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Gli “illuminati” di Le Monde a sostegno del golpista Guaidò

Nella sua edizione del 12 giugno, non potendo dare spazio ai presidenti Donald Trump (Stati Uniti), Jair Bolsonaro (Brasile) e Iván Duque (Colombia), troppo screditati per essere ascoltati, il quotidiano francese Le Monde ha offerto lo spazio per una vergognosa “tribuna” dal titolo “Salviamo il Venezuela insieme” al loro “protetto”, il “presidente ad interim” e auto-proclamatosi del Venezuela, Juan Guaido.

L’ex caporedattore de Le Monde Diplomatique, Maurice Lemoine, autore di numerosi libri e profondo conoscitore dell’America Latina,  ha smontato l’articolo e la retorica della destra neoliberista e golpista venezuelana e internazionale.

Traduzione a cura di Andrea Mencarelli dell’articolo pubblicato sul sito Mémoire des Luttes.

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Chi oserebbe, oggi, farsi forte dell’appoggio di Donald Trump (parliamo di qualsiasi essere umano dotato di ragione)? Senza arrivare a fare un bilancio di oltre tre anni di mandato, la sua gestione della pandemia di Coronavirus e della crisi razziale seguita alla morte dell’afroamericano George Floyd la dicono lunga sul Presidente degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la crisi sanitaria, tra la fine di gennaio e la metà di marzo c’è stata prima la negazione e poi la minimizzazione della gravità dell’epidemia. Con i suoi episodi grotteschi.

Quando, il 10 febbraio, in un incontro nel New Hampshire, Trump ha dichiarato: “In aprile, non appena le temperature saranno un po’ più alte, questo virus scomparirà. Come per miracolo”.

Quando, nel bel mezzo di una riunione della Casa Bianca il 23 aprile, “pensa” ad alta voce e suggerisce di iniettare candeggina nei polmoni malati o, perché no, un trattamento a raggi ultravioletti? “I briefing di Trump mettono attivamente in pericolo la salute dei cittadini. Boicottate la propaganda. Ascoltate gli esperti. E per favore non bevete il disinfettante”, dovrà dichiarare, sostenuto dalla comunità scientifica, Robert Reich, professore della prestigiosa Università di Berkeley.

Mantenendo la confusione, l’inquilino della Casa Bianca fa addirittura appello ai suoi sostenitori a manifestare per “liberare” dal contenimento gli Stati gestiti da governatori democratici – Michigan, Minnesota, Virginia. La conseguenza: una politica così incoerente uccide i malati piuttosto che la malattia. Gli Stati Uniti sono oggi il principale focolaio mondiale di Coronavirus, con oltre 117.000 morti al momento in cui scriviamo.

Stessa aberrante posizione dopo la morte di George Floyd, asfissiato dal poliziotto Derek Chauvin a Minneapolis. La situazione sta provocando un movimento storico di rabbia, tutte le comunità messe insieme (tranne quelle dei cristiani bianchi evangelici, la base elettorale del presidente). Senza una parola di empatia per la vittima e la sua famiglia, Trump parla di dispiegare l’esercito per portare la calma nelle città dove ci sono grandi manifestazioni contro la violenza della polizia e la discriminazione razziale.

Anche le figure del Partito Repubblicano si oppongono ora al modo in cui l’uomo d’affari gestisce il paese. Dalle colonne della rivista The Atlantic, il suo ex ministro della difesa, James Mattis, si è fatto avanti: “Nella mia vita, Donald Trump è il primo presidente che non cerca di riunire gli americani, che non fa nemmeno finta di provarci. Invece, cerca di dividerci. Stiamo pagando le conseguenze di tre anni di gestione infantile”.

Ancora più significativo, l’attuale Presidente del Pentagono Mark Esper ha annunciato in una conferenza stampa la sua opposizione all’uso dell’Insurgency Act, che, per ristabilire l’ordine, permetterebbe ai militari di essere impiegati contro i manifestanti.

Nella sua logica imperialista, nella sua ossessione di distruggere il multilateralismo e il diritto internazionale, la grande zampa ruvida di Trump arriva al punto di minacciare di abbandonare l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) tagliando per sempre i fondi e di autorizzare sanzioni economiche – la sua arma preferita contro i paesi sovrani che non gli piacciono – contro qualsiasi magistrato o funzionario della Corte Penale Internazionale (CPI) che indagherebbe o accuserebbe personale militare statunitense “senza il consenso degli Stati Uniti” [1]. C’è bisogno di andare avanti nella spiegazione?

Chi (parliamo dei responsabili) avrebbe ancora il coraggio di sostenere il presidente brasiliano Jair Bolsonaro? Già nel 2016 questo mediocre parlamentare di estrema destra aveva annunciato il suo tenore: “Il biglietto da visita per un membro marginale del MST [Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra] è una cartuccia da 7,62”.

Nostalgico del la dittatura militare giunta al potere grazie al colpo di Stato parlamentare contro Dilma Rousseff e alla detenzione arbitraria di Luiz Inácio Lula da Silva, Bolsonaro ha nominato un ministro degli Esteri a sua immagine: Ernesto Araujo. Ossessionato dalla “minaccia comunista“, quest’ultimo vede in Trump “il salvatore dell’Occidente“.

Un negazionista come il suo mentore al Nord, di fronte alla pandemia, Bolsonaro “gestisce” la cosa allo stesso modo. Il Ministro della Sanità, il popolare Luiz Henrique Mandetta è stato licenziato in aprile per aver sostenuto il distanziamento sociale ed espresso il suo disaccordo con la politica del governo federale. È stato sostituito da un milionario, Carlos Wizard, privo di qualunque esperienza nel settore sanitario.

Nel tentativo di nascondere la disastrosa realtà di Covid-19 – oltre 44.000 morti – mentre il presidente continua a negare la sua gravità, le autorità hanno cercato di cambiare il modo in cui contano i casi di contaminazione e i decessi. La Corte Suprema è dovuta intervenire per impedirglielo.

Allo stesso modo, il giudice Marcio Santoro Roch ha dovuto annullare un decreto presidenziale emesso il 27 marzo per escludere chiese, templi religiosi e uffici della lotteria dalle misure di quarantena imposte in alcuni Stati.

Durante una riunione ministeriale tenutasi il 22 aprile, Bolsonaro, tra insulti e commenti velenosi, ha chiesto alla popolazione di essere armata per impedire che una dittatura si impadronisca del Paese. Nel mirino, i sindaci e i governatori che adottano misure contrarie alle sue raccomandazioni nella lotta contro il flagello della salute.

La tensione in Brasile è in forte aumento, ma non solo a causa della pandemia. Il 19 aprile, a Brasilia, arringando i manifestanti che, infrangendo la quarantena, si erano riuniti davanti alla Caserma Generale dell’Esercito, Bolsonaro ha di fatto legittimato la loro richiesta: un intervento militare e l’attuazione della Legge Istituzionale n. 5 (AI-5). Quest’ultimo aveva permesso, nel 1968, di abolire molte garanzie costituzionali e di chiudere il Congresso.

Queste posizioni testimoniano l’imbarazzo dell’estrema destra brasiliana. Un giudice della Corte Suprema, Celso de Mello, aveva autorizzato l’apertura di un’indagine sulle accuse secondo cui Bolsonaro aveva tentato di interferire nell’attività della Polizia federale per scopi politici. L’obiettivo era quello di farlo sostituire come capo per evitare indagini sui suoi figli.

Inoltre, la Corte Superiore Elettorale ha aperto un’indagine per stabilire se, durante la campagna presidenziale del 2018, il “candidato Bolsonaro” abbia utilizzato reti illegali che diffondono “fake news” – il che, di fatto, metterebbe in discussione la sua elezione.

Da allora, il tono contro lo Stato di diritto si è alzato. Il 21 maggio, il deputato federale Bia Kicis (PSL-GO), alleato del capo dello Stato, ha suggerito un “intervento militare costituzionale” nel caso in cui al capo dello Stato continui a essere impedito di governare.

Mentre si moltiplicano le voci che chiedono le sue dimissioni o una procedura di “impeachment”, Bolsonaro avverte esplicitamente (13 giugno) la Corte suprema e il Congresso – dove non ha la maggioranza – che “le Forze armate non obbediscono a ordini assurdi” e che non accetteranno il risultato di un eventuale giudizio politico volto a destituirlo.

Per i brasiliani, il messaggio è chiaro: mostrando il suo desiderio di arrogarsi tutto il potere, attaccando deliberatamente i corpi costituiti, Bolsonaro sostiene niente di meno che un ritorno ai metodi della dittatura militare del passato.

Chi (parliamo di cittadini mediamente informati) si congratulerebbe per la gestione del presidente colombiano Iván Duque? Firmati nel 2016 con la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), gli accordi di pace sono stati stracciati. Nella più totale impunità, ogni ventiquattr’ore, un leader sociale o popolare viene assassinato.

Gli scandali seguono gli scandali. Veniamo a sapere che nel 2019, nella più totale illegalità, i membri dei servizi segreti dell’esercito hanno intercettato e spiato 130 persone – magistrati, oppositori, giornalisti (tra cui giornalisti del New York Times, del Wall Street Journal e del National Geographic) [2].

Si è scoperto che l’attuale vicepresidente, Marta Lucía Ramírez, ha pagato 150.000 dollari di cauzione nel 1997 per il rilascio del fratello Bernardo Ramírez Blanco, arrestato a Miami per traffico di droga, mentre era sotto processo. La sua condanna è stata minima in considerazione delle accuse a suo carico, ma per più di 20 anni in Colombia, Marta Lucía Ramírez ha proseguito la sua carriera politica senza mai rendere pubblica questa informazione.

Di fronte alle proteste provocate da questa rivelazione e alle richieste di dimissioni da parte di alcuni senatori, la destra si è mobilitata per difendere la “perseguitata”. L’intervento più notevole è stato quello di Samuel Azout, “rispettabile uomo d’affari”, ex Alto consigliere per la prosperità sociale del presidente Juan Manuel Santos, quando ha dichiarato: “Chi non ha un parente o un amico che è stato un trafficante di droga dovrebbe scagliare la prima pietra” [3]. Questo almeno ha il merito della chiarezza.

Va notato a questo proposito che, dallo scorso maggio, il marito del vicepresidente, Álvaro Rincón Muñoz, si è dovuto spiegare in tribunale per i suoi legami d’affari, nel settore immobiliare, con Guillermo León Acevedo, alias “Memo Fantasma”, noto per i suoi legami con i paramilitari e i trafficanti di droga. E che la Commissione d’inchiesta e d’accusa della Camera dei Rappresentanti ha aperto un’inchiesta preliminare contro lo stesso presidente Duque, implicato nella “Ñeñepolítica”.

Per la cronaca: prima della sua morte per assassinio nel maggio 2019, l’allevatore di bestiame José Guillermo Hernández Aponte, detto “Ñeñe”, notoriamente vicino ad ambienti mafiosi, ha rivelato “acquisti di voti” e brogli elettorali organizzati sulla costa caraibica e nella regione di Guajira per promuovere l’elezione dell’attuale capo di Stato [4].

In queste condizioni, dobbiamo stupirci della recente nomina, ma soprattutto particolarmente cinica, di Jorge Rodrigo Tovar, figlio dell’ex-paramilitare Rodrigo Tovar Pupo, alias “Jorge 40”, al posto di Coordinatore per le Vittime del Conflitto Armato all’interno del Ministero dell’Interno?

Congedato nel 2006, estradato negli Stati Uniti nel maggio 2008 per traffico di droga, poi rilasciato dopo dodici anni di prigione, “Jorge 40”, ex comandante del blocco settentrionale delle Forze Unite di Autodifesa della Colombia (AUC), è direttamente responsabile di 333 massacri nell’Atlantico, nei dipartimenti di Cesar, Magdalena e Guajira, con un bilancio di 1.573 vittime [5].

È stato escluso dal Programma Giustizia e Pace, anche se è stato particolarmente indulgente, come chiave di volta della strategia del presidente Uribe nei confronti dei suoi alleati, per non aver rivelato nulla degli atti commessi sotto i suoi ordini e del suo totale disinteresse per le loro vittime.

Un figlio non può essere ritenuto responsabile dei crimini del padre. Ma, ha chiesto il deputato Inti Asprilla (Green Alliance), in linea con un sentimento ampiamente condiviso, “come si risolverà il conflitto di interessi: ad esempio, quando le vittime di suo padre verranno nel suo ufficio?” [6] Sapendo che difende pubblicamente il suo progenitore, considerandolo un “prigioniero politico negli Stati Uniti” e un “eroe”.

Ultima polemica in ordine temporale. L’arrivo nel Paese dei primi cinquanta militari americani di una Brigata di Assistenza alle Forze di Sicurezza (SFAB), per un totale ancora indeterminato nel prossimo futuro – forse anche 800.

Per una tale incursione di una forza straniera sul territorio nazionale, il Senato colombiano avrebbe dovuto dare la sua autorizzazione. Non è stato neanche consultato. L’obiettivo annunciato dello schieramento: la lotta al traffico di droga (a vent’anni dall’inizio del Plan Colombia – 10 miliardi di dollari per lo stesso presunto obiettivo – firmato dai presidenti Bill Clinton e Andrés Pastrana!).

Con una particolarità rilevata, tra l’altro, dal senatore Iván Cepeda (Polo Democratico Alternativo; PDA): il manuale operativo di queste Forze Speciali “menziona esplicitamente la funzione di consulenza alle milizie non governative e agli associati irregolari”.

Bisogna spiegare chi sono i gruppi illegali? A parte i guerriglieri ancora attivi, per definizione esclusi da tale alleanza, esistono solo due tipi (strettamente correlati): i paramilitari (ribattezzati “bande criminali emergenti”) e i trafficanti di droga. Per combattere le attività illecite di cui sono i principali protagonisti? Più probabilmente: con gli occhi rivolti verso un certo paese vicino (a caso: il Venezuela).

Trump, Bolsonaro, Duque [7]… I difetti, le disgrazie e il sudiciume che macchiano i loro mandati sono unanimemente condannati, e non solo a sinistra. È difficile per chiunque difenda una causa o intenda mettere in scena la propria rispettabilità rivendicare pubblicamente il sostegno di tali “partner”. Anche se fossero il tuo “boss” (Trump) e i tuoi due partner privilegiati.

Di fronte agli umani dotati di ragione, alle persone responsabili e ad altri cittadini moderatamente informati di cui sopra, la promozione di tale fratellanza sarebbe molto significativa. E quindi controproducente.

Una situazione molto scomoda per l’autoproclamato presidente del Venezuela Juan Guaido, il loro protetto. Sta perdendo slancio in patria e all’estero. Grandi fazioni dell’opposizione venezuelana non credono più in lui. Hanno anche intenzione di metterlo fuori servizio.

Dal settembre 2019, i settori “responsabili” della destra anti-Chavista stanno negoziando con il governo dell’autentico capo di Stato, Nicolás Maduro. Insieme stanno preparando il rinnovo del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE), in vista dell’organizzazione delle elezioni parlamentari nel 2020. Pur avendo la maggioranza in Parlamento, l’opposizione moderata e i chavisti, a causa dell’ostruzione dei radicali, non hanno i due terzi dei voti necessari per nominare i nuovi rettori del CNE. La situazione è quindi ad un punto morto.

Come previsto dalla Costituzione, la Corte Suprema di Giustizia (TSJ), con l’approvazione del diritto moderato, li nominerà quindi (il 13 giugno). Questo porterà anche a grandi spaccature e lotte per il controllo dei partiti tradizionali – Action Démocratique, Primero Justicia – tra i sostenitori di un’uscita politica e i pazzi pro-Guaido.

Una catastrofe, una grande sconfitta politica per Washington (e i suoi sostituti dell’Unione Europea), l’estrema destra e il capo di Stato immaginario che, in nessun caso, vuole una prossima elezione. Hanno bisogno di “far cadere” Maduro nel caos, nella violenza e nello spargimento di sangue. Da qui la controffensiva lanciata diverse settimane fa da Guaido. Ma chi può prendere il posto dei suoi ingombranti partner nel lavoro di propaganda che deve svolgere?

Per il quotidiano francese Le Monde, e per quanto riguarda la Repubblica Bolivariana, “tutti i compromessi sono sul tavolo“. Nella sua edizione di venerdì 12 giugno, è dunque lui che offre una “tribuna” di mezza pagina al protetto di Trump, Bolsonaro e Duque.

Titolo: “Salviamo il Venezuela insieme“. Nessuna sorpresa nel testo, che porta la classica argomentazione dell’estrema destra “golpista” e “trumpista” venezuelana dal 2002. Obiettivo principale (e, in un certo senso, piuttosto divertente): “Chiediamo alla comunità internazionale di essere particolarmente vigili sugli sforzi di Nicolas Maduro per porre definitivamente fine alla democrazia in Venezuela. Infatti, intende organizzare nuove elezioni legislative quest’anno”.

Invece, il leader dell’imperialismo e della reazione propugna un “governo di emergenza nazionale”. Non costa nulla, lucida con qualche colpo di spazzola brillante sostenuta dalle “trombe” dell’ex “socialista” Jean-Yves Le Drian, ministro degli Affari europei ed esteri, che si è rivolto al presidente di destra Emmanuel Macron.

Le Monde, naturalmente, fa la sua parte per l’indebolimento. Destinato a rimanere stampato nella mente del lettore, composto in lettere maiuscole e a colori, il sottotitolo riprende la più spettacolare delle accuse di Guaido (e quelle di Trump, il suo capo [8]): “La realtà è questa: una narco-dittatura ha sequestrato le istituzioni e confiscato tutto il potere in Venezuela”.

Alla fine dell’ultima colonna, come dovrebbe essere, scritta anche dal quotidiano, c’è la cosiddetta “nota di firma”: “Juan Guaido Marquez è riconosciuto come “presidente ad interim” del suo Paese dagli Stati Uniti, dalla Francia e da più di cinquanta Paesi”.

Ah! No! È un po’ troppo poco, giovanotto!”, avrebbe reagito Cyrano de Bergerac di fronte a tale provocazione. “Si potrebbe dire… Oddio! …tante cose insomma… Variando il tono – per esempio, considerate…”.

Juan Guaido, diventa deputato nel 2015, con 91.000 voti (sui 20 milioni iscritti nelle liste elettorali). Non ha espresso alcuna disapprovazione, biasimo o critica quando, il 4 agosto 2018, un tentativo di assassinare Maduro con due droni carichi di esplosivo è fallito per un pelo.

È stato nominato “presidente ad interim” il 23 febbraio 2019 dall’amministrazione Trump dopo il giorno prima che il vicepresidente Mike Pence chiedesse all’opposizione di scendere in piazza. Si proclama capo di stato su un pezzo di marciapiede.

Un mese dopo, è stato aiutato da noti criminali – il narco-paramilitare colombiano Los Rastrojos (1.500 vittime) – a passare clandestinamente in Colombia [9]. Alla fine di novembre, il suo pseudo ambasciatore in Colombia, Humberto Calderón Berti, è stato licenziato dopo aver denunciato la significativa appropriazione indebita di fondi per presunti “aiuti umanitari” da parte dell’equipe incaricata da Guaido di amministrarli.

Senza alcuna preoccupazione per le sofferenze inflitte alla popolazione, l’individuo chiede e sostiene le misure coercitive unilaterali imposte dagli Stati Uniti al suo Paese, con l’obiettivo di metterlo in ginocchio economicamente (ultimo episodio: il Dipartimento dei Trasporti statunitense ha appena multato per 450.000 dollari la compagnia aerea panamense COPA  per aver “illegalmente” trasportato 15.000 venezuelani tra gli Stati Uniti e il loro Paese, evitando un volo diretto e “proibito”).

Guaido saccheggia e lascia che il potere imperialista saccheggi i beni dello stato venezuelano, compresi quelli della compagnia petrolifera statale PDVSA, all’estero. Il 30 aprile 2019, in compagnia di un piccolo gruppo di militari, ha tentato una pericolosa partita di poker fingendo di aver “preso” la base aerea La Carlota di Caracas per rovesciare sia l’esercito che la popolazione. Nessuno lo segue. Il colpo di stato fallisce. Se fosse riuscito, avrebbe scatenato una tragedia.

Il 16 ottobre 2019, Guaido ha firmato un contratto con Jordan Goudreau, ex berretto verde statunitense e capo di una società di sicurezza privata con sede in Florida, Silvercorp [10]. In cambio di 212,9 milioni di dollari per un’operazione della durata totale di 495 giorni, il mercenario si è impegnato a consigliare e assistere la squadra del presidente eletto da Trump, Bolsonaro e Duque “nella pianificazione e nell’esecuzione di un’operazione di cattura/arresto/eliminazione di Nicolás Maduro” (per i rispettabili giornalisti di Le Monde che non avessero un dizionario dei sinonimi, va notato che “eliminare” in tale contesto significa “assassinare”).

È lo stesso Goudreau che, insieme ad altri due mercenari americani, il 3 maggio era dietro l’operazione Gedeón: un tentativo di incursione da parte di diverse decine di commando (principalmente disertori venezuelani) per sequestrare Maduro, “eliminare” alcuni leader chavisti e creare confusione – sapendo che, nelle immediate vicinanze, nei Caraibi, gli Stati Uniti hanno dispiegato una flotta navale, compresa una portaerei, in grado di intervenire per motivi “umanitari”, al fine di “salvare vite” in caso di caos [11].

Addestrati dagli uomini di Goudreau in Colombia, gli aggressori hanno beneficiato della collaborazione non dei Rastrojos ma, questa volta, di Elkin Javier López Torres, alias “Doble Rueda”, uno dei principali “capi” del traffico di droga nella regione di Guajira.

Alla fine di questo nuovo fallimento (che conferma i legami mafiosi del suo movimento), Guaido non nasconde la sua soddisfazione quando sente Donald Trump dichiarare di aver “circondato” il Venezuela a un livello tale “che nessuno immagina” e che “qualcosa accadrà” perché Washington “non tollera più la situazione” [12].

A ciascuno i propri riferimenti. Per l’anti-Bolsonaro, il rispettato ex presidente brasiliano “Lula” – eletto politico dell’anno nel 2004, quando era alla moda (per buoni motivi) dal quotidiano Le Monde –, Guaido “avrebbe dovuto stare a lungo in prigione per la violenza omicida da lui co-organizzata e il suo tentativo di colpo di Stato” [13].

Tutto sommato, questo è ciò che avrebbe potuto apparire nella “nota di firma” di un quotidiano. Niente del genere. Perché no? La domanda è meno innocente di quanto sembri.

Non diremo qui che Le Monde è “sotto il tallone del potere” – sarebbe particolarmente offensivo. Ma vale la pena di notare che, nella migliore delle ipotesi, la “tribuna di Guaido” è apparsa proprio il giorno in cui l’ambasciatore di Emmanuel Macron in Venezuela, Romain Nadal, regolarmente indicato per il suo ostentato sostegno al presidente fantoccio, doveva essere ascoltato dal Senato.

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