Menu

Carcere e Covid-19: un’emergenza che ha radici lontane

In questi giorni, caratterizzati dall’emergenza sanitaria dovuta al propagarsi del Covid-19, emergono con forza le problematiche che investono gli istituti di pena e che, come Associazione, denunciamo costantemente: il virus mostra con violenza i limiti di un sistema repressivo e sanzionatorio che non riesce nell’unico scopo cui, costituzionalmente, dovrebbe esser deputato, la rieducazione ed il reinserimento dei soggetti detenuti. Scopo rieducativo che, in assenza di politiche volte alla rimozione delle cause economiche, sociali e culturali che sono all’origine dei fenomeni criminali, finisce per rappresentare una mera copertura ideologica della segregazione.

La situazione di drammatico sovraffollamento in cui versano le nostre carceri è nota: al 23 marzo erano ancora circa 8.000 i detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare (58.858 detenuti in forza a fronte di 50.931 posti regolamentari). Le strutture campane soffrono pressoché tutte di un esubero importante: al 29 febbraio nella casa circondariale di Poggioreale c’erano 2094 detenuti, dove avrebbero potuto essercene solo 1644; a Benevento il tasso di sovraffollamento è prossimo al 200% (420 detenuti per 261 posti regolamentari), solo per citare alcuni esempi.

Con un tale sovraffollamento, le soluzioni proposte per evitare il propagarsi dei contagi appaiono irrisorie: l’aver sospeso i colloqui con i familiari, nella vana speranza di rendere impermeabile il carcere ai contatti con l’esterno, che comunque si realizzano per il tramite della polizia penitenziaria ed il personale civile, non renderà più facile garantire il rispetto di un metro di distanza tra un detenuto che, attualmente, è assolutamente impossibile.

Davvero possiamo credere che l’isolamento precauzionale del detenuto che presenta i sintomi del virus – che si propaga per via aerea – sia una misura sufficiente alla messa in sicurezza di quanti abitano quegli stessi luoghi angusti?.

Come si pensa di attuare tale isolamento? Chiudendo un solo detenuto in un’unica sezione? Per quanto tempo? Chi avrà il compito di curarlo, portargli il vitto, apprendere eventuali richieste? Si pensa davvero di rispettare in tal modo la dignità di una persona malata, seppur ristretta?

Cella, carcere.
Richiesta di aiuto.

Il risultato finale sarà, verosimilmente, quello di creare dei grandi lazzaretti che, se dovessero trasformarsi in veri e propri focolai (come peraltro sta avvenendo nelle case di cura per anziani) avrebbero un impatto fatale su un sistema sanitario nazionale già messo a durissima prova da anni di politiche neoliberiste e di tagli alla sanità.

Tali misure appaiono inadeguate ed approssimative e sono la sintomatica espressione della volontà di sedare le paure della popolazione detenuta. La paura di finire come topi in gabbia, paura che è stata il motore delle recenti rivolte.

Rivolte a cui il Ministro della Giustizia ha risposto con un assordante silenzio, finanche sulle cause delle tragiche morti che si sono consumate in quei giorni. I provvedimenti adottati nel d. l. n. 19/2020, artt. 123 e 124: che rappresentano la modifica, in pejus, di una legge svuota carceri già esistente. Il peggior trattamento consiste nel vincolare i domiciliari alla disponibilità di braccialetti elettronici (assolutamente insufficiente rispetto alla platea di aventi diritto, nonostante gli altri 2.500 che dovrebbero arrivare) e nell’escludere dall’accesso a tale beneficio i detenuti che hanno partecipato alle rivolte, esclusione che avviene in automatico, sulla base di un mero rapporto, senza un previo e approfondito accertamento da parte di un tribunale: una vera e propria forma di giustizia sommaria.

Le carceri vivono una situazione perennemente emergenziale, di cui l’enorme sovraffollamento in cui sono obbligate a vivere le persone ristrette è la spia più evidente.

Questo dato ha cause diverse e complesse, per citarne qualcuna: l’ipertrofico  ricorso allo strumento penale per la gestione dei fenomeni sociali (come ad esempio l’avanzare della povertà e del conflitto sociale), da una parte con l’introduzione di nuove fattispecie di reato, dall’altra con l’aumento dei massimi edittali dei reati già esistenti; trattare la devianza dovuta a tossicodipendenza quasi esclusivamente col carcere, invece di incrementare l’ingresso in centri e percorsi di recupero dalle dipendenze che andrebbero ad incidere anche sul problema della recidività; spasmodico uso della custodia cautelare in carcere.

Quest’ultima, lungi dal rappresentare, come previsto nell’architettura del nostro sistema processuale, l’extrema ratio, si rivela sempre più spesso la regola. Oltre il 30% delle persone attualmente ristrette è giudicabile. La metà in attesa del primo grado di giudizio.

Di recente, su questo si è ampiamente espressa anche la Procura Generale della Corte di Cassazione con un documento, con cui richiamava l’attenzione delle varie procure dislocate sul territorio, invitando ad un ricorso cauto alla detenzione carceraria spingendo ad un bilanciamento tra le esigenze cautelari e il diritto alla tutela della salute individuale e collettiva, da considerarsi come prevalente. In tale documento, il Pg della Cassazione, Giovanni Salvi, invitava inoltre tutte le procure ad alleggerire la pressione nei penitenziari, poiché il rischio epidemico è concreto ed attuale, e ad adottare misure alternative, affermando che bisogna mantenere in carcere solo chi è davvero pericoloso.

In realtà è quello che da settimane stanno ripetendo magistrati, avvocati, accademici, direttori e operatori penitenziari, solo che il Governo continua a fare orecchie da mercante.

Il moltiplicarsi di casi di detenuti infetti nelle carceri impone di prendere provvedimenti al più presto, i detenuti hanno paura e le proteste continuano. Tutti i reclusi hanno diritto ad avere delle risposte concrete e immediate.

È necessario, non solo applicare gli strumenti già esistenti nel nostro ordinamento, ma prevedere meccanismi automatici di uscita dal carcere, consentendo ai più di scontare la pena presso il proprio domicilio, senza gravare sugli uffici di sorveglianza, già oberati di lavoro in condizioni ordinarie. Occorre prescindere da strumenti personalizzati e modificare i requisiti di accesso ai benefici in chiave oggettiva: questo è l’unico modo per fronteggiare l’attuale rischio epidemico e tutelare la salute pubblica.

Appare opportuno, inoltre, che – salva la futura necessità di mettere in campo un serio ragionamento per superare la perenne emergenza delle carceri -, in sede di conversione del d. l. vengano adottati provvedimenti immediati come:

  • L’estensione dell’affidamento in prova in casi particolari di cui all’art. 47-bis l. n. 354/75 anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19, con finalità anche di assistenza terapeutica;
  • L’estensione della detenzione domiciliare di cui all’articolo 47-ter, co. I, l. n. 354/75 senza limiti di pena, anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19;
  • la concessione a tutti i detenuti che usufruiscono della misura della semilibertà di trascorrere la notte in detenzione domiciliare;
  • la trasformazione, salvo motivati casi eccezionali, dei provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone che si trovano a piede libero in provvedimenti di detenzione domiciliare;
  • l’estensione della detenzione domiciliare prevista dalla l. n. 199/2010, come successivamente modificata dalla l. n. 146/2013, ai condannati per pene detentive anche residue fino a trentasei mesi;
  • l’estensione della liberazione anticipata fino a 75 giorni a semestre, con norme applicabili retroattivamente per tutto il 2018.

 

Sportello a tutela dei diritti delle detenute della c.c. di Pozzuoli – Antigone Campania

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa
Argomenti:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *