già da qualche mese va suggerendo una “mobilitazione del risparmio privato” utilizzando il patrimonio immobiliare pubblico (anche delle amministrazioni locali).
Le controindicazioni sono evidenti (lo Stato e gli enti locali cedono la proprietà immobiliare a fondi finanziari privati, restando privi di ulteriori margini di compensazione), ma l’effetto sul debito anche. Drastico, radicale, nell’ordine dei 1.000 miliardi sui più dei 2.300 attuali. Quello sullo spread, e sul servizio del debito, anche.
Al ministero dell’economia cominciano a pensare seriamente e questa possibilità che, se realizzata in maniera efficace (c’è da dubitarne, conoscendo i protagonisti del governo attuale), potrebbe dare qualche anno di fiato alle finanze pubbliche, permettendo investimenti indispensabili senza più infrangere – per un po’ – nessun obbligo europeo. Ovvio che l’effetto sulla crescita economica sarebbe molto diversi a seconda degli investimenti fatti: se “produttivi” (rilevamento di attività industriali a rischio delocalizzazione o svendita, creazione di nuove attività, ecc) sarebbero di lungo periodo, se sulle “grandi opere” per i soliti costruttori, quasi per nulla e solo nell’immediato.
Perché diciamo “per qualche anno”? Perché la gabbia dei trattati, in questo modo, resterebbe assolutamente intatta. E continuerebbe a macinare, ripristinando, prima o poi, la situazione attuale. Dopo, resterebbero da “sacrificare” al dio Baal dei “mercati”solo i conti correnti di ognuno di noi. Se, con i salari e le pensioni attuali, potremo ancora disporne…
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Come dribblare lo spread
Guido Salerno Aletta
La questione della riduzione del debito pubblico italiano è tornata alla ribalta. E’ un evergreen. Nella lettera che la Commissione europea ha inviato al Ministro dell’economia Giovanni Tria lo scorso mercoledì 29 maggio, a firma del Commissario agli affari economici Pierre Moscovici e del Vice Presidente Valdis Dombrovskis, si chiedono informazioni sul mancato rispetto nel 2018 delle regole a tal proposito dettate dal Fiscal Compact. Si riavvia così una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo, fin qui sospesa tenendo conto degli sforzi sostenuti in passato. E’ una prospettiva assai pericolosa, politicamente e finanziariamente.
Sarebbe l’occasione buona per mettere in luce le incongruenze di fondo del sistema dei parametri europei, che vanno molto al di là della asserita “stupidità” del tetto al rapporto del 3% tra deficit pubblico e pil, che fu inserito sin dal 1992 nel trattato di Maastricht. Ci sono infatti responsabilità anche della politica monetaria, per quanto riguarda l’inflazione, che invece ricadono sui governi, che sarebbero gli unici manchevoli rispetto agli obiettivi posti alle politiche di bilancio.
In ogni caso, invece, è l’occasione per prendere finalmente atto del fallimento della ormai ultra ventennale strategia di risanamento finanziario basata sull’accumulazione di avanzi primari di bilancio. La crescita economica ne risente negativamente, i progressi nella riduzione del debito sono faticosi e malcerti, mentre l’economia rimane pericolosamente esposta agli shock esterni: tutte le crisi, quelle del ’73, dell’80, del ’92, del 2008 e del 2011, sono state di origine esogena.
La Commissione europea, che agisce nell’ambito dell’attività di sorveglianza sulle politiche fiscali, ha rilevato che i dati relativi al 2018 confermano che l’Italia non ha fatto sufficienti progressi per rispettare i criteri per la riduzione del debito. Si accinge dunque a predisporre la relazione prevista dall’art. 126(3) del Trattato ai fini della apertura del procedimento di infrazione per disavanzi pubblici eccessivi.
Nel caso del debito, viene disposta quando il rapporto tra quest’ultimo ed il prodotto interno lordo supera il valore del 60%, “a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato”.
Questa clausola di salvaguardia, alquanto generica, fu inserita sin dal Trattato di Maastricht su richiesta dell’allora Ministro del tesoro Guido Carli, come condizione per acconsentire alla adesione dell’Italia. Più di recente, nel Fiscal Compact è stato precisato che cosa si intende per ritmo adeguato di riduzione del debito: lo si riscontra quando “la parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo l’anno”.
Per il calcolo, si applica il Reg. (CE) 1467/97, come modificato dal Reg. (UE) 1177/2011, che considera sia il periodo precedente all’anno di riferimento, sia la prospettiva pianificata. Inoltre, l’articolo 3(2), prevede che “la Commissione tiene in debita ed esplicita considerazione tutti gli altri fattori che, secondo lo Stato membro interessato, sono significativi per valutare complessivamente l’osservanza dei criteri relativi al disavanzo e al debito e che tale Stato membro ha sottoposto al Consiglio e alla Commissione….”.
Occorre ricostruire a questo punto che cosa è successo nel 2018. I punti di partenza sono rappresentati dalla legge di bilancio per il 2018, varata dal governo Gentiloni a fine 2017, e dal successivo Def 2018, presentato alla vigilia delle elezioni, che conteneva la sola versione pluriennale tendenziale. Si lasciava al successivo governo la definizione degli obiettivi programmatici per il 2019. Per il 2018, le due principali grandezze macroeconomiche indicate nel Def erano: pil reale +1,5%, deflatore +1,3%, pil nominale arrotondato al +2,9%. Sempre per il 2018, gli andamento di finanza pubblica, previsti in rapporto al pil, erano: indebitamento -1,6%, saldo primario +1,9%, debito pubblico (lordo sostegni) 130,8%.
Si prevedeva dunque nel 2018 una terza riduzione consecutiva del rapporto debito/pil, rispetto al 132% del 2016 ed al 131,8% del 2017. Fu sulla base di questi risultati e delle previsioni contenuti nel Def, che la Commissione europea decise, già lo scorso anno, di soprassedere all’apertura di una procedura formale di infrazione per debito eccessivo.
I risultati macro del 2018 non sono stati coerenti con le attese: pil reale +0,9% (-0,6% rispetto alle previsioni); deflatore +0,8% (-0,5%). La crescita del pil nominale, consuntivata all’1,7%, è stata complessivamente inferiore dell’1,1% rispetto alle stime del Def, come peraltro si andava già ipotizzando nella Nota di aggiornamento di settembre. Tutti i rapporti delle grandezze della finanza pubblica, misurati rispetto al pil nominale, sono stati conseguentemente diversi: indebitamento -2,1% (-0,5% rispetto alle previsioni); saldo primario +1,6% (-0,3%); debito pubblico 132,1% (+1,3%). Su quest’ultimo dato si è appuntata ora l’attenzione della Commissione.
In realtà, nel 2018, il rapporto indebitamento/pil è comunque migliorato rispetto ai risultati del 2017: -2,1%, a fronte del precedente -2,4%; parimenti, il saldo primario è stato del:+1,6% a fronte del +1,4% dell’anno prima. Il rapporto debito/pil, che nel 2018 è stato pari al 132,1% va più correttamente ragguagliato al 131,3% del consuntivo consolidato del 2017, quale risulta ora dall’Istat, risultando un peggioramento solo dello 0,8%.
Qui sta un nodo dei vincoli europei, che fanno riferimento al pil nominale, e quindi anche sull’andamento dell’inflazione su cui i governi possono incidere ben poco. Basta vedere l’andamento negli ultimi anni del deflatore del pil in Italia: + 1% nel 2014; +0,9% nel 2015; +1,2% nel 2016; +0,4% nel 2017 e +0,8% nel 2017. Sommando gli incrementi, in cinque anni il deflatore è cresciuto del 4,3%: una percentuale molto lontana dall’obiettivo perseguito dalla Bce, di un aumento annuo dei prezzi che sia vicino ma non superiore al 2%. Non è andata meglio con l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie (HICP): fatto 100 il livello del 2015, si è passati da 99,9 del 2014 a 102,5 del 2018, con un incremento di appena 2,6 punti in cinque anni.
I valori assoluti dimostrano invece che, tra il 2017 ed il 2018, il controllo sulla finanza pubblica italiana è stato efficace: l’indebitamento è sceso da 41,5 a 37,6 miliardi di euro (-3,9); il saldo primario è aumentato da 24 a 27,3 miliardi (+3,3); il prelievo fiscale è aumentato da 726,9 a 739,6 miliardi (+12,7).
Mentre il pil nominale è cresciuto dai 1.724,2 miliardi di euro del 2017 ai 1.753,9 miliardi del 2018 (+29,7), il debito pubblico è aumentato dai 2,263,5 miliardi di euro del 2017 ai 2.316,7 del 2018 (+53,2), con un incremento quasi doppio all’andamento di quest’ultimo, e comunque ampiamente superiore al fabbisogno delle PA, che si è ridotto nello stesso periodo da 59,2 a 40,4 miliardi (-18,8), mentre le disponibilità liquide del Tesoro aumentavano di 5,8 miliardi. Ci sarebbero dunque, fattori endogeni più complessi che portano ad una crescita ulteriore dello stock del debito dell’ordine di mezzo punto percentuale di pil (7 miliardi).
Se, però, nel 2018, per ragioni di carattere internazionale del tutto al di fuori della capacità di controllo del governo italiano, la crescita non si fosse contratta, passando da una previsione del +1,5% al consuntivato +0,9%, ed il deflatore del pil non fosse stato del +1,3% e non del +0,8%, anche il rapporto debito/pil sarebbe stato centrato.
Al di là, quindi, della risposta tecnica che verrà fornita alla Commissione europea dal Ministero dell’Economia, sul tema del debito occorre assumere una chiara decisione politica. Rappresenta da decenni un problema non solo economico e finanziario, ma soprattutto istituzionale, che condiziona anche le relazioni internazionali.
In periodi di bassa crescita, e soprattutto di inflazione sempre più contenuta rispetto alle rosee previsioni, come accade anche per quelle della Bce, non si può contare soprattutto su quest’ultimo fattore per cercare di rispettare i vincoli europei, come si è fatto in passato. Anche una politica salariale costrittiva, per aumentare la competitività, non aiuta a far salire l’inflazione e quindi il pil nominale. Anche lo strumento tradizionale, l’aumento del saldo primario, contribuisce alla riduzione ulteriore del ritmo di crescita. Per riequilibrare la finanza pubblica e rinvenire lo spazio per nuovi investimenti, occorre ridurre il costo degli interessi sul debito, che assorbono il 3,7% del pil.
Esiste un consistente ammontare di risparmio delle famiglie, spesso depositato a vista o a breve termine presso gli intermediari monetari, che lo impiegano in titoli del debito pubblico, uno strumento caratterizzato da altrettanta elevata liquidità ma anche da una pericolosa volatilità. Esiste di converso, sul versante degli attivi pubblici, un ampio patrimonio immobiliare anche e soprattutto a livello locale, tutto da valorizzare: di questa prospettiva è dichiaratamente convinto uno dei principali banchieri italiani, Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo. Occorre dunque mobilitare congiuntamente il risparmio privato e questi asset pubblici, agevolando fiscalmente questa operazione.
Bisogna sottrarre l’Italia al ricatto continuo dei mercati ed al giogo delle regole, anch’esse soventemente strumentalizzate. Siamo andati avanti, fin troppo a lungo, con soluzioni che si dimostrano sempre più costose e sempre meno efficaci.
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