“Il rimbalzo, il rimbalzo!”. Sui mercati europei – ma non su quelli asiatici – va in scena la pù classica delle maschere: il rialzo – temporaneo – delle quotazioni dopo diverse giornate di vendite. Ben sette consecutive, come accade solo nei periodi davvero drammatici.
Milano è come al solito la più “estremista” (+4,5%, alle 11 di mattina), perché piccola e quasi monopolizzata dal settore bancario (oltre il 40% della capitalizzazione, mentre le imprese nazionali preferiscono non quotarsi e reperire altrimenti le risorse finanziarie), mentre Londra prosegue come sempre nel suo ruolo di “punto medio” tra andamenti europei e dinamiche Usa.
Naturalmente nessuno fa finta di pensare che una giornata di bel tempo sia la fine della tempesta. La domanda che resta in sospeso, sui giornali più seri, è semplice: cosa sta accadendo e come faremo ad uscirne?
Domanda semplice ma problema enorme. Non basta una sola testa per mappare la quantità di nodi venuti al pettine, così vengono sguinzagliati i migliori analisti perché indaghino ognuno un pezzo del mercato finanziario globale, chiamando a rispondere gli stessi operatori di mercato. Non ne viene fuori un quadro rassicurante.
La prima cosa che balza agli occhi è che tutti attendono lumi dei governatori delle principale banche centrali (Federal Reserve, Bce, Boj). Come i mitici mercati “capaci di autoregolazione” fossero alle prese con una imprevista crisi di razionalità, al punto da dover confidare che sia “il pubblico” (le banche centrali hanno sempre qualcosa a che fare con la politica statuale, anche quando agiscono in presunta totale autonomia) a tracciare le coordinate e la direzione di marcia. I più nervosi arrivao addirittura a sottolineare la gravità del silenzio che in questi giorni viene osservato a Washington, Francoforte e Tokyo (Pechino è addirittura in vacanza, per il capodanno cinese), privando così gli operatori della bussola. Oggi pomeriggio parlaerà davati al Congresso Janet Yellen, presidente della Fed, e le sue parole verranno vivisezionate come non mai.
Poi è tutto un’orgia di ragionamenti tecnico-finanziari, in cui sembra perdersi anche il più navigato degli osservatori professionali (alla faccia dei bastardi che spiegano a pensionati e salariati – truffati dalle banche – che dovrebbero farsi una “migliore cultura finanziaria”). Prendiamo le “piscine oscure” di cui Enrico Marro, su IlSole24Ore, descrive lucidamente sia la ragion d’essere che la dinamica:
Sono gigantesche piattaforme finanziarie non trasparenti, esterne ai circuiti regolamentati. Non espongono pubblicamente i prezzi. Le utilizzano i grandi investitori istituzionali per concludere enormi transazioni nel più totale anonimato. Con il grande vantaggio, rispetto alle normali Borse, di minimizzare i costi della negoziazione e lo stesso impatto sul mercato […]. Nelle dark pools […] non si sa chi sta effettuando la transazione e a che prezzo. Ci si muove, appunto, nell’oscurità.
Naturalmente ogni “piscina” ha un proprietario, quasi sempre una maxi-banca d’affari (Ubs, Credit Suisse, IEX (non una banca, ma “una piattaforma dedicata alla protezione dell’invetitore”), Deutsche Bank, Morgan Stanley, Jp Morgan Chase, Merril Lynch, Barclays. I soliti noti, che possono così giocare a rimpiattino persino con i mercati ed i clienti, tanto da essersi guadagnati più volte pesanti multe – negli Usa! – per aver sfavorito “tecnicamente” gli investitori non privilegiati. Possono aumentare il caos, e guadagnarci sopra, ma non possono esser considerate la causa dei crolli di borsa.
Qualcosa di più preciso arriva dalla rilevanza delle “vendite forzate”, da parte di soggetti che “devono” assolutamente vendere – a qualsiasi prezzo o quasi – per le ragioni più varie. C’è per esempio il meccanismo del margin call, descritto così da Morya Longo sul quotidiano di Confindustria:
tanti investitori nei mesi passati hanno preso in prestito denaro mettendo azioni a garanzia. Ora che i mercati azionari tracollano, le banche finanziatrici stanno chiedendo loro di reintegrare le garanzie. Cioè di mettere in pegno ulteriori azioni, oppure denaro cash. In gergo questa richiesta di reintegro si chiama «margin call»
Qualcuno ha i soldi per farlo. Qualcuno altre azioni. Ma molti investitori non ce la fanno. Morale: quando un cliente non è in grado di reintegrare le garanzie, le banche finanziatrici sono costrette a vendere in Borsa le azioni che erano state messe in pegno per chiudere il finanziamento con il denaro ricavato. Ecco dunque che il ribasso delle Borse alimenta nuove vendite forzate di azioni. È difficile avere numeri di questo fenomeno, ma tra gli addetti ai lavori si dice che sia sempre più diffuso. Come una valanga.
Un meccanismo che in qualche misura chiama in causa anche i fondi sovrani dei paesi produttori di petrolio:
giganteschi “salvadanai” dove negli anni passati sono confluiti i petrodollari. E si tratta di tanti soldi: secondo il Sovereign Wealth Fund Insititute, questi soggetti detengono un patrimonio di 7.200 miliardi di dollari, investito in giro per il mondo. Anche in Borsa.
Questo è il problema: ora che il petrolio vale 30 dollari, i fondi sovrani sono costretti a smobilizzare parte dei loro investimenti per aggiustare i bilanci pubblici in patria. Secondo i calcoli di Lyxor, avrebbero già liquidato qualcosa come 300 miliardi di dollari di titoli negli ultimi mesi. Non vendono perché vogliono, ma perché devono: parte del crollo delle Borse è dunque causato anche da loro.
Ci sono poi le assicurazioni e i fondi pensione che
soprattutto di Gran Bretagna e Olanda […] in passato avevano infatti l’abitudine di erogare polizze vita o prestazioni pensionistiche con un tasso minimo garantito. Secondo l’Eiopa i tassi minimi che questi soggetti garantiscono, negli ultimi anni si sono collocati tra l’1% e l’1,5%. Questo è il problema. Se il tasso dei Bund trentennali scende sotto queste soglie (come sta accadendo), significa che le assicurazioni tedesche e i fondi pensione sono costretti a garantire nei prossimi 30 anni prestazioni pensionistiche con tassi superiori a quelli dei titoli su cui loro stessi possono investire. Un problema enorme […]
da cui cercano di scappare
comprando “protezione” sui mercati dei derivati. Tecnicamente comprano «swaption»: unico modo per garantirsi (pagando) un rendimento minimo alle loro attività. C’è solo un “piccolo” effetto collaterale: le banche d’affari che vendono alle assicurazioni queste «swaption», devono a loro volta coprire i rischi sul mercato. Dunque comprano futures sui Bund a 10 o 30 anni a piene mani, deprimendo ulteriormente i rendimenti dei titoli tedeschi. Ecco perché lo spread con i BTp sale: almeno in parte, è un movimento forzato.
Tutto chiaro? Forse non molto, lo ammettiamo. Ma è di fatto un gioco di ruolo, in cui “la protezione” dal rischio viene fornita l’uno con l’altro, ma in fin dei conti dai titoli di stato dei paesi considerati oggi più solidi. Che subiscono così pressioni automatiche, con buona pace di tutte le cazzate dette e imposte dalla Troika ai paesi più deboli e indebitati.
E che c’entra tutto ciò con l’economia reale? Nulla o quasi, come ragione dei movimenti di capitale. Ma moltissimo come conseguenze pratiche, per esempio con il rallentamento del credito per imprese e famiglie, considerati entrambi – con notevole improntitudine – “attività a rischio”; con la svalutazione azionaria di società che a quel punto devono finanziarsi a debito anziché attraverso le borse, ecc.
L’elenco dei nodi irrisolti potrebbe continuare a lungo. Ma non cambierebbe di molto la natura del problema centrale: niente tiene più, su nulla si può chiedere di avere “fiducia”. E anche i governatori delle banche centrali, a questo punto, sembrano aver perso la favella. Faranno certamente whatever il takes, come promesso. Ma il dubbio che neanche questo sarà sufficiente a ricreare la “normalità”, ossia la crescita, per quanto moderata, è ormai entrato negli algoritmi che determinano i movimenti di capitali in un nanosecondo.
Tenetevi forte, qui si balla davvero.
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