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Coronizzazione del mondo e resistenze africane

C’è corona e Corona. Quella di spine è di attualità, in questi giorni di settimana, tra chiese, cattedrali, moschee e piazze desertate. Anche la maschera che copre e protegge simbolicamente dall’epidemia è, a suo modo, una corona di pezza o di materiale adatto all’uso.

Poi c’è la corona di notizie che procede senza interruzione e in tempo reale, al propagarsi o al regredire del virus. Anche in questo caso c’è un centro e una periferia che dicono di essere sulla stessa barca. Si tratta, naturalmente, di una finzione, perché, ad esempio, le barche e le navi di profughi, rifugiati e migranti che fuggono dalla Libia o altri paesi, non hanno diritto di approdare sulle italiche sponde.

C’è barca e barca perché c’è mondo e mondo e dunque c’è corona e Corona. Quella regale va d’ufficio a coloro che hanno dato la vita perché altri l’abbiano avuta in cambio. L’unica corona che poi conti perché dorata di eternità, nome impreciso affidato a coloro che hanno vissuto in pienezza la vita.

C’è la corona della morte che avvolge come non mai, società che di lei, la morte, avevano decretato una tacita cancellazione culturale. I cimiteri trasformati in giardini ecologici da visitare ad ore, con l’accortezza di bandire ogni possibile segno di conforto o di allusione ad un altrove che si smarchi dalla censura operata sul limite dell’umana esistenza.

La stoltezza di una croce o la semplice allusione alla caducità della vita che, dimentica della sua fragilità, si è immaginata immortale nei consumi.

La nostra Africa tiene, come sempre per caso, per virtù o per noncuranza. Si erano preconizzati nel Continente, a causa della pandemia, milioni di morti. Una corona infinita di decessi viste le carenti strutture sanitarie già in tempi normali.

Era un non fare i conti con altri fattori che interagiscono col mistero e l’imprevedibilità del cammino del virus in questione. Una certa resistenza dovuta alla giovinezza della popolazione, l’assunzione pregressa di alcuni farmaci anti malarici e anti tubercolotici, un minore inquinamento atmosferico e, più in generale, l’abitudine ad epidemie ricorrenti e pertinaci.

La morte e la vita da queste parti camminano assieme perché tra i due mondi, quello visibile e quello invisibile degli antenati, c’è giusto una corona di separazione, come un ponte o una passerella che mai è stata chiusa.

Le nostre corone sono i figli, numerosi come stelle, che continuano a circolare, giocare e un certo numero di loro a mendicare, sulle strade impolverate della capitale Niamey. Alcuni di loro, negli incroci e con la complicità di semafori compiacenti, impongono ai conducenti la pulizia dei vetri, propongono inutili fazzoletti di carta, mostrano improbabili guinzagli per cani e vendono mascherine, ormai obbligatorie, verdi per tutti e nere per le signore.

Da noi, qui, in questi giorni la corona è fatta di polvere che, ovviamente, non rispetta le distanze sociali e avvolge e seduce come sa fare, cose, persone, progetti e coprifuoco cittadino dalle 19 alle 6 di mattina.

Col caldo, secondo un’assodata tradizione locale, si sono intensificati i tagli alla corrente elettrica in città. In campagna il problema non si pone neppure visto che la luna, con la sua corona di luce, assicura la manutenzione delle vie di erogazione.

Per chi ha l’acqua in casa, una minoranza finora, risuona l’invito a lavarsi spesso le mani, specie tornando dal mercato o da altre operazioni pubbliche. Nei taxi e sulle motociclette si è drasticamente ridotto il numero di passeggeri per salvaguardare le distanze.

Alcune ONG, una vera e propria corona umanitaria, si fanno fotografare mentre affiggono manifesti alle rotonde, che ricordano ai cittadini l’applicazione delle ‘barriere di sicurezza’.

La corona di gloria è in fase di finitura presso i cittadini che resistono alla ‘coronizzazione’ del tempo, dello spazio e del futuro. A loro, inventori di inediti paesaggi umani, appartiene di diritto la corona che, come un migrante, continua ad attraversare frontiere e affida al vento il proprio cammino.

Sono coloro che intravvedono le sponde di un’utopia che da isola si è trasformata in una corona di sabbia.

Hanno imparato ad abitare l’incertezza e fanno tesoro della fragile vulnerabilità delle parole non dette.

L’ultima loro corona è quella di luce, che si indossa di mattina, il primo giorno dopo il sabato.

 

 Niamey, Pasqua 2020

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